La vicepresidente, oggi principale figura Dem nella corsa alla Casa Bianca, è stata durante quattro anni l’inviata di Biden in America Centrale per combattere “le cause profonde della migrazione”. Il bilancio non è del tutto positivo, ed apre alcune perplessità sulla possibile relazione di Harris col sud del continente.
“Do not come”. Non venite. Era il 7 giugno del 2021, Kamala Harris stava portando avanti la conferenza stampa che concludeva il suo primo tour da vicepresidente degli Stati Uniti in Centroamerica. Lo scenario era il Palacio Nacional de la Cultura, sede del governo del Guatemala, e la frase venne immediatamente interpretata come una chiarissima presa di posizione del governo Biden intorno al problema dei flussi migratori dall’America Latina verso gli Usa. “Gli Stati Uniti continueranno a far rispettare le proprie leggi e a proteggere i nostri confini. Se arrivate al nostro confine, sarete rispediti indietro”, sentenziò.
Insomma, poco sarebbe cambiato rispetto alla tolleranza zero imposta dall’ex presidente Donald Trump in materia di immigrazione, e a dirlo era proprio la persona incaricata di affrontare la problematica durante il periodo 2020-2024. Biden aveva voluto dare alla propria vicepresidente lo stesso incarico che Barack Obama aveva assegnato a lui nel 2014, quello di coltivare relazioni profonde con le istituzioni e il settore privato centroamericano per condurre politiche mirate a ridurre i flussi migratori verso gli Stati Uniti.
Biden, da espertissimo uomo della politica statunitense e assiduo membro della commissione degli Affari Esteri in Senato, aveva stabilito una meticolosa politica di alleanze con attori molto influenti nella regione durante i suoi 16 viaggi ufficiali in America Latina tra il 2014 e il 2018. Sebbene il problema migratorio non solo non era stato risolto ma si era acuito durante quel periodo, l’amministrazione Obama poteva contare allora su una strategia di lungo termine, forte del sostegno di importanti organizzazioni ed aziende locali. Strategia che Trump e la pandemia si sono incaricati di smantellare nel giro di pochi mesi.
Kamala Harris, figura poco nota allora nel panorama politico latinoamericano, fu incaricata di raccogliere quanto seminato da Biden nella regione a partire dal 2021, e istituzionalizzare una serie di programmi volti a sradicare i motivi dell’emigrazione centroamericana verso gli Usa.
In termini istituzionali si può dire che l’amministrazione Harris ha numeri molto positivi da mostrare. La Partnership for Central America (PCA), lanciata da Harris proprio nel 2021, ha raggiunto a marzo di quest’anno la favolosa cifra di 5,2 miliardi di dollari in investimenti allo sviluppo in Guatemala, El Salvador e Honduras, quasi quattro volte di più rispetto ai fondi raccolti da Biden durante la sua vicepresidenza. Secondo la Casa Bianca, questi investimenti hanno creato più di 70.000 posti di lavoro nella regione, fornito formazione professionale a oltre 1 milione di persone, hanno portato più di 2,5 milioni di persone nell’economia finanziaria formale, e collegato più di 4,5 milioni di persone a Internet. Il programma di Harris ha raccolto il sostegno di decine di organizzazioni, fondazioni e aziende private, disposte a contribuire al finanziamento dei progetti del PAC assieme al governo degli Stati Uniti.
Eppure, il programma portato avanti, nonostante le grandi campagne di marketing montate nei paesi ricettori, è sicuramente una goccia d’acqua in un oceano. Da un lato risulta evidente che non si possono affrontare “le cause profonde dell’emigrazione” con un programma così ridotto rispetto alla dimensione della crisi economica dei paesi della regione. E dall’altro, gli aspetti affrontati dal programma non rappresentano il nucleo della problematica dell’emigrazione secondo molti esperti, come il mantenimento di pochi e potenti oligopoli nell’industria alimentare, l’informalità dilagante nel mondo del lavoro, la debolezza delle istituzioni dedite al monitoraggio e imposizione delle regole legate alla concorrenza e trasparenza nel settore privato ecc…
I risultati concreti ottenuti dalla Vicepresidente in America Latina non sono stati giudicati positivamente né nella regione né negli Usa. Di fatto, la Casa Bianca a metà del 2022, e in vista delle elezioni di midterm di novembre di quell’anno, ha affiancato all’azione di Harris quella della first lady Jill Biden, che in un solo tour a giugno ha visitato più leader latinoamericani di quelli incontrati da Harris in due anni di mandato.
Proprio in quell’epoca si celebrava a Los Angeles il IX Summit delle Americhe, un importantissimo punto di inflessione nella relazione tra gli Usa e i paesi dell’America Latina. L’amministrazione Biden, sotto la pressione dei repubblicani e dei latinos espatriati negli Usa, volle imporre una sorta di clausola democratica all’ora di inviare gli inviti ufficiali alla riunione, escludendo dunque Cuba, Nicaragua e Venezuela dal summit. La reazione da parte dei governi latinoamericani fu molto dura, e diversi presidenti di peso – tra cui il messicano Lopez Obrador, il boliviano Luis Arce e l’argentino Alberto Fernandez, che poi si dovette disdire e partecipò “in nome dei paesi esclusi”- disertarono l’appuntamento in segno di protesta.
