[TRIESTE] giornalista, scrive di Balcani ed Europa post-comunista per Limes, Linkiesta, Valigia Blu, Il Tascabile e altri. I suoi reportage escono su RSI ed Euronews, i suoi podcast per Bulle Media. Collabora con la RAI FVG.
Lo strano stallo in Polonia
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A metà luglio la Corte costituzionale polacca ha stabilito che le modifiche imposte dalla Corte europea di giustizia alle controverse riforme del settore giudiziario varate dall’esecutivo polacco sono incostituzionali. La Polonia non sarebbe, dunque, tenuta a ottemperarvi.
Una sentenza campale, che potrebbe scuotere le fondamenta dell’Ue. Il massimo organo giuridico della Polonia, egemonizzato da giudici considerati vicini al governo conservatore guidato da Diritto e Giustizia (Prawo i Sprawiedliwość, PiS), ha esplicitamente ribaltato la gerarchia su cui si fonda l’impianto normativo dell’Unione, enunciando la supposta priorità della legge nazionale su quella comunitaria. Il ministro della Giustizia Zbigniew Ziobro, leader di Polonia Solidale (Solidarna Polska) e tra gli architetti più riconoscibili della riforma del settore giudiziario, ha parlato di un atto legittimo “contro l’interferenza, l’usurpazione e l’aggressione giuridica degli organi dell’Ue”.
Nelle parole di Adam Bodna, difensore civico polacco: “Stiamo assistendo a una Polexit, che sta gradualmente avverandosi per via giuridica”.
La decisione della Corte costituzionale polacca, inoltre, è arrivata poche ore dopo la richiesta, sempre da parte della Corte europea di giustizia, di sospendere la “camera disciplinare” introdotta da Varsavia nel 2018, un organo di nomina parlamentare incaricato di monitorare la condotta dei giudici e dotato della facoltà di comminare punizioni come sospensione, riduzione dello stipendio o revoca dell’immunità. In questo caso, la minaccia di sanzioni pecuniarie da parte della Commissione europea è bastata per costringere l’esecutivo a fare marcia indietro. A denti stretti, il leader del PiS Jarosław Kaczyński ha accettato di bloccare l’attività della camera disciplinare, pur promettendo che verranno escogitati altri metodi per fare in modo che “i giudici agiscano secondo la legge”.
Una vittoria di Pirro per Bruxelles, che non altera la sostanza delle cose: la Polonia si sta deliberatamente collocando al di fuori − o al di sopra − del perimetro legislativo comunitario.
Secondo la Commissione, i provvedimenti intrapresi dall’esecutivo targato PiS, salito al potere nel 2015 e riconfermato nel 2019, mirano ad annullare l’indipendenza del potere giudiziario, soggiogandolo a quello esecutivo. Secondo gli ultranazionalisti polacchi, misure come la camera disciplinare per i giudici sarebbero invece doverose per contrastare la corruzione ed estromettere dalle corti del paese tutti i funzionari che hanno collaborato con il regime comunista (la cosiddetta campagna di “lustrazione”), regime ufficialmente terminato in Polonia da più di tre decenni.
Qualunque delle due versioni si abbracci, al momento tutti concordano su un fatto: una Polexit effettiva, sul modello Brexit, resta uno scenario inverosimile. Per almeno due ragioni.
La prima: la maggioranza della popolazione è fermamente contraria all’ipotesi secessionista. Come nel resto dei paesi dell’ex blocco comunista, anche in Polonia la critica all’Ue non si accompagna alla volontà di abbandonarla. Secondo l’agenzia di sondaggi CBOS, dal 2005 − l’anno dopo l’entrata nell’Ue della Polonia − almeno il 70% dei polacchi è sempre rimasto a favore della permanenza nel blocco. Dalla salita al governo del PiS, la percentuale è cresciuta, toccando il 90% nel 2019.
