[Londra] Corrispondente per Il Fatto Quotidiano e Prima Comunicazione. Membro della Foreign Press Association di Londra.
Regno Unito, la lobby degli Old Boys
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Questo articolo è stato pubblicato sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Quella del Sunday Times dell’11 agosto 2019 è una pagina da collezione. Titolo: La Regina: i nostri politici non sono in grado di governare. Occhiello: La monarca dà voce al suo sdegno per la classe politica attuale.
La storia è clamorosa, la fonte credibile. Uscendo dal tradizionale riserbo su questioni politiche che è al cuore del suo ruolo e degli equilibri istituzionali britannici, Elisabetta avrebbe espresso ‘una delle più decise valutazioni politiche dei suoi 67 anni di regno’, arrivando a manifestare apertamente ‘la sua sfiducia nella classe politica al potere e la sua incapacità di Governo’ durante un evento privato poco dopo le dimissioni di David Cameron da Primo Ministro conservatore britannico. Dal 2016, secondo osservatori della Corona, ‘la sua esasperazione e frustrazione per la qualità della classe politica’ non avrebbe fatto che aumentare.
Il referendum voluto da David Cameron
Veloce ripasso: il 23 giugno del 2016, a sorpresa, il 52% dei votanti al referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione europea vota Sì. Il referendum era stato indetto da un David Cameron così saldo nel suo potere dopo la riconferma alle politiche del 2015, da decidere di chiudere una volta per tutte lo scontro con l’ala euroscettica del suo partito con una consultazione popolare.
Il calcolo, naturalmente, era che vincesse il No, come era già successo nel 2014 con il referendum per l’indipendenza scozzese; che una plateale sconfitta degli euroscettici mettesse finalmente a tacere la questione dei rapporti sempre tormentati con Bruxelles, e che Cameron, finalmente saldamente al potere senza dover fare i conti con l’alleato Lib-Dem con cui aveva governato in una litigiosa coalizione dal 2010 al 2015, potesse dunque portare avanti la sua azione di governo senza le continue interferenze, anche interne al suo partito, che la rallentavano.
Complessivamente, Cameron non è considerato un leader incapace o incompetente: ha gestito la recessione del 2018 con politiche lacrime e sangue di cui si contano ancora i danni, ma ha anche tentato di imprimere al partito conservatore una direzione moderna, con una visione per il futuro. Ma la sua eredità è ormai necessariamente legata al suo più grande fallimento: il tragico errore politico di aver reso possibile Brexit. Non c’è niente di più grave, per un leader politico, che perdere il polso dell’elettorato e sottovalutare i propri avversari. Il resto della politica britannica non è stata che una conseguenza di quell’errore. Brexit ha imbarbarito il discorso pubblico, snaturato la corsa politica, portato a una selezione artificiale della classe dirigente, radicalizzato il partito conservatore, depotenziato il Parlamento, sbilanciato l’equilibrio fra poteri dello Stato, acuito lo scontro fra una visione populista dell’esecutivo e la pubblica amministrazione, la stampa, la magistratura. E questo è, senza dubbio, un sigillo definito, un giudizio inappellabile di incompetenza politica per David Cameron.
L’incompetenza della classe dirigente
Un giudizio che si può provare a estendere all’intera classe politica, come faceva la Regina dall’alto di decenni di rapporti con 14 Primi Ministri, fra cui giganti come Winston Churchill e Margareth Thatcher? Lo ha fatto, e con estrema durezza, lo scrittore Indiano Pankaj Mishra in un saggio urticante, The Malign Incompetence of the British Ruling Class, apparso il 17 giugno del 2019 sul New York Times, e non possiamo fare a meno di chiederci se la direzione del quotidiano ne condividesse le conclusioni. Mishra fa partire la sua analisi della classe politica attuale dall’esperienza del colonialismo imperiale britannico nella sua India, ma la attualizza arrivando a scrivere che “La rottura con l’Unione europea è l’ennesimo atto di negligenza morale da parte dei governanti britannici. I Brexiteeers, inseguendo una fantasia di potere e autosufficienza imperialistici, hanno rivelato la loro hubris, ostinazione e inettitudine”. E ne indica le radici culturali tornando all’imperdibile “Notes on the English Character,” di e E.M. Forster, uno dei più profondi conoscitori della società britannica, che già nel 1926 attribuiva i disastri politici ai suoi leader educati privatamente, ‘eterni studenti, immaturi beneficiari di un sistema educativo elitario’. Di certo, tuttora quasi tutti i leader e il personale politico e dirigente del Paese, in particolare fra le fila dei Tories, hanno frequentato scuole private precluse ai più non solo dai costi ma anche da una selezione sociale apertamente classista.
