Come nel resto del mondo, in Africa il ruolo dei social va ben oltre l’uso ricreativo, rappresentando uno dei canali fondamentali da cui passa l’informazione e la comunicazione pubblica e politica ma anche il rischio della disinformazione organizzata e del colonialismo digitale
L’Africa sta vivendo una trasformazione digitale che plasmerà le sue economie e società nei decenni a venire. Con un’età media di 18 anni e il 60% della popolazione under 25, è un continente di nativi digitali. Rispetto al 2015, le persone con accesso alla rete sono più che raddoppiate, arrivando nel 2022 a circa 570 milioni di utenti. Entro il 2030, si prevede che saranno online tre quarti dell’intera popolazione. La diffusione dell’accesso alla rete e degli smartphones ha fatto crescere esponenzialmente anche l’utilizzo dei social media, che contano attualmente più di 385 milioni di africani iscritti, un dato in costante crescita. Su queste piattaforme le nuove generazioni passano il loro tempo libero, si informano e interagiscono.
Le più utilizzate nel continente sono sotto il controllo della big tech americana Meta: in prima posizione c’è Facebook, che nel 2022 contava circa 271 milioni di utenti e, secondo le previsioni, nel 2025 supererà i 377 milioni.
Negli ultimi anni, però, in Africa come nel resto del mondo, sta spopolando Tik Tok, l’app dell’azienda cinese ByteDance; si basa sulla condivisione di brevi video, principalmente coreografie a suon di musica, qualcosa che è estremamente in linea con la ricchissima cultura artistica, musicale e ballerina dell’Africa. L’espressività e la creatività sono caratteristiche che uniscono trasversalmente le variegate culture e popolazioni africane, nonché ciò che diventa virale su Tik Tok.
Informazione e manipolazione
Come nel resto del mondo, in Africa il ruolo dei social va ben oltre l’uso ricreativo, rappresentando uno dei canali fondamentali da cui passa l’informazione e la comunicazione pubblica e politica. Facebook e Tik Tok rispondono ad esigenze fondamentali del popolo africano, ma lo espongono anche a rischi di manipolazione. Da un lato, aiutano le persone ad aggirare i limiti della stampa e dei media che, in quasi tutta l’Africa, sono sotto il controllo del potere statale; permettono a chi vive nel continente di raccontarlo direttamente, senza intermediari, controbilanciando l’immagine pessimista e fuorviante riportata al mondo dai media internazionali, soprattutto quelli occidentali – troppo concentrati sulle tragedie del continente e poco sulle sue belle storie. Allo stesso modo, però, i due social sono anche un’arma che può essere usata contro la libertà delle persone. Sono sempre di più i casi in cui attori interni – governi, gruppi armati ribelli o terroristici – o esterni – come Paesi o aziende – utilizzano le piattaforme per spargere disinformazione. Ghana 24 è uno dei tanti esempi: la pagina Facebook, che ora è stata eliminata, si presentava come un organo di informazione libero del Ghana, ma in realtà amplificava storie e notizie filogovernative ed era sotto la gestione di Israele e Regno Unito.
Nel caso di Tik Tok si aggiunge un ulteriore aspetto connesso ai suoi potenziali legami con il Partito Comunista Cinese (PCC). In Cina, il confine tra aziende private – come ByteDance – e Partito Comunista è labile, e ciò trasforma il social in un potenziale strumento di soft power molto potente. Il PCC potrebbe usarlo per promuovere la sua ideologia e propaganda, oltre a spingere per la censura di contenuti scomodi, come quelli inerenti all’indipendenza di Taiwan, al Tibet o alla questione uigura.
Colonialismo digitale
Quando si parla di social media, però, la questione principale rimane quella dei dati. Clive Humby, data scientist e matematico inglese, coniò nel 2006 uno slogan, rivelatosi col tempo tremendamente accurato: “i dati sono il nuovo petrolio”. E se i dati sono il petrolio, i social network sono degli enormi, inestimabili, giacimenti. Accedere ai dati degli africani vuol dire gestire la risorsa più importante dell’ecosistema digitale del continente. Non stupisce allora che app come Facebook e Tik Tok rivestano un ruolo centrale nella competizione tra Stati Uniti e Cina per affermare la loro influenza sull’Africa. A riguardo, c’è chi parla di colonialismo digitale: il riferimento è all’estrazione e al controllo decentralizzato dei dati – con o senza l’esplicito consenso degli utenti – attraverso reti di comunicazione sviluppate e possedute da attori esterni.
I rappresentanti degli interessi statunitensi e cinesi sono le big tech, come Meta e ByteDance. Nel caso americano, il governo non ha un controllo diretto sui dati in mano alle aziende, mentre nel caso cinese questo è molto più in dubbio, a causa dello stretto controllo – soprattutto in un settore strategico come il tech – esercitato dal PCC sulle aziende del Paese. Questa eventualità, rende ancora più cruciale agli occhi di Washington affermare il dominio delle aziende americane in questo settore.
Per due potenze che competono per chi detterà gli standard dell’ecosistema digitale, i social media sono dei giacimenti di cui si deve avere il controllo. Ai governi africani, per ora, sembra importare poco di queste dinamiche tra superpotenze, purché esse investano nello sviluppo digitale dell’Africa.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest
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