L’accordo di Natale dà a Londra l’illusione di un ritorno agli antichi splendori. Ma le conseguenze di lungo periodo saranno drammatiche
The deal is done!
Milleduecentoquarantasei pagine di accordo per formalizzare il divorzio del Regno Unito dall’Unione europea. “L’intesa tutelerà i posti di lavoro in Gran Bretagna, le nostre merci saranno vendute senza tariffe, le nostre imprese potranno esportare di più, eppure ci siamo ripresi il controllo delle nostre leggi e del nostro destino”, gongola il premier Boris Johnson in diretta TV.
Toni trionfalistici da parte britannica, più pacati da parte europea. “Abbiamo un accordo con il Regno Unito giusto e bilanciato. L’Europa ora può guardare avanti”, ha dichiarato Ursula von der Leyen.
La Presidente della Commissione europea ha parlato anche dell’importanza di rimanere uniti: “Dovremmo chiederci cosa significhi la sovranità nel ventunesimo secolo. Si tratta di aiutarsi l’un l’altro in tempi di crisi, invece di cercare di rimettersi in piedi da soli. E l’Unione europea mostra come questo possa essere messo in pratica”.
Difficile fare un bilancio tra vincitori e vinti ancora, i negoziati sono il frutto di diversi compromessi e, come ha dichiarato lo stesso Johnson, il diavolo è nei dettagli.
Il risultato più importante nei fatti è che il libero commercio è salvo, non verranno introdotti dazi e quote sulle merci: la Gran Bretagna conserverà l’accesso al mercato europeo, pur uscendo dall’Unione politica. Tornano però i controlli doganali, quindi ci sarà molta più burocrazia, che indubbiamente appesantirà le esportazioni. Le lunghe code alla frontiera di questa settimana “potrebbero essere stato un assaggio di ciò che sta per arrivare” nelle prossime settimane, scrive Politico.
Le controversie
Tre erano le questioni più spinose che hanno trascinato per mesi il dibattito: 1) il cosiddetto level playing field, cioè la necessità di campo di gioco equo per gli attori economici che impedisse la concorrenza sleale, 2) il meccanismo di risoluzione per le eventuali controversie e 3) l’accesso dei pescatori europei alle acque britanniche.
Per quanto riguarda il primo punto, una richiesta centrale per i negoziatori europei, le due parti si sono accordate per un livello minimo di standard ambientale, sociale e lavorativo al di sotto del quale nessuno potrà scendere. Londra ha anche accettato di attenersi alle regole comuni sugli aiuti di Stato, che saranno valutati da un’agenzia indipendente. Il Regno Unito, però, non sarà obbligato a seguire la legge europea, ma potrà adottare un proprio regolamento.
Per quanto riguarda la risoluzione delle controversie, i britannici sono riusciti a ottenere una vittoria importante, evitando che la Corte di giustizia dell’Unione europea svolga un ruolo diretto nel rispetto dell’accordo e ottenendo invece l’intervento di un arbitrato indipendente.
Sulla pesca si è giunti a un compromesso favorevole alla Ue, che prevede nei prossimi cinque anni e mezzo una riduzione del 25% (i negoziatori UK chiedevano quote molto maggiori) del pesce pescato dalle imbarcazioni europee in acque britanniche. Passato questo periodo di tempo, Londra tornerà ad avere il controllo delle sue acque e l’accesso alle imbarcazioni sarà regolato da nuovi negoziati.
Una vittoria?
Più in generale, possiamo dedurre che il premier britannico ha ottenuto quanto i suoi elettori gli avevano chiesto; e i leader dell’Unione hanno evitato di stravincere una partita nella quale la squadra inglese era nettamente inferiore tecnicamente. Merito dell’equilibrio e della saggezza di molti protagonisti in campo, innanzitutto della ormai unanimemente riconosciuta autorevolezza di Ursula von der Leyen, insieme alla tradizionale prudente esperienza di Angela Merkel e alla sorprendente saggezza di Michel Barnier.
Se guardiamo però agli effetti di lungo periodo, pur non avendo una sfera di cristallo, restiamo dell’idea che il Regno Unito stia andando incontro a un decennio drammatico della sua storia: una leadership per la prima volta inadeguata alla sfida dovrà affrontare un calo strutturale del Pil del 4% (secondo gli analisti più neutrali), gli Scozzesi pretenderanno nuovamente l’indipendenza (questa volta con successo), gli studenti di mezzo mondo si dirotteranno verso Olanda e Irlanda, disperdendo anche quel capitale di innovazione che aveva attratto le future classi dirigenti nelle Università e nei circoli inglesi, i servizi finanziari stanno già migrando verso altre grandi città europee.
Restiamo convinti, noi di eastwest, che la Monarchia inglese, senza eredi all’altezza, vedrà presto il suo Regno ridotto alla grande città di Londra.
È un peccato della storia, ma sembra inevitabile.
L’accordo di Natale dà a Londra l’illusione di un ritorno agli antichi splendori. Ma le conseguenze di lungo periodo saranno drammatiche
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