La seconda: la Polexit non conviene nemmeno al governo. Non esistendo nel corpus normativo dell’Ue meccanismi giuridici che permettano l’espulsione di uno Stato dall’Unione, PiS e sodali sanno di poter tirare la corda senza pagare un prezzo particolarmente elevato. Certamente non sul piano politico, visto che la loro base ha già da tempo digerito, quando non incentivato, la postura sovranista ed euroscettica, ma neanche sul piano finanziario. Da notare, infatti, che questo stallo alla polacca, potenzialmente micidiale per il futuro del blocco, si è prodotto solo pochi mesi dopo l’introduzione del rispetto dello “Stato di diritto” tra i criteri per l’assegnazione dei fondi del prossimo bilancio pluriennale (2021-2027). Un’innovazione che, secondo i fautori, avrebbe dovuto attenuare le velleità degli aspiranti autocrati al potere nei paesi membri, in primis dei due osservati speciali: oltre al PiS di Kaczyński, la Fidesz di Viktor Orbán, in Ungheria.
In virtù della sua taglia e della sua popolazione, la Polonia è da sempre lo Stato che più beneficia dalla redistribuzione dei fondi comunitari; nel 2018 ha realizzato un disavanzo positivo di 11 miliardi di euro. Sono queste risorse che permettono all’esecutivo di lanciare le iniziative munifiche su cui basa gran parte del proprio consenso popolare, come per esempio il noto “programma 500+”, che prevede un sussidio mensile di 500 złoty (circa 110 euro) per ogni figlio a partire dal secondo fino al compimento dei 18 anni.
Detta in breve, l’Ue sovvenziona direttamente le politiche di un governo che ora disconosce platealmente l’autorità stessa dell’Ue.
Secondo Laurent Pech, professore di diritto europeo alla Middlesex University, la Commissione dovrebbe allora battere proprio sul tasto finanziario, imponendo una multa quotidiana a Varsavia e congelando lo sblocco dei fondi fino a quando non sarà ristabilita la primazia del diritto comunitario.
Al momento è difficile capire quale sia la strategia di PiS e alleati, ammesso che esista. Interpellato sul tema, il premier Mateusz Morawiecki ha scongiurato categoricamente la possibilità di un’uscita della Polonia dall’Ue, accusando le opposizioni di fomentare questa paura infondata (“una fantasia politica”) solo a scopi propagandistici. Morawiecki ha spiegato che il governo starebbe soltanto “tutelando le aree in cui, come altri paesi, al momento dell’adesione non abbiamo accettato di cedere sovranità all’Ue”.
Una ricostruzione capziosa. Il primato del diritto comunitario su quello nazionale non è esplicitato nei Trattati (vi è solo un allegato ad hoc al Trattato di Lisbona), ma è stato sviluppato dalla giurisprudenza della Corte europea di giustizia nel corso di più di mezzo secolo. A partire dalla celebre sentenza Van Gend en Loos contro Nederlandse Administratie der Belastingen del 5 febbraio 1963, che obbligava gli Stati membri (della Comunità economica europea, all’epoca) a integrare nel proprio sistema normativo le leggi varate dalle istituzioni comunitarie, questo principio non è mai stato contestato apertamente. Anche Stati, come l’Ungheria, che hanno violato e continuano a violare programmaticamente le norme comunitarie nella prassi hanno comunque sempre agito all’interno di una cornice legalista, dove la legislazione Ue viene formalmente rispettata.
Riguardo la tutela dell’indipendenza del potere giudiziario, l’oggetto del contendere in questo specifico frangente, è generalmente accettato che si tratti di una componente intrinseca di quello Stato di diritto tutelato dall’articolo 2 del Trattato dell’Unione europea. È inoltre menzionato in molte fonti secondarie del diritto comunitario, come all’articolo 21 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Rappresenta quindi uno dei capisaldi della giurisdizione Ue. Tanto che Piotr Hofmański, dallo scorso marzo presidente del Tribunale Penale Internazionale, ha dichiarato che con l’attuale sistema giudiziario la Polonia non avrebbe mai potuto essere ammessa nell’Unione.
I leader dei 27 paesi membri partecipano direttamente all’elaborazione collettiva delle norme valide per tutto il blocco, specialmente confrontandosi nella burrascosa arena del Consiglio europeo, dove vengono negoziate e plasmate concretamente le politiche europee − comprese le varie deroghe accordate a singoli Stati (gli “opt-out”). Una volta che queste politiche vengono implementate dalla Commissione, uno Stato non può esimersi dal rispettarle selezionando à la carte solo quelle che ritiene più convenienti. Diventerebbe impossibile, in tal caso, sviluppare alcuna azione comune.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Montenegro: il debito con la Cina, il silenzio dell’Ue
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Lo scorso aprile il Governo del Montenegro ha chiesto ufficialmente all’Ue di ripagare il debito contratto da Podgorica con la cinese Exim Bank per la costruzione del primo tratto dell’autostrada Bar-Boljare. Il vicepremier Dritan Abazović, uno dei volti più europeisti della variopinta coalizione che sostiene l’attuale esecutivo montenegrino, aveva sottolineato come questa mossa avrebbe permesso al proprio Paese – membro Nato dal 2017 e candidato Ue – di sottrarsi all’influenza della Cina.
