Le cinque Repubbliche centro-asiatiche, ex territori sovietici molto dipendenti da Mosca, hanno reagito con ambivalenza all’invasione dell’Ucraina e il loro futuro geopolitico è diventato molto più complesso
Fin dal suo inizio, il 2022 ha fatto capire che si sarebbe trattato di un anno complesso sul fronte geopolitico, soprattutto relativamente allo spazio post-sovietico. A gennaio, infatti, il Kazakistan è stato interessato da ingenti proteste di piazza e da una lotta interna alla nomenklatura che ha rischiato di far cadere il Governo guidato dal successore di Nursultan Nazarbayev, Kassym-Jomart Tokayev. All’apice delle mobilitazioni, quest’ultimo ha invocato l’intervento delle truppe della Collective Security Treaty Organization (CSTO), organizzazione di sicurezza a guida russa. La risposta affermativa del Cremlino non si è fatta attendere e il regime kazaco ha mantenuto il suo controllo sul Paese. Facile prevedere che Putin avrebbe avuto un credito politico non indifferente da far pesare nei confronti dell’alleato di ferro centro asiatico. La scellerata invasione dell’Ucraina orchestrata da Mosca è sembrata fin da subito il momento adatto. In realtà, la reazione in Kazakistan e in Asia Centrale – regione considerata il “cortile di casa” della Russia – all’azione militare russa è stata di grande freddezza, quando non di palese critica.
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Le reazioni dell’invasione ucraina in Asia centrale
I primi a reagire sono stati proprio i kazaki: il Ministro degli Esteri di Nur-Sultan si è infatti affrettato, dopo il riconoscimento da parte russa delle repubbliche separatiste di Donetsk e Luhansk, a dichiarare di non voler fare altrettanto. Col passare dei giorni è diventato sempre più evidente il posizionamento neutrale della Repubblica centro-asiatica, ribadito anche con l’invio di aiuti umanitari in Ucraina. Il viceministro degli Esteri kazako si è anche spinto a dichiarare che il suo Paese è pronto ad accogliere le aziende in uscita dalla Russia a causa delle sanzioni e che il Kazakistan non vuole trovarsi costretto dietro a una nuova cortina di ferro. Anche l’Uzbekistan – insieme al Kazakistan il Paese centro-asiatico più aperto agli scambi internazionali – non ha mancato di stupire gli osservatori. Il Ministro degli Esteri uzbeco, Kamilov, ha infatti esplicitamente dichiarato il supporto nazionale all’integrità territoriale dell’Ucraina auspicando una soluzione diplomatica della crisi. Poche ore dopo il suo discorso, Kamilov ha però dovuto lasciare l’Uzbekistan per sottoporsi a non meglio precisati trattamenti medici all’estero. Secondo alcuni, questa uscita di scena sarebbe legata alla forte irritazione del Cremlino per una così palese presa di distanza dalla Russia.
Il Kirghizistan è invece emerso, soprattutto nelle prime fasi del conflitto, come la Repubblica centro-asiatica più allineata alla posizione russa, un posizionamento in seguito parzialmente modificatosi in senso neutrale. Il tradizionale silenzio assordante in merito a una questione internazionale così delicata ha invece caratterizzato il Tagikistan – i cui lavoratori migranti, insieme a quelli del Kirghizistan, sono quelli più dipendenti dal mercato del lavoro russo nella ricerca di un futuro professionale – e il Turkmenistan. Quest’ultimo a metà marzo è stato oltretutto interessato da un passaggio di consegne al vertice tra Gurbanguly Berdymukhammedov, che per 15 anni ha guidato il Paese a suon di pugno di ferro e megalomania, e il figlio primogenito, il quarantenne Serdar.
Queste prime settimane dal cambio al vertice sembrano aver tolto la terra sotto ai piedi a un’ipotesi che subito dopo l’invasione dell’Ucraina era stata ventilata da più parti: quella che il Turkmenistan possa diventare uno dei fornitori di gas naturale per l’Unione europea, a caccia di vie alternative per ridurre la propria dipendenza dal metano russo. Ashgabat detiene infatti le quarte riserve al mondo di gas naturale e proprio il nome della Repubblica centro-asiatica viene a volte citato come possibile supporto alle forniture azere all’Europa attraverso il gasdotto trans-adriatico. Attualmente il Turkmenistan esporta il proprio metano quasi esclusivamente verso la Cina, Paese le cui compagnie sono le uniche ad aver siglato con le autorità turkmene contratti per lo sfruttamento dei giacimenti on-shore, i più ricchi del Paese.
