Il grande gioco del Medio Oriente
Lo scontro sunniti/sciiti è sfociato in un ulteriore conflitto interno sunnita: wahhabismo (petrol-Stati) e Fratellanza Musulmana si sfidano in politica ed economia
Lo scontro sunniti/sciiti è sfociato in un ulteriore conflitto interno sunnita: wahhabismo (petrol-Stati) e Fratellanza Musulmana si sfidano in politica ed economia
L’attenzione dell’opinione pubblica e dei mass media occidentali verso il Medio Oriente è andata scemando negli ultimi mesi. La scomparsa dello Stato Islamico, almeno come entità territoriale, la diminuzione degli attentati in Occidente e l’isolazionismo (altalenante, come vedremo) degli Usa di Trump hanno infatti relegato l’argomento in un cono d’ombra da cui anche le notizie sul dramma dello Yemen escono col contagocce. Ma questo non significa che lo scenario non sia in evoluzione, anzi.
Il recente passato è stato dominato dalla faida tra Arabia Saudita e Iran, che ha infiammato lo scontro settario tra sunniti e sciiti soprattutto in quei Paesi del Medio Oriente in cui le primavere arabe – e non solo – avevano lasciato ferite infette facili da sfruttare. In questo modo è stata cannibalizzata da potenze straniere l’insurrezione siriana contro Assad, fino a renderla di fatto una proxy war; in questo modo il Libano è tornato a essere terreno di scontro (più o meno mediato) tra Teheran e Riad; in questo modo l’Iraq è rimasto in una posizione ambigua – che prova ora a sfruttare a proprio vantaggio, presentandosi come possibile mediatore – tra il vicino iraniano, alleato sciita, e gli altri Paesi arabi; in questo modo l’insurrezione degli Houthi (sciiti) in Yemen è diventata un altro capitolo sanguinoso della guerra per procura tra Arabia Saudita e Iran.
Ma questa dinamica – un po’ per via della rinnovata ostilità americana nei confronti di Teheran, con le ripercussioni negative sul nuclear deal voluto da Obama, un po’ per l’atteggiamento aggressivo di Israele che (al netto delle incertezze sul futuro politico di Netanyahu e della sua coalizione) sembra non aspettare altro che l’occasione giusta per attaccare se non l’Iran almeno la sua proxy libanese di Hezbollah, un po’ per la concorrenza della Russia, alleata ma rivale di Teheran – sembra ormai insufficiente a interpretare i principali movimenti sullo scacchiere mediorientale. Non è ovviamente venuta meno, ma pare meno intensa che nel recente passato.
L’Iran si è ripiegato almeno in parte su se stesso. Continua a sostenere le milizie sciite in Yemen, Libano, Iraq, Siria e non solo, ma se la fase compresa tra il 2014 e il 2017 aveva visto una costante espansione della sfera di influenza iraniana, adesso sembra che Teheran fatichi a mantenere le posizioni guadagnate. Mancano in teoria ancora due anni alle prossime elezioni presidenziali ma, come emerso con il caso delle dimissioni del potente Ministro degli Esteri Javad Zarif (poi respinte dal presidente Hassan Rohani), uno scontro di potere in cui l’ala dura del regime teocratico vorrebbe tornare alla guida del Paese per richiuderlo in un maggiore isolamento bellicoso è già in atto. E su tutto questo aleggia l’incognita della successione dell’Ayatollah Ali Khamenei, che ha da poco compiuto ottant’anni.
Con l’Iran indebolito e tenuto nel mirino da Israele, con sponda americana (Donald Trump pare abbia deciso l’invio di altri 1.500 militari nel Golfo), l’Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo sue alleate – in particolare gli Emirati Arabi Uniti – sembrano aver aumentato l’attenzione verso un’altra linea di frattura interna al Medio Oriente e non solo: quella tra regimi (dittature militari come l’Egitito o regni wahabiti come Riad) e Stati della galassia sunnita che hanno un’agenda diversa – e spesso incompatibile – da quella dei Saud. Si tratta in primo luogo della Turchia e del Qatar, politicamente vicini alla Fratellanza Musulmana e ideologicamente lontani dal wahabismo saudita.
Questa spaccatura non è una novità, anzi. La ribellione siriana, ad esempio, ha pagato duramente la litigiosità tra i suoi “sponsor” che avevano agende diverse, con l’Arabia Saudita che sosteneva alcune fazioni – tanto estremisti salafiti quanto laici – e la Turchia e il Qatar che ne sostenevano altre rivali (spesso legate alla Fratellanza Musulmana). L’Egitto post-primavera araba guidato da Mohamed Morsi era sostenuto dalla Turchia, quello post-golpe militare di Al Sisi è sostenuto da Riad. In Libia il premier islamista – e riconosciuto dalla comunità internazionale – Al Serraj è sostenuto dalla Turchia, il generale Khalifa Haftar dagli Emirati Arabi Uniti e dall’Egitto.
