Insegna Economia politica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, è direttore del Centro di Ricerche in Analisi economica e sviluppo economico internazionale (CRANEC).
Covid, Italie e Ue: la sfida del debito buono
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La pandemia da Covid-19 sta portando il debito pubblico dei Paesi colpiti su livelli mai raggiunti, se non in tempi di guerra. Tutti i paesi toccati registrano cali del Pil (eccetto Cina e altri Paesi asiatici già in crescita nel 2020). Nel 2020, il Pil mondiale si potrebbe ridurre del 4,4%. Per cercare di tenere a galla il sistema economico, i Governi hanno dovuto far ricorso alla spesa pubblica, finanziata in deficit. Al fine di stabilizzare il ciclo economico, tutti i Paesi hanno fatto uso di ingenti risorse per sostenere la domanda, le attività produttive, il credito e per potenziare la sanità. I deficit sono aumentati anche per il calo delle entrate fiscali, in conseguenza della diminuzione del Pil. La reazione dei governi è stata di grande portata: interventi fiscali pari a 11 trilioni di dollari (il 12% del Pil mondiale) e un deficit mondiale che passerebbe, nel giro di un anno, dal 3,9% al 12,7%. Secondo le previsioni del Fmi, il 2020 si chiude con un rapporto debito pubblico/Pil pari al 131,2% negli Usa, del 114,6% in Canada, del 108% in Uk, del 266,2% in Giappone e del 101% nell’Area Euro.
Il debito pubblico in Italia
In Italia, il debito era già molto alto prima della pandemia (134,6% sul Pil nel 2019) e l’anno in corso dovrebbe chiudersi intorno al 158%. E pur tuttavia, i tassi d’interesse sui BTP a dieci anni sono molto bassi. Di solito a un debito pubblico elevato corrispondono tassi più elevati perché diventa più elevato il premio al rischio che il debitore, cioè lo Stato, deve corrispondere ai creditori. È quello che è successo in Italia in alcuni momenti storici, pensiamo agli inizi degli anni Novanta o nell’estate del 2011. L’esplosione del debito pubblico italiano non sta per ora portando ad un aumento dei tassi, perché c’è stata una rete di sicurezza, messa in campo dalla Bce che ha comprato i titoli italiani. Sono misure che la Bce ha efficacemente adottato non solo per l’Italia, ma per tutti i Paesi dell’area Euro attraverso il Pandemic emergency purchase programme (PEPP) che con la decisione del 10 dicembre scorso è stato prolungato fino al marzo 2022.
Non è la prima volta che la Bce si trova ad agire dalle retrovie per tenere bassi gli spread. A seguito della crisi del 2008-2009, era già dovuta intervenire con strumenti “non convenzionali”. La frase “Whatever it takes” pronunciata da Mario Draghi nel giugno 2012 (a cui seguì il quantitative easing, QE) rimarrà scolpita nei libri di storia della UEM e forse anche in quelli di macroeconomia. Si noti che il PEPP, a differenza del QE, prevede anche flessibilità nella determinazione del livello di acquisto di titoli governativi per ogni Paese. In questo modo la Bce sta esercitando un maggiore controllo degli spread. Ma cosa sta succedendo?
Se prendiamo come riferimento l’intelaiatura giuridica (art. 123, 124, 125 del TFUE) della UEM, il debito pubblico è degli Stati (perché la politica di bilancio è degli Stati) mentre la politica monetaria è in mano alla Bce. Con un ulteriore caveat, è vietata ogni forma di mutualizzazione del debito: gli Stati membri non debbono essere chiamati a rispondere dei debiti degli altri Stati. In questo modo si fonda anche il divieto fatto alla Bce del finanziamento monetario degli Stati (e cioè di acquistare titoli pubblici degli Stati sul mercato primario). La domanda di fondo è quindi quanto a lungo, i tassi potranno rimanere bassi e con ciò facilitare il sentiero di sostenibilità dei debiti pubblici. Perché, dopo la crisi del Covid, il debito pubblico di tutti i Paesi UEM sarà stabilmente più alto di quanto non sia mai stato in passato.