Come detto, però, il nuovo Presidente sembra destinato a portare avanti in maniera pressoché identica la politica estera turkmena degli ultimi decenni, caratterizzata da isolazionismo internazionale, corruzione endemica e una sfera energetica gestita più per fini propagandistici che per arrivare a un vero ampliamento delle rotte di esportazione. In ogni caso, anche qualora si registrassero aperture sul fronte politico impresse dal giovane leader, la partita rimarrebbe comunque estremamente complicata. Sia per ragioni geografiche sia per un ostacolo geopolitico sostanzialmente insormontabile: la serrata, per quanto tenuta sottotraccia, ostilità della Russia a quest’ipotesi. Putin ha dovuto accettare suo malgrado il prepotente ingresso cinese nel mercato energetico centro asiatico, ma è facilmente prevedibile che l’inquilino del Cremlino si opporrebbe con tutte le sue forze – anche militari – all’eventualità che il Turkmenistan possa iniziare a vendere il proprio gas all’Europa. Gli acquirenti europei sono infatti troppo importanti per la tenuta economica russa e l’influenza politica che la dipendenza fornisce al Cremlino è un qualcosa di difficilmente sacrificabile.
Gli impatti dell’invasione ucraina in Asia centrale
Tornando all’atteggiamento delle repubbliche regionali rispetto all’invasione ucraina, maggiore ambivalenza si è notata in sede Onu: la mozione di condanna verso l’invasione russa dell’Ucraina votata a inizio marzo alle Nazioni Unite aveva visto Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan astenersi e Uzbekistan e Turkmenistan non votare nemmeno. Un chiaro, per quanto implicito, sostegno alla critica internazionale verso Mosca. Poco più di un mese dopo, lo scenario si è però ribaltato: il 7 aprile, infatti, tra i 24 Paesi contrari all’estromissione di Mosca dall’organismo per la tutela dei diritti umani delle Nazioni Unite sono figurate 4 repubbliche centro asiatiche su 5, con il solito isolazionismo del Turkmenistan, che ha evitato di esprimersi.
Questo balletto diplomatico al Palazzo di Vetro è chiaramente da leggersi guardando alla dimensione in cui l’Asia Centrale è stata al momento più colpita dalla vicenda ucraina: quella economica. Le economie regionali sono infatti fortemente dipendenti da quella russa su vari fronti con, ad esempio, milioni di lavoratori tagichi, kirghisi e uzbechi che ogni anno si spostano nei grandi centri urbani della Federazione, Mosca e San Pietroburgo su tutti, alla ricerca di fortuna. Le rimesse che i migranti inviano in patria sono una vera e propria linfa vitale e il loro previsto crollo – a causa delle sanzioni e della svalutazione delle monete locali legate al rublo – rappresenterà un grave problema sociale per i regimi dell’area. Ecco spiegato perché i governi centro asiatici non possono alienarsi completamente i favori di Mosca. Una necessità ancora più impellente perché, come dichiarato dal Ministro degli Esteri Lavrov, le autorità russe hanno intenzione di introdurre restrizioni alla possibilità di ottenere il visto per i cittadini dei Paesi considerati “ostili”. Un chiaro monito.
Lo stretto crinale geopolitico ed economico lungo il quale le repubbliche dell’Asia Centrale devono muoversi probabilmente le porterà a continuare a cercare un difficile equilibrio tra la necessità, anche per ragioni interne, di non farsi percepire troppo in scia al Cremlino e l’assoluto obbligo di non inimicarsi del tutto Putin. Una situazione particolarmente complessa, che potrebbe giocare a favore di altri attori interessati ad accrescere il proprio ruolo regionale. La Cina, su tutti, già a sua volta un partner economico imprescindibile. Ma non solo: anche in Turchia, Iran, India e Giappone – solo per citarne alcuni – si guarda con crescente interesse all’Asia Centrale. Alla luce della crisi economica alle porte, i Governi della regione dovranno cercare di ottenere il massimo sui diversi tavoli a cui si siederanno.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
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Fin dal suo inizio, il 2022 ha fatto capire che si sarebbe trattato di un anno complesso sul fronte geopolitico, soprattutto relativamente allo spazio post-sovietico. A gennaio, infatti, il Kazakistan è stato interessato da ingenti proteste di piazza e da una lotta interna alla nomenklatura che ha rischiato di far cadere il Governo guidato dal successore di Nursultan Nazarbayev, Kassym-Jomart Tokayev. All’apice delle mobilitazioni, quest’ultimo ha invocato l’intervento delle truppe della Collective Security Treaty Organization (CSTO), organizzazione di sicurezza a guida russa. La risposta affermativa del Cremlino non si è fatta attendere e il regime kazaco ha mantenuto il suo controllo sul Paese. Facile prevedere che Putin avrebbe avuto un credito politico non indifferente da far pesare nei confronti dell’alleato di ferro centro asiatico. La scellerata invasione dell’Ucraina orchestrata da Mosca è sembrata fin da subito il momento adatto. In realtà, la reazione in Kazakistan e in Asia Centrale – regione considerata il “cortile di casa” della Russia – all’azione militare russa è stata di grande freddezza, quando non di palese critica.