[MILANO] Studiosa di Cina, scrive per China Files e Il Manifesto. Si occupa di tecnologie digitali, cyber security e nazionalismo popolare nel continente asiatico.
La Via della Seta digitale e i “bulli del Tech”
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Per vincere contro i “bulli del tech” non si baderà a spese. È questa la postura scelta dalla Cina per raggiungere l’autosufficienza tecnologica e rispondere all’isolamento a cui gli Stati Uniti stanno sottoponendo la sua industria dell’high-tech. Nella battaglia per la supremazia tecnologica tra i due Paesi, Pechino avrebbe avuto bisogno di tempo per colmare il divario sui semiconduttori e sottrarsi ai rischi del decoupling americano, ma è stata messa alle strette dall’atteggiamento sempre più assertivo di Washington, palesato da ultimo con le limitazioni all’esportazione in Cina di microchip avanzati e macchinari per la loro realizzazione emesse dall’amministrazione di Joe Biden lo scorso ottobre. Una mossa che il portavoce del ministero degli Esteri cinese Wang Wenbin ha definito una “spudorata coercizione economica” e una forma di “bullismo nel campo della tecnologia”. E che sta portando il governo cinese ad accelerare in direzione dell’autarchia tecnologica.
Il tempo dell’ambiguità nella tech war tra Washington e Pechino è terminato. Gli Stati Uniti hanno dimostrato di volere non solo rallentare, ma ostacolare attivamente la spinta innovativa della Repubblica popolare cinese provando a tagliarla fuori dalla catena di approvvigionamento di componenti chiave nell’industria tecnologica. Se la Cina primeggia per sviluppo di intelligenza artificiale, super computer performanti, veicoli automatizzati, tecnologie blockchain e servizi digitali, rimane infatti vincolata al rivale atlantico per l’import di componenti hardware da impiegare nei principali prodotti di elettronica. Ma soprattutto resta dipendente dalle licenze d’uso statunitensi per apparecchiature di ultima generazione, tra cui i macchinari per produrre i wafer più piccoli che compongono i chip.
Senza affidarsi a partner esterni, la Cina non è ancora in grado di produrre autonomamente i circuiti integrati più all’avanguardia (i chip cinesi prodotti in modo indipendente si aggirano attorno ai 14nm, contro i 3nm dei competitor) e non riesce a soddisfare la crescente domanda interna con le sole aziende domestiche. Anche a fronte degli sforzi dei campioni nazionali del settore come la Semiconductor Manufacturing International (SMIC), che ha annunciato l’apertura di nuove fonderie per la produzione di massa di chip da 28nm nel 2023, ostruire le vene della catena di approvvigionamento alla base dei prodotti elettronici e impedire agli altri attori della filiera globale dei chip (Corea del Sud, Taiwan, Giappone e Paesi Bassi) di commerciare liberamente con Pechino significa per gli Usa relegare la Cina a uno stato di serie B in ambito tecnologico, lasciandola bloccata al famigerato collo di bottiglia.
Alla Cina manca il tempo, mentre per gli Stati Uniti fare terra bruciata attorno al rivale è una questione di “sicurezza nazionale”. A preoccupare Washington è soprattutto il fatto che le tecnologie per cui competono Cina e Usa sono quasi tutte dual use, ovvero possono essere impiegate tanto in ambito civile quanto in quello militare. L’ultima azienda a essere stata inserita nella lista nera, la “Entity List”, di Washington secondo questo principio è la Yangtze Memory Technologies Corporation (YTMC), società che produce tecnologie di memoria flash impiegate in dispositivi elettronici di largo consumo, ora accusata di stare aiutando Pechino a modernizzare le capacità militari del Paese. Senza l’utilizzo di macchinari importati, la YMTC non riuscirà più a produrre memory chip a 200 strati, e dovrà fermarsi ai meno competitivi chip a 138 strati.
