Personalismi, velleità autocratiche, regimi d’eccezione e corruzione. La democrazia in America Latina ha ricevuto duri colpi negli ultimi mesi. E da Latinobarometro un sondaggio shock: per un latinoamericano su due non sempre è preferibile all’autoritarismo.
Le recenti tendenze registrate in diversi paesi latinoamericani hanno riaperto il dibattito intorno alla tenuta democratica delle istituzioni della regione.
In Perù, tutti i presidenti eletti dal 2016 sono stati deposti, e l’attuale presidente Dina Boluarte vanta il sostegno più basso della regione. L’elezione di Javier Milei in Argentina, e la sua promessa di “dare fuoco” alla banca centrale e “schiacciare tutti i collettivisti di merda” ha acceso l’allarme in un paese la cui classe politica è da anni in preda ad una crisi di fiducia fenomenale. In Ecuador, dopo le dimissioni del presidente Guillermo Lasso nel 2023 e l’elezione di Daniel Noboa nell’ottobre scorso, le istituzioni subiscono il gravissimo attacco da parte della criminalità organizzata che lo stato affronta con la sospensione di buona parte delle libertà individuali. In Guatemala, gli esponenti del sistema politico sconfitto alle elezioni del 2023 hanno provato in ogni modo ad evitare l’insediamento del presidente eletto Bernardo Arévalo, scatenando anche reazioni internazionali in difesa della democrazia guatemalteca. Nel Salvador, il presidente Nayib Bukele è riuscito ad ottenere una moratoria dalla corte costituzionale, da lui nominata, per scavalcare la costituzione e presentarsi alle elezioni del 4 febbraio, in un paese in “stato d’eccezione” dal marzo del 2022. L’inasprimento della repressione in Nicaragua e l’incertezza sulle elezioni presidenziali previste per quest’anno in Venezuela gettano un’ulteriore ombra sul ripristino dello status di democrazie liberali in quei paesi.
L’ultimo Democracy Index elaborato da The Economist mostrava già una tendenza preoccupante: nella regione, solo Uruguay, Costa Rica e Cile sono considerate democrazie a pieno titolo, mentre Panama, Argentina, Brasile, Colombia e Repubblica Dominicana appaiono come democrazie incomplete. Sono 8 i regimi considerati ibridi (Perù, Paraguay, Ecuador, Messico, Honduras, El Salvador, Bolivia e Guatemala) e 4 i regimi autoritari (Haiti, Cuba, Nicaragua, Venezuela). Quindi, secondo The Economist – le cui tendenze e parzialità di stampo ideologico sono comunque rilevanti quando si tratta di America Latina – il 60% dei paesi latinoamericani non può essere considerato democratico.
Il fenomeno risulta ancor più sostanziale quando ci si sposta sul versante dell’opinione pubblica e della percezione che in America Latina si ha della democrazia e i suoi benefici. Secondo l’ultimo report del Latinobarometro, solo il 48% dei latinoamericani si dice sostenitore di un sistema democratico in assoluto, una caduta del 15% rispetto al 2010. I sostenitori di un “modello autoritario” per risolvere i pressanti problemi dei paesi latinoamericani si collocano intorno al 17% della popolazione, una percentuale tendenzialmente invariata negli ultimi 20 anni. Mentre crescono in modo allarmante coloro per i quali “è indifferente” il mantenimento di un sistema democratico, il 28%.
Il dato, già di per sé preoccupante, risulta ancor più sorprendente quando si analizzano i risultati scaglionati per età: nella fascia tra i 15 e i 25 anni il sostegno alla democrazia “in qualunque caso” scende al 43% e cresce l’appoggio a soluzioni autoritarie “in alcuni casi” fino al 20,1%. Più del 30% dei giovani latinoameriani tra 15 e 40 anni dichiarano di non avere preferenza alcuna tra un sistema democratico e uno autoritario.
Gli esperti del Latinobarometro hanno individuato quattro caratteristiche comuni alla maggior parte dei regimi democratici latinoamericani che ne compromettono l’efficacia, e che spiegherebbero dunque questi risultati. In primo luogo i personalismi, e dunque la trasgressione o forzatura delle norme da parte di presidenti e governatori per poter estendere i propri periodi al potere, come successo nel caso di Rafael Correa in Ecuador, Evo Morales in Bolivia, Orlando Hernandez in Honduras o più recentemente Nayib Bukele nel Salvador. I casi di corruzione, endemici nel continente, sono un altro fattore che intacca la fiducia dei cittadini nei confronti della democrazia: dal 1990 ad oggi sono 22 i presidenti latinoamericani condannati per casi di corruzione. Nello stesso periodo si sono verificati 22 casi di presidenze interrotte, considerate un altro motivo dello sgretolamento della fiducia nei confronti della democrazia nel continente.
