L’Alto rappresentante Borrell suggerisce di dialogare con i Talebani, ma esclude un riconoscimento internazionale del nuovo establishment: la priorità è gestire l’evacuazione di quanti vogliono lasciare il Paese
I Talebani di oggi “mi sembrano uguali a quelli di prima. Ma parlano un inglese migliore”. Josep Borrell, l’Alto rappresentante dell’Unione europea per la politica estera e di sicurezza comune, non crede alla tesi della svolta moderata degli “studenti coranici” insorti e, dopo la caduta dell’Afghanistan il giorno di Ferragosto, indica la strada da seguire di fronte alla crisi del Paese centro-asiatico, al termine della videoconferenza urgente dei Ministri degli Esteri dell’Ue presieduta in collegamento da Madrid.
Il capo della diplomazia Ue sceglie di fare esercizio di realpolitik, ma esclude un riconoscimento internazionale del nuovo establishment che ha preso il potere a Kabul: “I Talebani hanno vinto la guerra. È con loro che bisogna parlare per evitare non solo una crisi migratoria ma anche un disastro umanitario”. Un imperativo ancor più vero adesso che la priorità numero uno per i Paesi membri dell’Ue e della Nato – dopo vent’anni di presenza in Afghanistan con la coalizione internazionale – è garantire che venga evacuato in sicurezza il maggior numero possibile di occidentali che si trovano nel Paese e tutti quegli afghani che con loro hanno collaborato e che desiderano andar via. “Non possiamo abbandonare chi ha lavorato per noi in tutti questi anni; stiamo facendo il possibile per dare loro rifugio nei Paesi Ue”, spiega Borrell, dando conto delle prime operazioni effettuate, attraverso ponti aerei assicurati dall’Italia e con l’assistenza di Francia e Spagna che hanno messo a disposizione rispettivamente la forze di sicurezza all’aeroporto di Kabul e un hotspot per gli arrivi nel continente.
Intanto, mentre proseguono le evacuazioni, il capo della delegazione dell’Unione europea in Afghanistan, l’ambasciatore Andreas von Brandt, rassicura tutti su Twitter, pubblicando vari scatti che dimostrano che non ha ancora lasciato il Paese e sta seguendo in prima persona le operazioni: “Adesso dobbiamo evitare il panico e il caos, che rischiano di costare ulteriori vite”.
Per Bruxelles – gestione dell’assoluta emergenza a parte – sono due i macro-temi sul tavolo: la “pressione migratoria” alle proprie frontiere, da una parte, ed evitare che l’Afghanistan si ritrasformi in un “santuario per il terrorismo internazionale” (parola del Presidente francese Emmanuel Macron), dall’altra.
Le dichiarazioni della Commissaria agli Affari interni
“Siamo consapevoli che la domanda di accoglienza in Europa aumenterà”, ammette Borrell. “Ci stiamo quindi preparando per tutti gli scenari”, gli fa eco la Commissaria europea agli Affari interni Ylva Johansson, che a nome della Commissione partecipa invece a un Consiglio straordinario dei Ministri degli Interni dei Ventisette convocato in origine dalla presidenza di turno slovena per fare il punto sulla frontiera calda tra Bielorussia e Paesi del Baltico, esposti ai flussi di migranti “organizzati” dal regime di Aleksandr Lukashenko per mettere alle strette l’Ue che ha sanzionato e isolato Minsk, ma che si estende presto anche alla crisi afghana.
“Per come stanno le cose, la situazione in Afghanistan non è chiaramente sicura. Non possiamo costringere le persone a tornare nel Paese”, precisa Johansson, mettendo una volta per tutte a tacere le voci di quegli Stati membri che avevano chiesto – quando ancora Kabul non era stata presa dai Talebani – di non sospendere i rimpatri. Quattro dei sei Paesi che avevano indirizzato una nota all’esecutivo Ue hanno nel frattempo fatto marcia indietro (Germania – dove la nuova “crisi migratoria” è diventata anche elemento di campagna elettorale in vista del voto federale di settembre -, Danimarca, Belgio e Paesi Bassi), mentre Austria e Grecia tirano dritto, intenzionate a non aprire indiscriminatamente le frontiere dell’Ue. Bruxelles prova ad accontentare tutti: se da un lato mette in chiaro il dovere di far reinsediare in Europa chi necessita di protezione internazionale, dall’altro non sconfessa il mantra della “Fortezza Europa”.
Per Johansson, esternalizzare la gestione dei flussi resta una delle principali linee d’azione del blocco in termini di politiche per la migrazione, come già cinque anni fa, ai tempi del negoziato con la Turchia sui profughi siriani: “Dovremo lavorare a stretto contatto con i Paesi della regione ed essere pronti a fornire loro l’assistenza umanitaria e allo sviluppo necessaria”. Destinando alle nazioni vicine una buona fetta di assistenza finanziaria, i leader degli Stati membri intendono coinvolgere sin da ora gli omologhi dei Paesi dell’area per dirottare qui i migranti afghani. Se i corridoi umanitari vengono invocati a gran voce dal Parlamento europeo, i Ministri Ue e la Commissione vogliono “impedire agli afghani di dirigersi verso l’Unione europea attraverso rotte insicure, irregolari e incontrollate gestite da trafficanti. Non dobbiamo aspettare che arrivino alle frontiere esterne dell’Ue”, dice Johansson. E allora si attiva il filo diretto con le capitali dell’Asia centrale e del Golfo per tenere lontano dai riflettori e dal dibattito pubblico dei Paesi europei il maxi-esodo degli afghani.
L’Alto rappresentante Borrell suggerisce di dialogare con i Talebani, ma esclude un riconoscimento internazionale del nuovo establishment: la priorità è gestire l’evacuazione di quanti vogliono lasciare il Paese