L’evoluzione dello scacchiere geoeconomico e i riposizionamenti nella catena dell’approvvigionamento energetico globale aprono grandi opportunità per le esportazioni del GNL australiano. È pronta Canberra?
Il 22 agosto scorso la metaniera Attalos attraccava nel porto dell’Isola del Grano, nel Kent, per consegnare al gigante tedesco Uniper oltre 170 mila metri cubi (mc) di GNL da immettere nella rete di distribuzione del gas del Regno Unito. Era la prima volta in sei anni che un cargo australiano consegnava GNL in Europa. Tre mesi più tardi un’altra nave australiana, la Woodside Rees Withers, raggiungeva il terminal di Maasvlakte, a Rotterdam, con un altro carico di GNL sempre destinato a Uniper. La nuova fornitura di combustibile super refrigerato avveniva parallelamente alla firma di un accordo di lungo termine tra l’azienda tedesca e il colosso australiano dell’energia Woodside che prevede l’approvvigionamento di un miliardo di mc di gas naturale l’anno da consegnare nei porti dell’Europa centrale e nord-occidentale fino al 2039. Si tratta di quantitativi ancora relativamente modesti ma che tracciano un nuovo corso nelle relazioni internazionali tra i grandi gruppi dell’energia. L’Europa ha bisogno di diversificare le sue fonti di gas per ridurre la dipendenza dalla Russia e l’Australia, almeno nel breve periodo, potrebbe venirle incontro con la prospettiva di giocare un ruolo sempre più strategico nella nuova, caotica catena dell’approvvigionamento energetico globale.
Canberra maggior esportatore mondiale di GNL
Nel 2019 Canberra, con 77 miliardi di metri cubi (mc) di gas consegnati, è diventata il maggior esportatore mondiale di GNL, lasciandosi alle spalle il Qatar. La crescita della domanda, grazie soprattutto alle commesse con Giappone e Cina, era già stata considerevole nel secondo decennio del nuovo secolo. La guerra in Ucraina e le speculazioni sui mercati internazionali hanno ulteriormente fatto lievitare domanda e prezzi dando una spinta ancora più decisa alle esportazioni del combustibile super refrigerato australiano. Canberra oggi si è mantenuta sugli stessi, alti, livelli: le metaniere che quest’anno sono partite dagli impianti degli stati di Western Australia, Northern Territory (NT) e Queensland hanno rifornito di oltre 80 miliardi mc di GNL il mercato asiatico − con Tokyo e Pechino che si sono accaparrate quasi 3/4 dei carichi. Ma lo scacchiere geoeconomico è in continua evoluzione e nel gioco dei riposizionamenti molti Paesi supplier di gas, ergo molte aziende, hanno dovuto (o voluto) rimodulare strategie e accordi già presi nel nome dell’emergenza energetica legata non tanto alla mancanza delle risorse quanto alle attività speculative tipiche del mercato spot (o a pronti).
I giganti del gas
Già a marzo gli Stati Uniti, ad esempio, hanno siglato accordi per la fornitura di 15 miliardi di mc di GNL all’Ue per tutto il 2022 ma per fare ciò hanno dovuto cancellare alcune importanti commesse con Giappone e Corea del Sud. Ci vorranno almeno 2-5 anni prima che Washington sia in grado di aumentare ulteriormente le forniture di gas all’Europa. Il tempo necessario per costruire nuove infrastrutture per i processi di raffreddamento e condensazione del gas estratto con il fracking (e consentire al Vecchio continente di dotarsi di un numero sufficiente di impianti di rigassificazione). Anche altri giganti del gas come Algeria e Qatar hanno dovuto modificare le rispettive strategie. Dopo le intese con il governo italiano, a fine dicembre Algeri – che ha esportato la quantità record di 56 miliardi di mc nel 2022 − ha siglato un accordo con Berlino che potrebbe vedere la rinascita del gasdotto Galsi, per il trasporto di gas, in una prima fase, e di idrogeno verde, in futuro, dal Paese nordafricano fino alla rete tedesca attraverso la Sardegna e l’Italia continentale. Il Qatar dal canto suo ha stipulato accordi quindicennali con diverse aziende tedesche per 2 miliardi di mc l’anno e contratti con la Cina per la fornitura di 4 miliardi di mc l’anno della durata di 27 anni. In prospettiva i giacimenti qatarioti sono quelli più ricchi, longevi e a basso costo estrattivo, caratteristiche che hanno spinto gli addetti ai lavori a definire il Qatar come l’Arabia Saudita del gas.