Tra i paesi che si rifiutarono di partecipare al Summit c’erano proprio tutti quelli “assegnati” a Kamala Harris per la tessitura della sua rete diplomatica centroamericana: il Guatemala, sotto accusa da parte del Dipartimento di Stato per la nomina della procuratrice generale María Consuelo Porras, iscritta nelle liste dei politici corrotti dell’America Latina secondo la Casa Bianca; El Salvador, in piena controversia con Washington dovuta al piano di introduzione del Bitcoin come valuta legale; e l’Honduras, dove la sinistra guidata da Xiomara Castro aveva appena spodestato l’ex presidente Juan Orlando Hernandez, oggi condannato per narcotraffico negli Usa.
Il caso del Guatemala è forse il più significativo. Si tratta del paese dove, sin da subito, Harris e il suo entourage hanno posto i maggiori sforzi per ottenere risultati tangibili nel breve termine nell’ambito degli investimenti e la lotta alla corruzione. Eppure, il governo Giammattei ha mancato più di una volta gli impegni presi con gli inviati della Casa Bianca, vicepresidente in primis, mettendola spesso in imbarazzo: il procuratore generale del pool anticorruzione, Juan Francisco Sandoval, fu licenziato solo una settimana dopo il discorso pronunciato dalla vicepresidente al Palacio Nacional de la Cultura, e tutti i suoi collaboratori sono dovuti andare in esilio per evitare il carcere. Il cambio di governo ha sicuramente migliorato la relazione, ma le difficoltà interne alle istitutzioni guatemalteche non si sono risolte.
È comunque vero che l’accento posto dalle istituzioni statunitensi sulla lotta contro la corruzione dilagante tra le élite centroamericane non ha certo aiutato il lavoro di Kamala Harris durante gli ultimi anni. Nel dicembre del 2020 il Congresso degli Stati Uniti ha pubblicato la prima versione della famosa Engel’s List, una lista di politici, funzionari e imprenditori di Honduras, El Salvador e Guatemala, colpiti da sanzioni Usa perché considerati parte di schemi corrotti all’interno delle istituzioni dei loro paesi e accusati quindi di impedirne lo sviluppo democratico. La lista è stata aggiornata per tre volte, e dal 2022 include anche il Nicaragua.
Molti dei funzionari con cui Harris dovette sedersi a negoziare, sono stati poi inclusi nella lista delle sanzioni, un biglietto da visita certo poco attraente per i leader locali. Ma che, in teoria, doveva servire a guadagnarsi il sostegno delle popolazioni dei paesi centroamericani, considerate vittime della corruzione e principali beneficiari della presenza statunitense nei loro territori. Una visione quantomeno ingenua, vista l’ostilità poco celata ancora presente nelle società latinoamericane nei confronti degli Usa a causa dei tanti interventi diretti effettuati su questi paesi e, più recentemente, di una politica disumanizzata e aggressiva nei confronti dei migranti latinos tanto al confine come nel territorio Usa.
Come scrisse la Rappresentante Alexandra Ocasio-Cortez di fronte al discorso di Harris in Guatemala: “Gli USA hanno trascorso decenni contribuendo al cambiamento di regime e alla destabilizzazione in America Latina. Non possiamo bruciare la casa di qualcuno e poi incolparlo per essere scappato”.
Insomma, sebbene i piani di cooperazione allo sviluppo servano alla vicepresidente in carica per mostrare precedenti positivi nel suo intervento in America Centrale, la sintonia politica con le strutture di potere locali è tutt’altro che solida. Se a ciò si aggiunge che durante il periodo della gestione Biden gli arrivi di latinoamericani alla frontiera sud col Messico sono praticamente raddoppiati rispetto al periodo di governo di Trump, non c’è da stupirsi se, da un lato e dall’altro del confine si guarda con una certa diffidenza alla capacità di Harris di affrontare le sfide della relazione tra Usa e il sud del continente.
La vicepresidente, oggi principale figura Dem nella corsa alla Casa Bianca, è stata durante quattro anni l’inviata di Biden in America Centrale per combattere “le cause profonde della migrazione”. Il bilancio non è del tutto positivo, ed apre alcune perplessità sulla possibile relazione di Harris col sud del continente.
“Do not come”. Non venite. Era il 7 giugno del 2021, Kamala Harris stava portando avanti la conferenza stampa che concludeva il suo primo tour da vicepresidente degli Stati Uniti in Centroamerica. Lo scenario era il Palacio Nacional de la Cultura, sede del governo del Guatemala, e la frase venne immediatamente interpretata come una chiarissima presa di posizione del governo Biden intorno al problema dei flussi migratori dall’America Latina verso gli Usa. “Gli Stati Uniti continueranno a far rispettare le proprie leggi e a proteggere i nostri confini. Se arrivate al nostro confine, sarete rispediti indietro”, sentenziò.