Come evidente dagli esempi visti, un ruolo da protagonista nello scontro interno alla galassia sunnita, lo ricopre Ankara. L’erede dell’Impero Ottomano avrebbe in teoria le caratteristiche necessarie – a livello di popolazione, economia e società – per sostenere il confronto con Riad da una posizione di forza, specie nel lungo periodo, ma il Paese è indebolito, trascinato in basso dalla fase discendente della parabola del suo Presidente. Negli ultimi cinque anni Erdogan ha compromesso le alleanze a occidente, a causa del sostegno americano ed europeo ai curdi siriani nella guerra contro l’Isis (anche se con Trump alla Casa Bianca, e con l’Isis sconfitto, il supporto americano ai curdi è molto meno convinto che con Obama). Di conseguenza, dopo aver perso la prova di forza con Mosca nel 2015 seguita all’abbattimento di un caccia-bombardiere russo, ha finito con l’avvicinarsi a Putin per necessità più che per convinzione. Pagando oltretutto un prezzo salato: accettare la vittoria di Assad in Siria – sacrificando di fatto le ambizioni dei ribelli che aveva sostenuto per anni e ottenendo in cambio da Mosca di poter occupare un pezzo di Kurdistan siriano che faccia da zona cuscinetto sul proprio confine meridionale – e mettere a rischio i rapporti con la Nato. L’acquisto da parte turca del sistema missilistico russo S-400 rischia infatti di generare pesanti ritorsioni, anche economiche, da parte dell’Alleanza atlantica e degli Usa.
In questa situazione Riad ha gioco facile a infierire, soprattutto economicamente, sulle difficoltà di Ankara, che risponde martellando su tutti i punti dolenti dell’immagine saudita nel mondo musulmano: la vicinanza mai così accentuata con Tel Aviv, che sarebbe un tradimento della causa palestinese; il diverso impegno nel sostenere i profughi siriani, fuggiti da una guerra fomentata tanto dalla Turchia quanto dall’Arabia Saudita ma accolti solo dalla prima; l’omicidio Kashoggi che, da ultimo, ha mostrato il volto brutale e sanguinario del regno saudita e del suo uomo forte, il principe ereditario Mohammed Bin Salman. Per la monarchia wahabita, che storicamente cerca di accreditarsi come la paladina di un Islam puro e intransigente, sono critiche indigeste. Ma non è un inedito, anzi, che Riad lasci prevalere la ragion di Stato e la realpolitik sul ferreo rispetto dei princìpi che sostiene di voler difendere e diffondere.
Trump sarebbe anche disposto a sostenere più convintamente Erdogan, nonostante le divergenze sui curdi o i problemi interni alla Turchia per quanto riguarda diritti umani e libertà di stampa, a patto che termini il flirt con Mosca e con Teheran (i tre Paesi si sono avvicinati per gestire l’ultima fase del conflitto siriano). Ma avendo scelto come propri interlocutori principali in Medio Oriente l’Arabia Saudita e Israele, riportare all’ovile Ankara – almeno per ora – sembra difficile. Specularmente Mohammed Bin Salman sembra più interessato a eliminare i concorrenti per la leadership all’interno del fronte sunnita, che non a soprassedere sulle differenze in nome di una comune battaglia contro l’Iran sciita. La pressione su Teheran ovviamente rimane, ma non è una questione così urgente da impedire a Riad di rinfocolare lo scontro con i rivali sunniti.
Oltre alla Turchia, il secondo Stato mediorientale che è in cattivi rapporti con Riad è il Qatar. Come Ankara anche Doha ha intessuto rapporti con la Fratellanza Musulmana, considerata dai Saud un’organizzazione terroristica, ha avuto una linea autonoma (e vicina a quella turca) in Siria, non apprezza la vicinanza dell’Arabia Saudita con Israele e in generale mostra troppa autonomia in politica estera per i gusti dei Saud. Con l’aggravante, rispetto alla Turchia, di essere un piccolo Stato della penisola araba che (secondo i Saud) dovrebbe quindi obbedienza al vicino maggiore. Questa ostilità è sfociata due anni fa in un embargo da parte di Riad, Egitto, Emirati Arabi Uniti e Bahrein (altro Stato satellite dell’Arabia Saudita, dove la popolazione in maggioranza sciita è governata da un monarca sunnita sostenuto anche militarmente da Riad).
Proprio la lista degli assenti, tra chi partecipa a questo embargo, dice però molto su come la linea dura di Riad voluta da Mohamed Bin Salman – contro il Qatar, così come contro l’Iran e la Turchia – fatichi a trovare proseliti anche tra i Paesi storicamente più vicini alla monarchia saudita.