È per far fronte a questo tipo di ripercussioni che il tema dell’autosufficienza tecnologica è diventato prioritario nella retorica del governo cinese. Già nel 2020 gli analisti dell’Esercito popolare di liberazione invitavano le autorità ad “abbandonare false speranze di riavvicinamento” con gli Stati Uniti sul fronte tecnologico e a prepararsi per un braccio di ferro di lunga durata. Nel 2021, il 14esimo piano quinquennale stanziava 1.4 trilioni di dollari per stimolare scoperte innovative. Quest’anno, in occasione del XX Congresso del Partito comunista cinese, il presidente Xi Jinping ha parlato della necessità per il Paese di raggiungere “maggiore autosufficienza e forza per la scienza e tecnologia”, ribadendo che “vincere la battaglia” per la leadership nelle tecniche del futuro sarà fondamentale per sviluppare quell’industria digitale domestica che dovrà essere alla base della crescita economica cinese nei prossimi anni. Non a caso nel rapporto conclusivo del Congresso le parole chiave sono state “sicurezza” e “autonomia”, mentre il termine “tecnologia” è comparso ben 40 volte.
Farcela da soli quindi, e farcela a tutti i costi. Secondo quanto rivelato da un report dell’agenzia di stampa britannica Reuters, per rispondere ai colpi inferti da Washington, Pechino starebbe lavorando a un pacchetto di incentivi per l’industria nazionale dei semiconduttori pari a 143 miliardi di dollari da distribuire in cinque anni. A beneficiare del pacchetto saranno tanto le industrie private quanto quelle a sussidio statale, con particolare attenzione alle società di apparecchiature per chip come Naura Technology Group, Advanced Micro-Fabrication Equipment Inc China e Kingsemi. Si tratta di un’iniezione di capitale tra le più ingenti mai emesse dal governo cinese e servirà sia per aumentare la produzione interna incentivando l’acquisto di macchinari domestici per la manifattura di semiconduttori, sia per sostenere ricerca e sviluppo nel settore. L’idea è quella di aumentare la capacità produttiva e fare scorta di chip più grezzi (ancora ampiamente utilizzati in ambito militare) e al contempo accelerare la ricerca per colmare in modo indipendente il gap tecnologico.
Aziende come la cinese Naura stanno infatti puntando sui processi produttivi che utilizzano attrezzatura termica per creare chip da 28nm in su. Mentre la SMIC, l’unica azienda cinese a utilizzare tecniche di litografia nel fabbricare chip, li produce in massa a 90nm. Ad avere esaurito le scorte di componenti avanzate, secondo un rapporto pubblicato da Counterport, è invece il ramo di semiconduttori di Huawei, HiSilicon, che prima delle sanzioni trumpiane del 2019 possedeva il 16% del mercato globale dei semiconduttori, mentre oggi fatica a trovare circuiti integrati di ultima generazione. La strozzatura di Washington è pervasiva anche perché coinvolge alcuni partner chiave nella filiera di approvvigionamento come la taiwanese TSMC e l’olandese ASML. Come conseguenza delle ultime restrizioni statunitensi, le importazioni di macchinari per la fabbricazione di chip in Cina sono diminuite del 40% rispetto al 2021. Lo stesso vale per l’import di chip finiti, ridotto del 13% in un solo anno.
Mentre prova a tappare i buchi di un’industria gravemente colpita dalle sanzioni americane tramite gli investimenti, il governo cinese ha presentato ufficialmente reclamo all’Organizzazione mondiale del commercio (World Trade Organization WTO) per condannare Washington. All’interno dell’atto di citazione, il ministero per il Commercio cinese ha accusato gli Usa di aver “abusato delle misure di controllo all’export e ostacolato il normale commercio internazionale di chip e altri prodotti”. L’ambasciatore cinese al WTO, Li Chenggang, ha invece descritto l’atteggiamento di Washington “capriccioso” e “distruttore”.