Un futuro pieno di interrogativi
In questo contesto l’Australia ha un presente luminoso, un domani rassicurante ma un futuro pieno di punti interrogativi. Mentre alla borsa di Amsterdam il prezzo del gas – grazie alla decisione (secondo alcuni tardiva) di Bruxelles di imporre un price cap − è sceso a livelli pre-conflitto russo-ucraino, il governo di Canberra stima che il prezzo medio del GNL per il 2022-23 salirà comunque fino a 22,6 dollari australiani (A$) per gigajoules con un incremento di ricavi di quasi il 40% rispetto all’anno commerciale precedente. In soldoni, il valore delle esportazioni del GNL australiano, che era già passato da 30 a 70 miliardi di A$ nell’ultimo anno finanziario, supererà 90 miliardi A$ entro il prossimo giugno. Profitti da capogiro considerando che il quantitativo di GNL esportato rimarrà più o meno invariato. Ma in una fase in cui la corsa a sostituire le fonti di approvvigionamento del gas ha spinto le potenze mondiali a farsi concorrenza a vicenda, ci si chiede se l’Australia sia pronta a cogliere le opportunità che le si potrebbero presentare con l’Ue bisognosa di ragguardevoli forniture di oro azzurro.
La situazione appare complessa
Da almeno un paio d’anni Canberra stava pianificando di costruire nuovi impianti per i terminal di ricezione del GNL ma è stata anticipata da Francia, Germania, Olanda e Italia che si stanno accaparrando tutte le FSRU – le unità galleggianti di stoccaggio e rigassificazione − necessarie per convertire il GNL, incluse quelle “prenotate” dalle aziende australiane. Inoltre gli impianti di alcuni dei principali giacimenti australiani di gas stanno invecchiando. È il caso del North West Shelf, il più grande progetto di estrazione del Paese, che ha iniziato ad esportare già dal 1989. Gran parte degli impianti in Australia hanno almeno vent’anni di attività e richiedono ingenti investimenti per la manutenzione, investimenti che il regolatore dell’energia offshore Nopsema invoca già da qualche anno. Senza contare che permangono significative barriere ambientali all’esplorazione di gas onshore in particolare sulla costa orientale.
Il fracking e l’ambiente
Le aziende australiane estraggono il gas in gran parte dal ricco deposito di giacimenti sotto le acque relativamente poco profonde nelle regioni nord-occidentali (produzione convenzionale, rappresenta oltre il 70% delle riserve) e, in maniera crescente, anche con il fracking delle giunture del carbone (gas di letto) e delle rocce scistose e argillose (produzioni non convenzionali). La fratturazione idraulica è una tecnica di estrazione vietata in alcuni stati australiani (in Tasmania e Victoria, quest’ultima ha recentemente aperto al gas da carbone) o parzialmente consentita negli altri perché i rischi associati sono molteplici. Spesso le aziende che operano in ambito “non convenzionale” trovano una forte opposizione da parte di comunità indigene, proprietari di allevamenti e aziende agricole e ambientalisti. I gruppi che si oppongono all’utilizzo del fracking sostengono che possa causare la contaminazione delle falde acquifere per via del mix di agenti chimici e liquidi inquinanti utilizzati durante la perforazione del terreno, gravi stravolgimenti del sottosuolo, alterazioni dell’ecosistema e, attraverso l’emissione di IPA (idrocarburi policiclici aromatici), possa arrecare disturbi respiratori. La situazione appare complessa.
La “svolta ecologica” di Albanese
A rendere la questione più complicata per le lobby dei combustili fossili è arrivata la vittoria dei laburisti alle elezioni dello scorso maggio. L’attuale governo federale è ideologicamente molto distante dal precedente conservatore, negazionista della crisi climatica e schierato palesemente dalla parte delle multinazionali dell’energia. All’indomani della tornata elettorale il primo ministro Anthony Albanese ha promesso una svolta ecologica che al momento tarda ad arrivare malgrado il governo abbia ribadito, durante la Cop27 di novembre, la promessa di tagliare del 43% le emissioni di carbonio entro il 2030 e di azzerarle entro il 2050. Albanese non si è ancora impegnato a sospendere l’espansione di nuovi progetti carboniferi e minerari, e nemmeno a interrompere quelli esistenti.
Negli ultimi dieci anni, sono stati sviluppati quattro progetti di esportazione di GNL onshore (Pluto, Gorgon, Wheatstone e Ichthys) e uno offshore (Prelude FLNG) nell’Australia nordoccidentale per un totale di 230 mila mc di gas al giorno, mentre sulla costa che affaccia sul Pacifico sono stati completati tre progetti sull’isola di Curtis nel Queensland (Queensland Curtis, Gladstone e Australia Pacifico) con una capacità complessiva di 90 mila metri cubi al giorno.