La proposta di David Sassoli
In questo scenario post-Covid si colloca l’ipotesi del Presidente del Parlamento europeo David Sassoli di “cancellare” i debiti contratti dai Governi europei per far fronte alla crisi sanitaria. La questione ha suscitato un dibattito e gli economisti hanno analizzato le opzioni in campo. Andiamo con ordine. Anzitutto, nella storia, quando i Governi si sono trovati nella necessità di rientrare da grandi indebitamenti (ad esempio causati da una guerra) hanno fatto ricorso a numerosi strumenti: ripudio, ristrutturazioni, ma soprattutto creando inflazione. Si tengono artificialmente bassi (o negativi) i tassi di interesse reali, riducendo con ciò il costo del debito. Ora nel caso della UEM, l’ipotesi della “cancellazione” di cui si va discutendo abbraccia l’eventualità di una quota-parte di monetizzazione dei debiti pubblici da parte della Bce. Come? La Bce potrebbe acquistare per sempre i titoli pubblici che la stessa ha acquistato e che vanno in scadenza. Questi titoli diventano cioè irredimibili. Non si propone quindi di “cancellare” il debito degli Stati verso cittadini o investitori privati.
Ci sono benefici da questa proposta. Viene allontanata la possibilità di dover ricorrere a politiche di austerità qualora nei prossimi anni il debito non dovesse essere sostenibile se la crescita non dovesse essere persistente e i tassi d’interesse riprendessero a salire. Ma ci sono anche i costi. Nel passato tutte le forme di “monetizzazione del debito” sperimentate dagli Stati hanno avuto vantaggi e svantaggi di cui la teoria economica si è occupata a lungo. Soprattutto è stato messo in evidenza il fatto che la monetizzazione del debito toglie il controllo della base monetaria alle banche centrali e quindi il controllo dell’inflazione. Le autorità di politica monetaria diventerebbero succubi della politica fiscale. Tutto il tema dell’indipendenza delle banche centrali nasce proprio da qui e si badi che l’indipendenza della Banca centrale europea è alla base dei Trattati istitutivi della UEM. Ora difficile pensare che la Banca centrale possa unilateralmente decidere di “cancellare” i suoi crediti nei confronti di uno o più Stati, perché come detto violerebbe i Trattati. Quindi il primo punto è capire con quale gamba giuridica questa proposta potrà eventualmente camminare. Va anche aggiunto che un’eventuale operazione “una tantum” di monetizzazione da parte della Bce non intaccherebbe necessariamente la sua indipendenza.
Il ruolo della Banca centrale
In secondo luogo, un altro dei temi aperti è come evitare che la Banca centrale perda il controllo della massa monetaria. La principale critica a questa ipotesi poggia infatti sul fatto che la trasformazione in titoli irredimibili da parte della Bce priverebbe la stessa della possibilità di rivenderli nel caso volesse ridurre la quantità di moneta in circolazione allo scopo di tenere sotto controllo l’inflazione. Da qui allora altre proposte come quelle di fare acquistare questi titoli al Mes, istituzione creata per affrontare la crisi del 2008-2009. Il Mes dovrebbe quindi indebitarsi per acquistare dalla Bce i titoli pubblici in scadenza e trasformarli poi in titoli irredimibili. Ma perché affidare ad una istituzione la cui natura non è ancora chiara all’interno del diritto della Ue il debito pubblico degli Stati?
E infine, ricordiamo che anche dopo la crisi del 2007-2008 erano state avanzate varie proposte per tenere a bada i rischi per la stabilità della UEM connessi alla crescita eccessiva dei debiti pubblici. Ci riferiamo alle proposte di trasformazione di parte dei debiti pubblici in eurobond che dovevano essere garantiti congiuntamente da tutti gli Stati. Per concludere, il quadro è intricato, soprattutto perché intricato è ancora il meccanismo decisionale della UEM. Anche questa crisi ha messo in evidenza: chi decide e per conto di chi. È il nodo gordiano dell’Europa che prima o poi, speriamo, dovrà essere sciolto. Solo in questo modo tutti i problemi (monetizzazione compresa) acquisteranno una dimensione e una soluzione specificatamente europea e non un problema di qualche singolo Stato, frugale o non. Se poi i tassi rimarranno bassi per un po’ di anni e ci sarà crescita − grazie all’effetto moltiplicativo sul Pil degli investimenti finanziati da risorse che arrivano dal Recovery Fund − sul piano politico, ipotesi di “cancellazione” del debito non sarebbero poi così urgenti.
Per l’Italia si tratta di circa 209 miliardi di risorse per fare investimenti. Un’occasione storica per ritornare a crescere e rendere il nostro debito sostenibile.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.