Oltre agli incentivi per proteggere l’industria, Pechino pensa agli investimenti per coltivare talenti. Alla carenza di chip che la Rpc sta vivendo si aggiunge infatti anche la carenza di personale qualificato. Dove una volta il governo cinese puntava su un trasferimento tecnologico fondato sull’acquisizione di aziende e brevetti stranieri, oggi investe in talenti per fare breccia nelle innovazioni del futuro. Sempre durante il Congresso, Xi ha definito il talento una “risorsa primaria” e l’innovazione un “movente per la crescita”. Un obiettivo, quello della crescita, da raggiungere attraendo personale qualificato dall’estero e incentivando i corsi in materie STEM (Science Technology Engineering and Mathematics). Nascono così iniziative come il National Cybersecurity Center di Wuhan per la formazione di talenti sul piano della sicurezza informatica, gli istituti per le “tecnologie del futuro” presenti in 12 università del Paese e i corsi di studio dedicati alle tecnologie dei chip come quello all’interno della prestigiosa Tsinghua University.
Sul tema dell’acquisizione di talenti si scontrano tuttavia alcune nuove normative da parte dei due sfidanti nella tech war. Da una parte le restrizioni di ottobre da parte degli Stati Uniti fanno riferimento anche ai cittadini americani, impedendo loro di lavorare per qualsiasi azienda che possa aiutare la Cina ad avanzare militarmente o che fornisca in modo diretto un trasferimento di know how ad aziende cinesi. Dall’altra ci sono le nuove leggi a protezione del sovranismo digitale emesse da Pechino, che impongono di mantenere all’interno del territorio della Rpc dati “importanti” creati da industrie chiave. Secondo l’ultima regolamentazione promossa dal ministero dell’Industria e delle Tecnologie d’Informazione cinese (MIIT) a dicembre, i dati industriali di aziende che operano nel territorio cinese dovranno essere collezionati in data storage cinesi e sottoposti a controllo governativo. In altre parole, mentre gli Stati Uniti cercano di non fare entrare talento e conoscenze in Cina, Pechino prova a tenersi stretto quello che ha accumulato finora.
Per capitalizzare a pieno le risorse interne, il governo cinese sembra avere inoltre ammorbidito l’approccio con i colossi del digitale che aveva sottoposto a grandi sconvolgimenti negli ultimi anni. Durante la Central Economic Work Conference lo scorso 17 dicembre, Xi ha invitato le piattaforme digitali a “mostrare a pieno le proprie capacità” in termini di produttività e creazione di posti di lavoro, chiedendo loro di “stimolare la competitività” sul piano tecnologico all’interno del Paese. Dopo tre anni di riforma del settore tech, che hanno visto le grandi aziende come Alibaba, Tencent e Byte Dance messe in ginocchio dalle leggi antimonopolio e dalle regolamentazioni per la protezione dei dati e dell’informazione online, le parole di incoraggiamento del governo sembrano voler chiamare a raccolta i campioni nazionali per guidare nuovamente la crescita economica del Paese e difenderlo dalla minaccia statunitense. Ma, questa volta, i campioni dovranno stare alle le regole del gioco imposte dal Partito, “aderendo alle regole di sviluppo” e reindirizzando la propria forza produttiva verso l’hardware invece che concentrarsi sui guadagni da capogiro del software. A questo proposito sono stati accolti con entusiasmo gli sforzi di autoproduzione di Tencent, con il suo chip di intelligenza artificiale Zixiao. Così come Alibaba, che, con il chip server YiTian710 da 5nm, ha mosso i primi passi verso l’autoproduzione.
A rincuorare la Cina in questo momento di tensione è infine il vantaggio competitivo nella produzione delle terre rare, materiali alla base dei processi produttivi dei chip. Nonostante solo un terzo delle miniere di terre rare si trovi in Cina, Pechino conta per il 60% della produzione di terre rare a livello globale e possiede l’85% della capacità di raffineria delle stesse. Un indicatore che, nonostante i ponti bruciati, le catene di approvvigionamento rimangono per ora legate alla Cina.