A differenza dei sistemi parlamentari europei, dove le crisi di governo sono contemplate e istituzionalizzate nel sistema democratico, per i presidenzialismi latinoamericani la caduta del governo significa un evento traumatico, con ricadute dirette ed immediate nella vita quotidiana dei cittadini, specialmente in ambito economico.
Colpi di stato, impeachment, dimissioni impreviste, sono considerate rotture del contratto democratico stabilito con l’elezione popolare, che se ripetute nel tempo, compromettono la fiducia popolare alla democrazia.
Infine, secondo il Latinobarometro il fenomeno sempre più diffuso della presenza di presidenti ad interim, non votati direttamente dai propri rappresentati, funge da ulteriore elemento di distacco nei confronti delle istituzioni. Solo per citare alcuni esempi si ricorda il caso di Federico Franco in Paraguay (2012), Michel Temer in Brasile (2016) o l’attuale presidente del Perù, Dina Buluarte. Tutti casi di vicepresidenti che, una volta giunti al potere, hanno attuato una politica diametralmente opposta a quella voluta dai presidenti eletti e poi deposti dal parlamento.
Tutto questo dà ossigeno a fenomeni che intaccano ulteriormente la fiducia nelle istituzioni democratiche. Il Centro Studi Internazionali dell’Università Cattolica del Cile (CEIUC) ha recentemente pubblicato il suo 4º report sui pericoli per la politica continentale, in cui individua anche un serio problema nell’avanzata del populismo autoritario nel continente. “Una profonda crisi di rappresentanza sta intaccando la fiducia nei partiti politici tradizionali e spostando le aspettative verso nuovi leader con scarsa struttura ed esperienza di gestione che impediscono loro di avere solide basi per la governance”, sostengono gli esperti del CEIUC.
“Le proteste in America Latina hanno avuto un denominatore comune: sfiducia nella classe politica, alti livelli di malessere economico e democrazie che non sono in grado di elaborare i problemi politici e sociali” aggiunge il rapporto.
Assistance (IDEA) con sede a Stoccolma sottolinea che durante il 2023 in alcuni paesi come Cile, Ecuador, El Salvador, Honduras, Messico e il Perù, i leader hanno fatto ricorso alla crescente militarizzazione e agli stati di emergenza come un modo per affrontare i crimini violenti, intaccando così anche i diritti democratici della popolazione. Nel 2022 un totale di 10 paesi della regione hanno sperimentato un notevole declino dei fattori della libertà di espressione, della libertà di stampa o della libertà di associazione e assemblea.
Le recenti tendenze registrate in diversi paesi latinoamericani hanno riaperto il dibattito intorno alla tenuta democratica delle istituzioni della regione.
In Perù, tutti i presidenti eletti dal 2016 sono stati deposti, e l’attuale presidente Dina Boluarte vanta il sostegno più basso della regione. L’elezione di Javier Milei in Argentina, e la sua promessa di “dare fuoco” alla banca centrale e “schiacciare tutti i collettivisti di merda” ha acceso l’allarme in un paese la cui classe politica è da anni in preda ad una crisi di fiducia fenomenale. In Ecuador, dopo le dimissioni del presidente Guillermo Lasso nel 2023 e l’elezione di Daniel Noboa nell’ottobre scorso, le istituzioni subiscono il gravissimo attacco da parte della criminalità organizzata che lo stato affronta con la sospensione di buona parte delle libertà individuali. In Guatemala, gli esponenti del sistema politico sconfitto alle elezioni del 2023 hanno provato in ogni modo ad evitare l’insediamento del presidente eletto Bernardo Arévalo, scatenando anche reazioni internazionali in difesa della democrazia guatemalteca. Nel Salvador, il presidente Nayib Bukele è riuscito ad ottenere una moratoria dalla corte costituzionale, da lui nominata, per scavalcare la costituzione e presentarsi alle elezioni del 4 febbraio, in un paese in “stato d’eccezione” dal marzo del 2022. L’inasprimento della repressione in Nicaragua e l’incertezza sulle elezioni presidenziali previste per quest’anno in Venezuela gettano un’ulteriore ombra sul ripristino dello status di democrazie liberali in quei paesi.