L’idea che la democrazia di tipo occidentale si possa esportare e possa apparire a tutti come il migliore dei mondi possibili sembra tramontata a Kabul
Najib Ullah, l’uomo che i russi lasciarono al potere a Kabul allorché si decisero a prendere atto della loro sconfitta afghana, fu molto bravo e combatté l’estremismo per due anni prima di ritrovarsi i Talebani nella capitale ed essere sommariamente giustiziato. Ashraf Ghani, l’uomo degli Stati Uniti e della Nato, è stato più pragmatico e molto meno coraggioso, lasciando il paese senza combattere a bordo di uno degli ultimi aerei mentre le forze di sicurezza nazionali − circa 130 mila uomini addestrati e armati con grande spesa dall’Occidente − si dissolvevano come neve al sole in un crepuscolo di regime privo di qualsiasi dignità.
Del resto poi come si poteva pretendere da loro un comportamento diverso, nel quadro complessivo di un abbandono che, comunque lo si guardi, altro non può apparire che come un tradimento e una fuga da un paese che era stato illuso per più di venti anni dalle promesse dell’Occidente? Così ci ritroviamo ora a dover fare i conti con il bilancio estremamente passivo di una sconfitta le cui conseguenze interesseranno certo in primo luogo gli Stati Uniti, potenza egemone destinata a pagarne caramente il prezzo in termini di perdita di faccia e di fiducia nell’arena internazionale, ma anche la Nato, che perde la sua prima guerra, nonché tutti quei paesi, compreso il nostro, che per una ragione o per l’altra si sono associati per quasi venti anni a questa riedizione del “grande gioco” del ventunesimo secolo. In una parola è l’Occidente intero che ritorna sconfitto da Kabul e con lui ritorna da perdente anche l’idea, motivante per la nostra presenza in Afghanistan, che la democrazia di tipo occidentale si possa esportare sotto qualsiasi clima e debba necessariamente apparire a chiunque come il migliore dei possibili sistemi di governo.
In Afghanistan infatti, nonostante avessimo avuto a disposizione mezzi economici eccezionali e quasi venti anni di tempo per lavorare, essa è apparsa chiaramente perdente nel momento in cui ha dovuto confrontarsi sul terreno con l’ideologia tradizionale dei Talebani che − diciamocelo chiaramente! − non avrebbero potuto trionfare con la rapidità con cui hanno vinto se non avessero goduto dell’appoggio, perlomeno passivo, della stragrande maggioranza della popolazione afgana. Si tratta di un punto su cui faremmo bene a riflettere, anche perché considerato l’andamento delle cose nel mondo islamico in generale e soprattutto in quel mondo turco arabo tanto prossimo all’Europa sarebbe bene che in futuro noi avessimo le idee ben chiare su quanto l’Islam può accettare e quanto invece rifiutare del nostro attuale sistema. Nei prossimi giorni, nelle prossime settimane, il poco edificante capitolo afghano della nostra storia verrà probabilmente discusso ed esaminato a fondo, nel quadro di una ricerca indirizzata, o almeno così speriamo, più alle lezioni da trarne che alla caccia di presunti colpevoli da crocifiggere con le responsabilità.
Sin da ora comunque vi sono alcuni punti che appaiono ben chiari e possono se non altro essere evidenziati per successivi approfondimenti. Il primo, cui si è già fuggevolmente fatto cenno, è la perdita di faccia e di fiducia sulla scena internazionale da parte di tutti i protagonisti della vicenda. Una perdita tanto più grave in quanto essa si innesta, quasi come una conclusione, su un rosario di promesse non mantenute e di alleati abbandonati dall’Occidente nel momento in cui il prezzo degli scontri in atto rischiava di ricadere non soltanto su di loro ma anche su coloro che avrebbero dovuto svolgere il ruolo di garanti. A peggiorare le cose poi questa volta ci si sono messi anche i mass media, con quelle terribili immagini di aerei in volo da cui cadono civili afgani che ricordano in maniera impressionante − almeno nella sostanza anche se non nella forma − quelle di tanti anni fa relative all’abbandono di Saigon e agli ultimi decolli degli elicotteri dal tetto della ambasciata Usa.