Anche con un pugnale nel fianco digitale, la Cina prova a portare a compimento il suo piano di rivoluzione industriale, consapevole che nella contemporaneità di imprevisti e instabilità che stiamo vivendo, gettare denaro sul problema potrebbe non essere abbastanza.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/marzo di eastwest
2024: fuga da Giacarta
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Con l’approvazione del disegno di legge per lo spostamento della capitale, lo scorso 18 gennaio l’esecutivo indonesiano ha dato ufficialmente il via al progetto di trasferimento delle strutture governative del Paese, che abbandoneranno l’isola di Giava per approdare su quella del Borneo, più precisamente nella provincia del Kalimantan Orientale. La nuova capitale si chiamerà Nusantara, una “città pianificata” all’insegna della sostenibilità che si collocherà a cavallo tra i distretti di Penajam Paser Utara e Kutai Kartanegara, in un territorio da 180 mila ettari già di proprietà del Governo. Fiore all’occhiello del secondo mandato del Presidente Joko “Jokowi” Widodo, l’esodo coordinato sarà avviato nel 2024 e dovrebbe concludersi entro il 2045. Ma la strada verso il paradiso verde concepito da Jokowi non è priva di controversie e ha già attirato critiche che spaziano dal potenziale impatto ambientale negativo del progetto sull’ecosistema del Borneo alle conseguenze socio-economiche di un trasloco di questa portata, fino alla dibattuta scelta del nome per il nuovo hub.
L’idea di spostare la sede del Governo dall’attuale centro amministrativo e finanziario del Paese non è nuova, ma ha preso realmente forma solo all’indomani della rielezione di Jokowi nel 2019, momento in cui il Presidente ha annunciato il progetto di trasferimento della capitale citando i problemi ambientali della metropoli dell’isola di Giava. Giacarta, si sa da tempo, sta affondando. Affonda sotto il peso del sovraffollamento e del traffico intenso che ne rallenta la produttività. E affonda in senso letterale a causa della sregolata attività di estrazione di acqua potabile dalle falde acquifere nel sottosuolo dell’isola, che unitamente alle conseguenze legate al cambiamento climatico, come alluvioni e terremoti, sta affossando la capitale di 10 centimetri ogni anno. Secondo i climatologi, entro il 2050 il 25% del territorio di Giacarta sarà sommerso. Trasferire il governo e i suoi 4,8 milioni di lavoratori e costruire da zero una nuova capitale con un progetto infrastrutturale mastodontico sembra dunque un piccolo prezzo da pagare per decongestionare una città destinata agli abissi.
La nuova capitale
La nuova capitale sarà grande quattro volte Giacarta e si propone di essere una città smart, fondata sulla sinergia tra innovazione tecnologica e rispetto dell’ambiente. Internet of things per monitorare il traffico e pianificare l’urbanistica in tranquillità. Edifici ecosostenibili e mezzi di trasporto a bassa emissione per garantire uno stile di vita sano e volto al risparmio energetico. Un palazzo presidenziale a forma di Garuda, creatura mitologica della tradizione induista. E il 75% degli spazi dedicato ad aree verdi: un’utopia ecologica dove far ripartire l’economia nell’era post-Covid e riequilibrare la prospettiva Giava-centrica dei suoi predecessori. Questa è Nusantara per Jokowi. Oltre a voler alleviare il fardello demografico di Giacarta, che da sola accoglie il 57% della popolazione indonesiana, la nuova capitale servirà per stimolare la crescita economica nella parte orientale dell’arcipelago, ridistribuendo così in maniera più omogenea l’attività economica del Paese. Mentre Giava da sola produce il 60% del Pil nazionale, le cinque province del Kalimantan messe insieme, per quanto ricche di risorse naturali, contribuiscono solo al 10% dell’economia del Paese. Per rendere Nusantara il nuovo riferimento dell’arcipelago, il progetto prevede l’impiego di 32 miliardi di dollari. Di questi, il 19% sarà coperto dallo Stato, mentre il resto farà affidamento su partnership con aziende partecipate o enti stranieri. Tra gli investitori interessati al progetto, il principe di Abu Dhabi Muhammad bin Zayed Al Nahyan, il Ceo della SoftBank Masayoshi Son e l’ex primo ministro britannico Tony Blair.
