[ROMA] Esperto di comunicazione sportiva e istituzionale presso l’Università degli Studi Roma Tre.
Sport è soft power
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Non sono stati i primi a capire l’importanza dello sport in termini di forza politica, ma è indubbio che gli Stati Uniti abbiano esaltato un aspetto che per altri era stato essenzialmente “estetica del potere”. La Germania hitleriana ci era arrivata ma di certo a quei tempi non esisteva la televisione. Figuriamoci smartphone, tablet e altre piattaforme. Lo chiamano soft power, ma a ben vedere, di soft c’è ben poco. Chi trionfa ai Giochi olimpici impone di fatto un’immagine che va molto oltre il fatto agonistico. Vincere diventa narrazione epica a tutti gli effetti e la narrazione si trasforma a sua volta in modello comunicativo e mezzo strategico. L’egemonia come tramite di superiorità anche in chiave geopolitica. Ma prima di vedere come si organizza lo sport negli Usa in termini non soltanto di business, c’è qualche considerazione di tipo storico-culturale.
Lo sport è innanzitutto aspetto identitario. Da sempre. Definisce qualcosa o qualcuno per divenire poi schema esportabile. Ciò è tipico soprattutto dei cosiddetti “popoli giovani”, quelli che non hanno forti stratificazioni e che dunque potrebbero apparire poveri di storia. Consideriamo un Paese come l’Argentina, per esempio. In assenza di una storia plurisecolare, lo sport è il collante necessario per costruire un’epica di popolo. Costituisce un tratto fondativo che altrimenti non potrebbe incidere con il medesimo impatto di coesione generale. Gli Stati Uniti presentano un caso per certi aspetti simile. “Qui siamo nel West, dove se la leggenda diventa realtà, vince la leggenda”, diceva qualcuno nel film L’uomo che uccise Liberty Valance.
Maradona, Monzón, Vilas, Fangio stanno agli argentini come Carl Lewis, Michael Jordan, Joe Di Maggio, Tiger Woods stanno agli statunitensi. Vivi o morti che siano, loro parlano ai rispettivi popoli e tutti li ascoltano. Sono più rappresentativi dei vertici della politica, anzi, spesso l’endorsement pubblico di un campione può spostare moltissimi voti nei momenti che contano. Le imprese agonistiche sono spesso vissute come rappresentazione dello “spirito indomito della Nazione”. Soft power? Sì, ma con sfumature hard. C’è chi ci è arrivato prima di loro, dicevamo, ma gli americani lo hanno fatto meglio. E per imporre la loro visione dello sport/visione della forza hanno usato il marketing, dettaglio non trascurabile. Capitalismo a suon di record con una precisa distinzione fra mezzi e finalità.
Se lo sport ha una grande capacità di coesione interna, ne ha almeno altrettanta in termini “esterni”. Rappresenta un tramite di egemonia e di colonizzazione culturale senza la necessità di ricorrere a eserciti e ad armi (più o meno) convenzionali. Nel caso degli Stati Uniti, ciò è stato particolarmente vero dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi. È innegabile che la Guerra fredda si sia svolta anche dentro una piscina, una pista d’atletica, un rettangolo da basket, dentro un qualsiasi campo da gioco. La singola competizione, in particolar modo olimpica, metteva in discussione ogni volta il modello prevalente. Sport di Stato come nei Paesi del blocco sovietico o liberismo agonistico? Per essere sempre competitivi ai massimi livelli gli Stati Uniti hanno dovuto darsi un tratto organizzativo sistemico, tanto quanto l’Unione Sovietica sul fronte opposto. Se all’inizio degli anni ‘50 per l’Urss lo sport sarà un modo per uscire dall’isolamento e per mostrare i segni di crescita a tutto tondo del Paese, per gli Stati Uniti valorizzare i risultati sportivi significherà veicolare messaggi politici ma anche stili di vita individuali e collettivi. Eccellere nel basket, nel baseball, nell’atletica, formerà per decenni un’equazione con la “terra delle opportunità”. Anche un povero, di ogni etnia e colore, può trasformare la propria condizione di vita se solo c’è un talento sostenuto da istituzioni attente ai singoli e ai gruppi. Non sempre è stato vero ma di certo è stato più vero negli Stati Uniti che altrove.