Un tetto al prezzo del gas per il mercato interno
Malgrado l’abbondanza, solo il 20% del gas estratto è destinato ad uso nazionale. Famiglie e imprenditori australiani hanno vissuto mesi complicati nel timore che il costo di gas ed energia elettrica salisse ben oltre il 20% registrato dall’inizio del conflitto russo-ucraino. Il primo ministro Albanese è stato chiaro: il libero mercato dell’energia ha fallito in Australia e al fine di evitare ulteriori aumenti il governo Albanese ha deciso di adottare per il mercato interno un tetto al prezzo del gas di 12 A$ per gigajoules della durata di un anno e previsto un bonus di 1,5 miliardi per aiutare i consumatori a pagare le bollette. Provvedimenti definiti di stampo sovietico da alcuni media e che hanno irritato l’opposizione conservatrice e i gruppi energetici, anch’essi delusi dall’introduzione del price cap. Le aziende energetiche temono che quella del tetto ai prezzi possa diventare una misura permanente e che quote sempre maggiori di combustile gassoso vengano riservate per le esigenze del mercato interno. Senza contare che la tesoreria federale stima nuove ingenti entrate fiscali: l’autorevole think tank The Australia Institute ha chiesto di tassare il 100% dei profitti come compensazione degli aumenti dei costi in bolletta, “causati dalle stesse aziende produttrici di gas”. Con questi presupposti sarà difficile per Woodside, Santos, Origin Energy, Caltex e le altre big del GNL downunder colmare il vuoto di approvvigionamento di gas previsto a livello globale a partire dal 2024.
Ristabilizzare le relazioni con la Cina
A meno che il panorama geoenergetico non subisca un ulteriore, radicale stravolgimento e l’Australia perda un buyer della portata della Cina per motivi politici. Negli anni passati, quelli con l’ultraconservatore Scott Morrison alla guida del governo australiano, le relazioni tra i due Paesi sono piombate al punto più basso, con Pechino che ha sempre evitato incontri ufficiali con Canberra a causa dello stretto allineamento militare di quest’ultima con gli Stati Uniti. Oggi il governo Albanese sembra propenso ad allentare la tensione in vista di una normalizzazione delle relazioni, prova ne è la visita ufficiale del ministro degli esteri australiano Penny Wong a Pechino a fine dicembre.
La Cina, impegnata a ridurre la propria dipendenza dal carbone, dal 2018 è diventata la maggiore importatrice di gas naturale a livello mondiale. Gli accordi pluriennali siglati con la Russia prima dell’inizio del conflitto in Ucraina (prevedono la costruzione di gasdotti che collegheranno le regioni russe più orientali con la Cina nord-orientale per trasportare 10 miliardi di mc di gas l’anno) e poi con il Qatar potrebbero far pensare a un tentativo di smarcamento dalle considerevoli forniture di gas (e carbone) australiani.
Il 22 agosto scorso la metaniera Attalos attraccava nel porto dell’Isola del Grano, nel Kent, per consegnare al gigante tedesco Uniper oltre 170 mila metri cubi (mc) di GNL da immettere nella rete di distribuzione del gas del Regno Unito. Era la prima volta in sei anni che un cargo australiano consegnava GNL in Europa. Tre mesi più tardi un’altra nave australiana, la Woodside Rees Withers, raggiungeva il terminal di Maasvlakte, a Rotterdam, con un altro carico di GNL sempre destinato a Uniper. La nuova fornitura di combustibile super refrigerato avveniva parallelamente alla firma di un accordo di lungo termine tra l’azienda tedesca e il colosso australiano dell’energia Woodside che prevede l’approvvigionamento di un miliardo di mc di gas naturale l’anno da consegnare nei porti dell’Europa centrale e nord-occidentale fino al 2039. Si tratta di quantitativi ancora relativamente modesti ma che tracciano un nuovo corso nelle relazioni internazionali tra i grandi gruppi dell’energia. L’Europa ha bisogno di diversificare le sue fonti di gas per ridurre la dipendenza dalla Russia e l’Australia, almeno nel breve periodo, potrebbe venirle incontro con la prospettiva di giocare un ruolo sempre più strategico nella nuova, caotica catena dell’approvvigionamento energetico globale.
Nel 2019 Canberra, con 77 miliardi di metri cubi (mc) di gas consegnati, è diventata il maggior esportatore mondiale di GNL, lasciandosi alle spalle il Qatar. La crescita della domanda, grazie soprattutto alle commesse con Giappone e Cina, era già stata considerevole nel secondo decennio del nuovo secolo. La guerra in Ucraina e le speculazioni sui mercati internazionali hanno ulteriormente fatto lievitare domanda e prezzi dando una spinta ancora più decisa alle esportazioni del combustibile super refrigerato australiano. Canberra oggi si è mantenuta sugli stessi, alti, livelli: le metaniere che quest’anno sono partite dagli impianti degli stati di Western Australia, Northern Territory (NT) e Queensland hanno rifornito di oltre 80 miliardi mc di GNL il mercato asiatico − con Tokyo e Pechino che si sono accaparrate quasi 3/4 dei carichi. Ma lo scacchiere geoeconomico è in continua evoluzione e nel gioco dei riposizionamenti molti Paesi supplier di gas, ergo molte aziende, hanno dovuto (o voluto) rimodulare strategie e accordi già presi nel nome dell’emergenza energetica legata non tanto alla mancanza delle risorse quanto alle attività speculative tipiche del mercato spot (o a pronti).