L’Oman per esempio non partecipa né all’embargo al Qatar né alla guerra in Yemen e l’anziano sultano Qabus bin Said al Said da sempre cerca di mantenere il Paese in una posizione di dialogo – politico e commerciale – con l’Iran. Anche il Kuwait, riportano gli analisti, non sembra entusiasta della linea dura con Teheran e di quella morbida con Tel Aviv. Persino la monarchia hashemita al potere in Giordania con Re Abdallah II, che dipende economicamente dagli aiuti di Riad, non sembra apprezzare la leadership del giovane e bellicoso principe ereditario saudita. A inizio maggio è stato rimosso il capo dell’intelligence del Paese con l’accusa di complottare contro il Re e a dicembre erano stati rimossi due fratelli del Re con posizioni chiave nell’esercito e il rumour era che fossero legati ai Saud. Il timore di Abdallah, pare, è che il sostegno saudita al piano di Trump (e del suo inviato, il genero Jared Kushner) per la pace in Israele e Palestina abbia come contropartita l’affidare a Riad la custodia dei luoghi santi per l’Islam di Gerusalemme, a oggi controllati da Amman.
Tra gli altri Paesi arabi non mancano poi Stati in posizione defilata, rispetto ai voleri dei Saud, se non contraria: la Siria ha riallacciato i rapporti con gli Emirati Arabi Uniti ma con Riad è ancora gelo; il Libano è spaccato ma anche nel nuovo Governo, nato a febbraio, Hezbollah e i suoi alleati cristiani (il Presidente, e generale, Michel Aoun in primis) hanno un peso determinante; l’Iraq, per quanto si stia aprendo verso Riad, che ha promesso di finanziare un grande stadio a Baghdad, resta comunque un Paese vicino all’Iran sciita.
Anche in Nord Africa Mohammed Bin Salman può contare su un sostegno a macchia di leopardo: l’Egitto di Al Sisi, sostenuto dai soldi di Riad, è ovviamente tra i più fedeli alleati, ma il crollo delle dittature in Sudan e in Algeria viene vissuto come un pericolo dai Saud (che infatti, almeno in Sudan, stanno finanziando – insieme agli Emirati – i militari perché mantengano il potere) e il Marocco ha preso, dopo il caso Kashoggi, una posizione di netta condanna nei confronti del principe ereditario saudita.
Anche il Pakistan, altro storico alleato dei Saud, sembra poco intenzionato a seguire la linea di Mohammed Bin Salman, tanto contro l’Iran (con cui, anzi, Islamabad ha da poco avviato un progetto di cooperazione in ambito di anti-terrorismo) quanto contro chi, tra i Paesi sunniti, intrattiene relazioni con la Fratellanza Musulmana o ha in generale una linea in politica estera sgradita al principe ereditario. La potenza nucleare asiatica preferirebbe che Iran e Arabia Saudita trovassero un bilanciamento tra i propri interessi che garantisse la stabilizzazione del Medio Oriente e delle regioni limitrofe in Asia e Africa.
Il dilemma che spacca le leadership di tutti i Paesi coinvolti nel Grande Gioco mediorientale – Arabia Saudita e Iran inclusi – alla fine è proprio questo: spartirsi le sfere di influenza cercando un equilibrio o cercare lo scontro? Mohammed Bin Salman pare più per la seconda opzione, e non si è fatto scrupolo a cercare alleanze indigeste per l’opinione pubblica islamica (Netanyahu e Trump su tutti), e teoricamente inconciliabili con un rigido rispetto del wahabismo, per portare avanti la propria agenda. Il tempo del resto sembra remare contro le monarchie del Golfo: a oggi vivono ancora di petrolio e l’oro nero sarà sempre meno necessario nel mondo del futuro. I loro avversari, in particolare Iran e Turchia, hanno un passato, un territorio e una società che sembrano più adatti a farli prevalere nel lungo termine. Forse per questo il giovane leader saudita ha una linea così aggressiva, secondo alcuni addirittura avventata: sa che il secolo breve dei petrol-Stati è agli sgoccioli.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.
Lo scontro sunniti/sciiti è sfociato in un ulteriore conflitto interno sunnita: wahhabismo (petrol-Stati) e Fratellanza Musulmana si sfidano in politica ed economia
L’attenzione dell’opinione pubblica e dei mass media occidentali verso il Medio Oriente è andata scemando negli ultimi mesi. La scomparsa dello Stato Islamico, almeno come entità territoriale, la diminuzione degli attentati in Occidente e l’isolazionismo (altalenante, come vedremo) degli Usa di Trump hanno infatti relegato l’argomento in un cono d’ombra da cui anche le notizie sul dramma dello Yemen escono col contagocce. Ma questo non significa che lo scenario non sia in evoluzione, anzi.
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