Per bocca del proprio portavoce Peter Stano, l’Unione ha subito risposto picche, spiegando di non potersi addossare il pagamento di debiti contratti da Paesi terzi, ma alludendo alla possibilità di aiutare la piccola repubblica adriatica in modi alternativi.
Come altre volte, una concezione economicistica e transazionale della politica estera ha inibito l’azione dell’Ue, secondo i critici. La relatrice Ue per il Kosovo, Viola von Cramon-Taubadel, per esempio, ha bollato la decisione come poco lungimirante. “Qualche tempo fa l’Ue ha sbagliato in Grecia e così la Cina si è portata a casa il porto del Pireo. Adesso il Governo cinese potrebbe ottenere porzioni di costa montenegrina”, ha sentenziato su Twitter.
Il caso ha riacceso i riflettori sulla penetrazione della Cina nei Balcani occidentali, sei Paesi – Serbia, Montenegro, Albania, Macedonia del Nord, Bosnia Erzegovina e Kosovo – che sulla carta non dovrebbero avere altro futuro se non quello di entrare nell’Ue.
Prima delle valutazioni, i fatti e i numeri
L’autostrada che dovrebbe connettere la cittadina costiera di Bar (Antivari o Antibari, in italiano) con il confine serbo, e quindi con le rotte commerciali che attraversano la Serbia, è ritenuta un’infrastruttura fondamentale per il Montenegro. La prosperità della piccola repubblica adriatica dipende massicciamente dal turismo, risorsa che può rivelarsi particolarmente effimera. Come la pandemia ha dimostrato: l’anno scorso l’economia montenegrina si è contratta del 15%. Inoltre, obbligata ad allinearsi a Nato e Ue, in seguito all’invasione russa di Crimea e Donbass (2014) Podgorica ha dovuto introdurre sanzioni alla Russia, storicamente uno dei suoi investitori più munifici. Gli investimenti russi sono crollati da 123 milioni di euro (2014) a 53 (2016), trend invertito solo di recente (99 milioni, l’anno scorso).
L’ “autostrada verso il nulla”, come la chiamano i suoi detrattori, dovrebbe contribuire a rilanciare lo sviluppo del Montenegro.
Tuttavia, la conformazione orografica del paese è tale che due studi di fattibilità condotti dalla francese Louis Berger (2009) e dall’americana URS (2012) avevano stimato che il traffico eventualmente generato dalla costruzione dell’infrastruttura non sarebbe mai bastato a giustificare l’investimento. La Banca europea degli investimenti si era quindi tirata indietro.
È in questo vacuum che si è inserita la Cina. Ignorando i moniti di Bruxelles, nel 2014 Podgorica e la China Road and Bridge Corporation (CRBC) hanno siglato un contratto per realizzare il primo tratto, tra Smokovac e Mateševo (41 km), a condizioni molto favorevoli per gli operatori cinesi.
L’accordo prevede che l’85% dell’opera sia finanziato con un prestito della Exim Bank da 944 milioni di euro (tasso di interesse del 2% annuo), che ha fatto schizzare il rapporto debito pubblico – Pil del Montenegro oltre il 90%. Inoltre, l’intesa è stata finalizzata in camera caritatis, situazione che ha permesso ad alcune aziende vicine al presidente Milo Đukanović di accaparrarsi lucrosi subappalti in modo opaco.
A causa di ritardi e di inadempienze (specie in termini di protezione ambientale) da parte della CRBC, i costi sono in seguito lievitati fino a 1.3 miliardi di euro: questo primo tratto è costato qualcosa come 20 milioni di euro al km.