La scelta di Nusantara è simbolica sotto più aspetti. La nuova sede del governo sarà più geograficamente vicina al centro del Paese, aspirando al ruolo di riferimento non solo per l’arcipelago, ma per tutto il Sud-Est asiatico. Consentirà anche di liberarsi dallo spettro coloniale olandese, visto che erano stati i Paesi Bassi a stabilire la capitale a Giacarta. Si tratta di un grande successo per Jokowi, a un passo da una mission impossible vecchia quanto l’Indonesia stessa. D’altronde, la politica di Jokowi, il rivoluzionario “uomo della gente”, è da sempre orientata al supporto di un nazionalismo multiculturale con caratteristiche indonesiane. Cosa che avrebbe tentato di riproporre, con scarso successo, anche nel nome della nuova capitale. Nusantara in Bahasa Indonesia significa infatti “arcipelago”. “Un concetto che abbraccia tutta la nostra diversità. Che sia nella razza, lingua o etnia”, ha dichiarato il ministro dello Sviluppo nazionale Suharso Monorafa.
Le controversie sulla scelta di Nusantara
Il responso popolare non è stato altrettanto idealista. La scelta del nome, selezionato tra 80 diverse opzioni, è stata accolta con perplessità dai cittadini indonesiani, che hanno contestato l’origine del termine ritenendolo confusionario. La parola Nusantara deriva infatti dal giavanese antico e fa riferimento all’Indonesia nella sua totalità e alla regione del Sud-Est asiatico in generale. Risale inoltre all’epoca del regno di Majapahit, impero induista che tra il 13esimo e il 15esimo secolo comprendeva non solo le isole oggi parte dell’arcipelago indonesiano, ma anche porzioni di Malesia, Brunei e Thailandia. Confusionario, e parte di un altro impero. La componente nazionalista nella “città dell’uguaglianza e la giustizia” voluta da Jokowi non ha fatto breccia nel cuore degli indonesiani.
Ma la controversia sul nome della nuova città è solo la punta dell’iceberg. Molti cittadini e studiosi guardano con scetticismo al progetto. Le preoccupazioni più sentite riguardano il piano ambientale. A oggi il settore delle rinnovabili in Indonesia fornisce solo l’11.5% dell’energia totale del Paese. Anche spostando la capitale, secondo le previsioni, Giacarta rimarrà il centro economico, tanto che la banca centrale e altre istituzioni finanziarie non verranno trasferite. Gli scambi tra le due città potrebbero inoltre creare nuovi picchi di emissioni col traffico aereo. Si teme anche un effetto spillover, col tentativo di costruire il super hub a emissioni zero in un’area del Paese con poche infrastrutture che rischia di aumentare la deforestazione dell’isola, creando scompensi all’ecosistema del Kalimantan e alla sua biodiversità.
C’è poi la questione legata agli indigeni del Borneo, i Paser-Balik e i Dayak, già protagonisti di violente lotte tribali, che potrebbero essere messi sotto pressione dalla rivoluzione dell’ambiente circostante. Per quanto riguarda i quasi 11 milioni di abitanti di Giacarta invece, l’esodo della popolazione giavanese non è da dare per scontato. Se il trasferimento di migliaia di funzionari statali e del loro staff, unitamente a personale di sicurezza e altre cariche governative sarà un cambiamento assodato, rimangono fuori una serie di cittadini che occupano posizioni lavorative di basso-medio rango che non necessariamente riusciranno a permettersi un cambio di vita altrove. L’intreccio linguistico-religioso che caratterizza l’Indonesia è un altro ostacolo in questo senso. Secondo diversi analisti infine, spostare la capitale, per quanto necessario, non risolverà i problemi ambientali di Giacarta, rendendo il trasferimento una costosa toppa a problemi di vecchia data.
Nusantara, per il momento, è il progetto con cui Jokowi sogna di suggellare il suo retaggio politico prima concludere il secondo e ultimo mandato. La prima fase (di cinque) per il completamento della nuova capitale dovrà avvenire proprio entro il 2024, anno in cui si terranno le prossime elezioni presidenziali. La sua riuscita potrebbe sancire un’uscita di scena trionfale per il “presidente delle infrastrutture”. Ma le sfide sono tante. Il tempo poco. E Jokowi dovrà fare di tutto perché la sua città incantata non rimanga solo un dispendioso castello in aria.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.