Negli Stati Uniti non è mai esistito un vero e proprio Ministero dello Sport. Il NOC USA – National Olympic Commitee (l’equivalente sostanziale del CONI italiano) è legato per tradizione solo al supporto della preparazione Olimpica e alla supervisione, nel rispetto delle regole della carta olimpica e del movimento sociale/sportivo statunitense. Federazioni, Fondazioni e Associazioni sono state spinte verso l’indipendenza economico-finanziaria, con la possibilità di reperire per proprio conto fondi e risorse da privati per gestire la crescita dei Movimenti di riferimento. Solo i progetti dedicati alla qualificazione Olimpica sono supportati direttamente dal NOC. In particolare le Fondazioni supportano buona parte del sistema dello sport (incluso quello scolastico e universitario). Un sistema di agevolazioni fiscali completa l’appetibilità dello sport in termini di investimenti. Non è dunque un caso se le università statunitensi (anch’esse quasi tutte private) mettono ogni anno a disposizione borse di studio tese a premiare chi eccelle anche in campo sportivo. Scuole e Atenei statunitensi, che per missione vivono sulle rette familiari e sulla capacità di sponsorship, utilizzano lo sport come tema attrattivo. Il “campione in fasce” diventa in grado di influenzare le scelte di coetanei e genitori. In questa maniera si genera un circuito virtuoso tale da collegare rendimento scolastico/universitario e potenziale agonistico. Il mondo dell’istruzione rappresenta dunque anche un inesauribile vivaio al quale attingono le società sportive. Aspetto, quest’ultimo, visto per lungo tempo con snobismo in Europa ma del quale l’allora Unione Sovietica aveva colto appieno tutta la “pericolosità”. Snobismo, sì, salvo poi tentare di copiare il copiabile di un sistema che prevede la destinazione per lo sport di somme di denaro inconcepibili in buona parte dell’Occidente.
I Giochi olimpici di Helsinki del 1952 rappresentano in termini temporali il primo terreno di scontro agonistico fra le due superpotenze planetarie. Da allora fino al crollo del Muro di Berlino (ma anche dopo) il gesto atletico, la medaglia, la sconfitta assumono non di rado significati extra sportivi. Le benemerenze olimpiche si presteranno in molti casi a diventare la ribalta per esaltare modelli antitetici fra loro ma anche la carta da parati per coprire doping, speculazioni illecite, sistemi politici tangibilmente fragili e talvolta poco democratici. Immagine, stili di vita, immensi ricavi. Cosa c’è di più americano, se ci pensiamo un momento?
Superata la fase storica del dualismo Usa-Urss lo sport non ha perso importanza come strumento di consenso politico-economico-finanziario, tutt’altro. È cambiato lo scenario globale, sono altri i soggetti dominanti, le Olimpiadi sono sempre le stesse e non hanno modificato significati, diretti e reconditi. Se prima la competizione era “a due” ora sono essenzialmente tre le potenze che utilizzano lo sport per ottenere altro. Al cospetto dei Cerchi Olimpici (ma anche quando ci sono i Mondiali di calcio) il fine dei cosiddetti corpi intermedi (l’Europa, l’Africa, l’America Latina) è quello di farsi spazio fra Stati Uniti, Russia e Cina. Uno sforzo ancor più consistente rispetto al passato. Oggi più che mai si è in un terreno caro al mondo americano, quello del marketing. Media tradizionali e nuovi media giocano un ruolo essenziale per la conquista di nuovi mercati e per il mantenimento dei vecchi. L’immediatezza di un messaggio, la centralità dei contenuti, l’incessante sviluppo di piattaforme tecnologiche danno l’idea del passaggio dalla guerra fredda a una cyberguerra. Non meno fredda ma non meno spietata. Con gli Stati Uniti ancora una volta nel ruolo della cosiddetta lepre, partita in buon anticipo rispetto ai cacciatori che intendono erodere quote di mercato e di consenso politico. Del resto, anche nello sport non si fa spionaggio, non si pratica il doping, non si creano cyberattacchi tanto per perdere tempo. I motivi sono molto concreti e spesso sfuggono a un’opinione pubblica distratta da altri temi. Magari altrettanto importanti, ma lo sport non è solo sport. Oggi meno che mai.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.