La prima rata del prestito avrebbe dovuto essere saldata lo scorso luglio, scadenza poi estesa dal creditore. In caso di insolvenza, in base all’accordo la Cina potrebbe ottenere come compensazione parti di territorio montenegrino. Forse proprio lo scalo di Bar, che le regalerebbe un perno sull’Adriatico, mare dove i cinesi ancora non si affacciano. La compagnia statale cinese COSCO già controlla, invece, la maggioranza della proprietà del porto greco del Pireo, il 47% di quello di Genova e il 35% di quello di Rotterdam, nei Paesi Bassi.
Trattandosi di quattro porti Nato, l’allarme che l’impetuosa percussione cinese in Europa sta generando nei corridoi del fronte transatlantico suona comprensibile.
Sfogliando il comunicato congiunto rilasciato al termine dell’ultimo summit Nato lo scorso giugno, quello che più riguarda il futuro dei Balcani occidentali non va allora cercato tanto nei due paragrafi che li menzionano (70 e 71), bensì più in alto, nei tre paragrafi relativi alla Cina (3, 55, 56). Le “ambizioni dichiarate”, la “postura assertiva” e la “crescente influenza” di Pechino sono state riconosciute come una “minaccia” e una “sfida” dall’Alleanza atlantica. Tempi duri si prospettano dunque per quei partner balcanici – Serbia in testa – che hanno eletto l’amicizia del Dragone a pilastro della propria politica estera.
La Cina nei Balcani occidentali
L’incursione cinese nei Balcani occidentali è ormai riconosciuta come un’ipoteca sempre più onerosa sul “futuro europeo” della regione. Da una decina di anni, e con rinnovata intensità dall’inizio dell’ascesa di Xi Jinping (2013), la Cina ha infatti consolidato la propria presenza nella regione, soprattutto tramite la costruzione di infrastrutture strategiche negli ambiti: trasporti, energia, sicurezza.
L’autostrada Bar–Boljare non è infatti un’eccezione. Nella regione aziende cinesi stanno costruendo anche: il ponte di Pelješac in Croazia (340 milioni di euro, in gran parte stanziati dall’Ue); le autostrade Pojate-Preljina e Novi Sad-Ruma in Serbia (850 milioni di euro); l’autostrada Preljina-Pozega, sempre in Serbia (500 milioni di euro); l’autosrada Kičevo-Ohrid, in Macedonia del Nord (375 milioni di euro) e quella Banja Luka-Prijedor, in Bosnia (297 milioni di euro). Compagnie cinesi sono inoltre coinvolte nelle costruzioni della ferrovia ad alta velocità Belgrado – Budapest (943 milioni di euro), della metro di Belgrado (3 miliardi di euro), della centrale energetica di Kostolac (293 milioni di euro), del parco industriale di Borča (330 milioni di euro).
Il dubbio si insinua legittimo: perché alcuni investimenti giudicati poco redditizi da investitori occidentali suscitano l’interesse di quelli cinesi?
Probabilmente perché l’influenza che garantiscono a Pechino supera anche l’eventuale perdita economica. Per un’ormai riconosciuta potenza globale come la Cina inserirsi nelle infrastrutture strategiche di un partner significa vincolare a sé il Paese. La gestione torbida di questi appalti facilita la tessitura di reti di relazioni inter-personali, curate spesso dalle ambasciate cinesi in loco, che garantiscono alla Repubblica popolare un’influenza reale, dietro le quinte, molto maggiore di quella percepita.
È in questo scenario che va soppesata l’opportunità di intervenire per tirare il Montenegro fuori dal pantano. Per l’Ue non si tratta solo di rimediare alla scelta scriteriata di un governicchio balcanico, ma di capire finalmente a che gioco intende giocare. I soldi non fanno la felicità, tanto meno la geopolitica.
I Balcani occidentali sono uno dei ring dove si scontrano le potenze globali. Coi suoi 620.000 abitanti e un’estensione inferiore a quella della Calabria, il dossier Montenegro è solo un test preliminare prima delle prove più impegnative: Ucraina, Mediterraneo, relazione con la Turchia, migrazioni, sicurezza cibernetica.
L’Ue deve scegliere: stare alla corda a fare il tifo (per gli Usa) o iniziare ad allenarsi per salire la scaletta, accettando che il mondo non è (diventato) quell’agora multilaterale e legalista che si vaticinava al tramonto della Guerra fredda? Il silenzio degli innocenti è nobile, ma la storia rischia di essere scritta solo dai colpevoli.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.