Lo abbiamo visto di recente ai vertici del potere politico. Come Margareth Thatcher, Theresa May ha completato i suoi studi a Oxford, a cui è arrivata per merito: ma, figlia di un vicario, non è mai stata ammessa nei circoli esclusivi dei boys, gli ex compagni di Eton e Oxford David Cameron, George Osborne, Boris Johnson, ed è sempre stata trattata come un utile strumento dei loro disegni e delle loro ambizioni. Il picco di questa decadenza politica e culturale è, naturalmente, proprio Johnson. Non ci siamo mai spiegati perché un uomo politicamente volatile e personalmente inaffidabile come lui sia stato per anni considerato carismatico e un predestinato. Il suo carattere era chiaro già nella lettera che il preside di Eton Martin Hammond scrive al padre Stanley Johnson nel 1982, quando Boris aveva 17 anni, e che in questi anni è riemersa a più riprese come un monito non ascoltato. “Boris ha assunto un atteggiamento di indifferenza verso i suoi studi classici. A volte sembra indignato quando riceve delle critiche per quella che è una macroscopica mancanza di senso di responsabilità (e allo stesso tempo sorpreso per non essere stato designato capitano della scuola il prossimo semestre). Ho l’impressione che creda sinceramente che sia volgare da parte nostra non considerarlo un’eccezione, uno che dovrebbe essere libero dalla rete di obblighi che avviluppa chiunque altro”. La premiership di Johnson è stata dannata da queste caratteristiche: approssimazione, senso di eccezionalità, disprezzo per obblighi ed equilibri istituzionali. E una mentalità da bunker che premiava con incarichi di governo i fedelissimi più che i competenti.
Il post Johnson
Per un po’ il Paese ha lasciato correre, ubriacato di promesse sovraniste e stordito da una propaganda estrema. Il partygate, con la sua sequenza di menzogne alla popolazione e al Parlamento, ha segnato la fine del tocco magico di Johnson: ma le modalità della sua gestione del potere, con casi conclamati di clientelismo e uno scontro acutissimo con il civil service, hanno ulteriormente indebolito e frammentato la politica britannica. Il sistema di selezione del successore è, in questo contesto, del tutto surreale: in caso di dimissioni del Primo Ministro conservatore non si va a nuove elezioni, sulla base della convenzione che gli elettori abbiano scelto il partito e non il suo leader, si procede ad affidare la scelta del nuovo Primo Ministro ai meno di 200mila iscritti del Partito conservatore. Un campione limitatissimo e caratterizzato per demografia e classe economico-sociale: a scegliere, in questi giorni, fra Liz Truss e Rishi Sunak saranno prevalentemente pensionati bianchi benestanti delle regioni ricche del sud-est, la categoria meno toccata dalla devastante crisi economica che in questo vacuum politico sta lacerando il Paese. Questo snatura completamente la campagna elettorale, perché a prevalere fra i due candidati sarà quello che meglio solletica quegli interessi particolari, in un certo senso tribali.
Di una tribù governata da moventi non necessariamente razionali: sul destino del Paese, malgrado tutto, continua a proiettarsi l’ombra del corpaccione del Primo Ministro dimissionario. Al di sopra dei programmi, molto deformati dalla propaganda, Liz Truss è in forte vantaggio non solo perché evoca anche nell’iconografia, in modo studiato da anni, la Thatcher, ma anche perché dagli attivisti è vissuta in continuità con Boris Johnson. Sunak, viceversa, è disprezzato come opportunista cesaricida. In un contesto con moventi emotivi, il tema della competenza del nuovo Pm, perfino in una fase di crisi senza precedenti, passa in secondo piano.