L’Europa tra due fuochi
La voglia di riscatto della Russia e le ambizioni cinesi modificano il dialogo internazionale sulla cooperazione militare mentre l’Europa resta indietro
La voglia di riscatto della Russia e le ambizioni cinesi modificano il dialogo internazionale sulla cooperazione militare mentre l’Europa resta indietro
In questo spicchio di mondo siamo vissuti per oltre settant’anni in un’isola felice: da quando calò la cortina di ferro ci trovammo nella inconsueta categoria della Guerra Fredda, ma inconsciamente l’idea del conflitto era bandita, sia per il ricordo della tragedia appena conclusasi, sia per la novità annichilente dell’arma nucleare; così gli eserciti erano pronti, ma rimanevano sullo sfondo, corpi separati nonostante l’istituto della leva, visti anche con un certo disagio, soprattutto in alcuni Paesi, come il nostro e come la Germania. Diversa la situazione in Francia e Gran Bretagna, alle prese con il processo di decolonizzazione, ma anche qui, quando si volle fare ricorso allo strumento militare (Suez, 1956) ci si dovette rassegnare a un mesto passo indietro di fronte all’evidenza che l’uso della forza o la sua minaccia rimaneva sostanzialmente una prerogativa esclusiva delle due grandi potenze, Usa e Urss.
Si apriva la stagione del multilateralismo che da mero strumento negoziale di dialogo assurgeva a valore politico e trovava la sua apoteosi con la conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (Helsinki, 1975). Fu la base su cui venne costruita l’Osce e che permise nel 1990 il Trattato sulle Forze Convenzionali in Europa. Fu una sorta di ribaltamento concettuale: le forze armate non più come strumento attivo della politica estera, ma come oggetto passivo per conseguire la distensione, con un processo che ben si poteva definire la demilitarizzazione delle relazioni internazionali, basate ora sulla crescita di confidenza reciproca, in un’ottica di mutua trasparenza. Tutto ciò avveniva però solo in questo ambito regionale, mentre nel resto del globo le antiche logiche mantenevano salda la loro validità, soprattutto ad opera di quelle stesse grandi potenze che nello scacchiere europeo avevano abbracciato una nuova visione.
Così, mentre in Europa si assisteva a un tacito, ma deciso e progressivo disarmo, con il benvenuto incasso del “dividendo della pace”, altrove non si percepiva lo stesso fenomeno, come evidenziato dalla crescita in quantità e valore della spesa militare in aree come il Medio e l’Estremo Oriente.
Cause e responsabilità sono indubbiamente molteplici. L’affacciarsi sulla scena internazionale di nuovi attori che dal ruolo di comprimari ambivano a diventare protagonisti, la mancanza di soluzioni a conflitti incancreniti, le tensioni che portavano alla disgregazione di realtà statuali disomogenee: la storia si rivelava ogni giorno di più foriera di crisi inattese, le cui conseguenze avevano comunque riflessi anche nei Paesi della “Vecchia Europa”, non foss’altro per i flussi di rifugiati e migranti che cominciavano a premere alle frontiere e per il generarsi di ambienti in cui fioriva una criminalità organizzata dedita a ogni specie di traffico.
Il clima stava cambiando, soprattutto al di fuori dei confini europei, con due fattori che risultarono determinanti: la voglia di riscatto della Russia e le ambizioni cinesi.