Una perdita di fiducia, soprattutto nelle garanzie americane, che si rivela poi tanto più grave nel momento in cui si ragiona su di essa non tanto in termini di relazioni dell’Occidente con il resto del mondo ma piuttosto di rapporti interni fra le componenti dell’Occidente stesso. Per dirla in maniera più chiara, il problema che ci si pone è quale valore residuo possa avere a questo punto l’Alleanza Atlantica, sostanzialmente basata su di una garanzia militare concessa dagli Stati Uniti agli altri suoi membri, ma che domani Washington potrebbe di punto in bianco giudicare troppo onerosa, come avvenuto nel caso dell’Afghanistan. Si tratta anche in questo caso di un punto su cui sarebbe bene riflettere a fondo, magari anche orientandoci verso quelle soluzioni alternative che sino ad oggi noi europei avevamo imprudentemente scartato.
Un altro punto su cui far mente locale è come nell’ambito della galassia islamica la vittoria dei Talebani indubbiamente appaia destinata a rinforzare quella movenza estremista che è già massicciamente presente nell’ecumene sunnita e che anche nel mondo mediterraneo più prossimo a noi guadagna terreno di giorno in giorno. Da seguire con attenzione sarà inoltre in futuro l’andamento di quella relazione che non si è mai realmente interrotta fra l’Islam afghano e quello pakistano. Sino ad ora in questo rapporto è stata Islamabad a prevalere su Kabul ma l’onda del recente successo potrebbe invertirne il senso: una prospettiva terrificante, considerato come il Pakistan sia potenza nucleare.
Uno sguardo alla carta dell’Asia Centrale ci mostra infine come nel settore delle grandi potenze la Cina appaia come il paese che può trarre i maggiori vantaggi dal cambiamento di governo a Kabul. Anche se la sua situazione con la minoranza uigura le impedisce di avere rapporti diretti troppo stretti con un governo islamico fondamentalista, le ottime relazioni con il Pakistan, ormai strettamente coinvolto nel progetto delle Vie della Seta, consentiranno infatti a Pechino quella presenza costante e discreta a Kabul che è tutto ciò che le serve per poter sfruttare le occasioni economiche, minerarie ed industriali che si presenteranno. Il suo schieramento nell’area in funzione anti indiana esce inoltre notevolmente rafforzato dal modo in cui l’Afghanistan dei Talebani conferisce ora ad Islamabad quella profondità strategica e politica di cui il Pakistan mancava.
In conclusione, avremmo così trascorso quasi venti difficili anni in Afghanistan, speso somme enormi per cercare di fare uscire il paese dal suo Medio Evo, subito perdite dolorosissime in termini di soldati uccisi o feriti. E tutto ciò, in definitiva, soltanto per fare gli interessi di Pechino? C’è da chiederselo. Perlomeno con sconcerto!
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
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Del resto poi come si poteva pretendere da loro un comportamento diverso, nel quadro complessivo di un abbandono che, comunque lo si guardi, altro non può apparire che come un tradimento e una fuga da un paese che era stato illuso per più di venti anni dalle promesse dell’Occidente? Così ci ritroviamo ora a dover fare i conti con il bilancio estremamente passivo di una sconfitta le cui conseguenze interesseranno certo in primo luogo gli Stati Uniti, potenza egemone destinata a pagarne caramente il prezzo in termini di perdita di faccia e di fiducia nell’arena internazionale, ma anche la Nato, che perde la sua prima guerra, nonché tutti quei paesi, compreso il nostro, che per una ragione o per l’altra si sono associati per quasi venti anni a questa riedizione del “grande gioco” del ventunesimo secolo. In una parola è l’Occidente intero che ritorna sconfitto da Kabul e con lui ritorna da perdente anche l’idea, motivante per la nostra presenza in Afghanistan, che la democrazia di tipo occidentale si possa esportare sotto qualsiasi clima e debba necessariamente apparire a chiunque come il migliore dei possibili sistemi di governo.