Si può discutere a lungo sulle responsabilità del revanscismo russo: le iniziali aperture verso un nuovo rapporto collaborativo, culminate nella creazione del Consiglio Nato-Russia e nel vertice di Pratica di Mare, sono state a vissute a Mosca come un doloroso cedimento, giustificato dalla drammatica crisi economica e sociale a seguito degli eventi del 1989, e l’adesione dei paesi Baltici alla Nato fu percepita come evidenza della volontà occidentale di accerchiare e soffocare la Russia. Si giunse così nel luglio 2007 alla sospensione da parte russa dell’efficacia del trattato CFE (Conventional Forces Europe, che aveva portato alla distruzione di oltre 52.000 tra mezzi blindati, corazzati, velivoli ed elicotteri da combattimento), così riportando la potenza militare al centro della politica; tutto ciò che ne è seguito è andato in questa stessa direzione: l’ipotesi di adesione alla Nato di Ucraina e Georgia, il breve conflitto dell’agosto 2008 tra quest’ultima e la Federazione Russa, la crisi del 2014 in Ucraina e l’occupazione/annessione della Crimea alla Russia. Tutto ciò nel segno dell’impiego effettivo della forza delle armi per il conseguimento di obiettivi politici.
Diverso ma con analoghe conseguenze il discorso per la Cina. Il gigante asiatico dalla sua rifondazione sotto la guida di Mao ha considerato la forza militare quasi esclusivamente nell’ottica del controllo interno del territorio, anche se ha pesantemente supportato, ma in modo prevalente sul lato logistico, le operazioni militari in Corea e in Vietnam.
La riforma dello strumento militare cinese fu avviata a partire dalla metà degli anni ’80, con un drastico ridimensionamento degli effettivi, ottenuto trasferendone poco meno della metà alla milizia territoriale e indicando come obiettivo la trasformazione in uno strumento di proiezione della forza. Fu ed è un processo di vasto respiro che conferma ulteriormente la tendenza dottrinaria ad un ruolo attivo delle forze armate nella gestione degli affari internazionali. Né poteva essere diversamente: gigante geografico e antropico, in
crescita tumultuosa, affamato di energia e risorse naturali da importare da ogni parte del globo, la Cina comprese ben presto che la sua politica di espansione economica necessitava del supporto determinante di una componente militare e ciò non tanto e non solo in un’ottica di competizione/contrapposizione con gli Stati Uniti, ma anche e soprattutto per consolidare una determinante influenza politica nei confronti dei vicini, in modo da farli entrare in una propria sfera di influenza. Alla proiezione economica già in atto, si affianca dunque una proiezione militare, evidenziata dai tipi di sistemi d’arma in acquisizione (portaerei e non solo), dalla costruzione di basi all’estero (Gibuti), dalla comparsa in modo non episodico di proprie unità navali nel Mediterraneo.
Ciò considerato, è pertanto corretto dedurre che, pur non essendo tornati alla “politica delle cannoniere”, il peso militare si va facendo sempre più rilevante, come è anche dimostrato dalla valenza militare di strumenti e ambienti che finora ne erano stati, o ne sembravano, esclusi come lo spazio e la dimensione cibernetica.
In questo quadro è davvero interessante l’atteggiamento dei Paesi europei, che restano convintamente vincolati ad una gestione multilaterale degli affari internazionali, in contrasto alla svolta decisamente bilaterale delle grandi potenze, bilateralismo che è ovviamente l’ambiente ideale per valorizzare la carta militare. Perfino i Paesi con più solida tradizione, Francia e UK, al di là di un paio di episodi occasionali dal sapore francamente velleitario (gli strike aerei sulla Siria) non sfuggono a questa logica. Ma è un atteggiamento che con ogni evidenza deriva dalla consapevolezza della propria sostanziale incapacità, più che dalla scarsità degli investimenti è prodotta dalla frammentazione politica e capacitiva del nostro continente.
In un mondo che sta tornando a brandire la spada per sostenere le proprie politiche, i Paesi europei possono scegliere se rimanere divisi e subire passivamente le dinamiche gestite da altri, o se procedere con determinazione verso un futuro di tipo federale o almeno confederale, sola evoluzione che potrà permettere una scelta tra l’adeguamento al modo di fare politica di Usa, Russia e Cina o un autorevole sostegno al multilateralismo nella gestione degli affari internazionali, da intendere non solo come metodo, ma come valore.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
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