La disillusione e la disaffezione verso l’Unione europea si stanno radicando nella regione, come anche gli investimenti cinesi e l’influenza russa
Allargamento ai Balcani sì, no, forse. E in ogni caso, a diverse velocità e con l’ormai consueta serie di corse a ostacoli. In tempi di (ri)posizionamenti strategici, mentre Finlandia e Svezia aspettano l’ufficialità del loro ingresso nella Nato, anche l’Unione europea riprende in mano il dossier della sua espansione oltre i confini attuali dei Ventisette. Trovandosi, però, a fare i conti con un’impasse prolungata: riguarda tutti quei Paesi dell’Europa sud-orientale (Serbia, Montenegro, Albania, Macedonia del Nord, Bosnia-Erzegovina e Kosovo) che a più tempi, dagli Anni Duemila in poi, bussano alla porta dell’Ue senza ricevere tuttavia vere aperture. Sulla scia dell’impatto che l’invasione russa dell’Ucraina ha avuto sugli equilibri del Vecchio Continente, Bruxelles ha cercato, con un successo più di forma che di sostanza, di superare l’enlargement fatigue, la “fatica da allargamento” che ha finora tenuto sotto scacco il processo d’ingresso per i Balcani occidentali. Una fase che ha contraddistinto l’ultimo decennio apertosi dopo le adesioni alla spicciolata di Romania e Bulgaria (2007) e Croazia (2013), i tasselli più recenti inseriti a completare il puzzle della riunificazione dell’Europa culminata con il Big Bang Enlargement del 2004, quando otto Stati al di là dell’ex cortina di ferro, più Cipro e Malta, entrarono nell’Ue.
L’Ue ha provato a voltare pagina con un colpo di reni, nell’esatto giorno – beffarda ironia del calendario − in cui cadeva il sesto anniversario del referendum sulla Brexit. Il summit del Consiglio europeo del 23-24 giugno scorso ha confermato le raccomandazioni formulate dalla Commissione presieduta da Ursula von der Leyen e dato luce verde alla concessione dello status di Paesi candidati a Ucraina e Moldova, e di potenziale candidato, ribadendone “la prospettiva Ue”, alla Georgia, ricordando le condizioni preliminari (in particolare in materia di giustizia, anti-corruzione e stato di diritto) che gli aspiranti dovranno soddisfare per avanzare lungo il tortuoso sentiero dell’adesione. Non è tuttavia – va precisato – che il primo passo per l’avvio dell’iter di ingresso; il processo (che si parli di Kiev come di Podgorica o Tirana) è complesso e articolato, strutturalmente destinato a durare anni, ad affrontare incognite e tornanti e a misurarsi con i diktat del voto all’unanimità dei governi.
L’ok in appena una manciata di settimane alle istanze presentate subito dopo l’inizio della guerra da Ucraina, Moldova e Georgia era atteso. Eppure, nella grande stanza multicolore dell’Europa Building che ospita i Vertici dei capi di Stato e di governo, la proposta non ha avuto vita facile. Non perché qualcuno fra i Ventisette volesse tirare il freno a mano, ma poiché lo sprint registratosi per le capitali che più da vicino conoscono o hanno conosciuto l’aggressività di Mosca ha tenuto invece ancora una volta ai margini della discussione gli Stati che si vedono promettere la prospettiva d’ingresso nell’Unione con una regolarità che – vista dai Balcani – è diventata semmai una stanca ritualità di maniera. Così facendo Bruxelles, mettono in guardia gli analisti, rischia insomma di perdere alla causa Ue chi fa la fila da anni. Austria, Croazia e Slovenia hanno, in particolare, insistito perché le conclusioni del summit non perdessero di vista la regione dei Balcani occidentali (meno protagonista l’Italia, nonostante la tradizionale vocazione euro-adriatica). Il braccio di ferro ha tirato un po’ per le lunghe i negoziati, salvo risolversi in una soluzione spuntata, con l’espresso invito alla Commissione (sul tema particolarmente restia) a riferire senza ritardo sui progressi fatti dalla Bosnia-Erzegovina in vista di una eventuale concessione pure a Sarajevo dello status di candidato, un riconoscimento che il Paese emerso poco meno di trent’anni fa dalla guerra aspetta da sei anni.
A raccontare l’amarezza dei Balcani per l’ennesimo passo falso di Bruxelles è stata la tempistica di due conferenze stampa, una poco protocollare e l’altra finita fuori agenda, in quello stesso 23 giugno che ha visto l’allargamento tornare alla ribalta nei palazzi Ue. La prima, con i leader di Belgrado, Tirana e Skopje Aleksandar Vučić, Edi Rama e Dimitar Kovačevski a ribadire da una parte il sostegno allo status di candidati per Ucraina e Moldova, ma dall’altra a sottolineare la frustrazione per i ritardi accumulati invece sulla rotta dei Balcani, rimasti impantanati nell’anticamera dell’Ue. La seconda, cancellata all’ultimo momento, ha evitato ai vertici dell’Unione di esporsi sulla spinosa questione.
In tempi di pandemia e guerra, anche la politica di allargamento Ue, insomma, è finita nella rete delle politiche emergenziali. Bruxelles ha rispolverato il dossier quiescente per allinearlo all’impegno “geopolitico” a sostegno dell’Ucraina, negandogli però al tempo stesso una più ampia visione e una prospettiva sostenibile.
A dirla tutta, qualcosa per i Balcani si è mosso tre settimane più tardi, il 19 luglio, quando a Bruxelles si sono tenute le due conferenze intergovernative con Albania e Macedonia del Nord per l’avvio dei negoziati per l’adesione dopo rispettivamente 8 e 17 anni dalla domanda e a circa due dalla concessione dello status (passata senza rumore in piena pandemia). Apertura irta d’insidie per Tirana e Skopje e non rappresenta un promettente viatico neanche per Kiev e Chişinău. Anzi, le sue modalità rischiano di assestare un ulteriore colpo alla credibilità dell’allargamento. Tenuto stavolta ostaggio dalla Bulgaria, in virtù di una disputa storico-identitaria che contrappone Sofia e Skopje, a proposito dei diritti della minoranza bulgara in Macedonia del Nord e della sua lingua. Il Governo bulgaro aveva quindi posto il veto sull’apertura dei negoziati Ue con i vicini macedoni (bloccando pure l’altro componente del tandem, l’Albania) e vanificando gli anni e i dolori politici che ci sono voluti per siglare, nel 2018, l’intesa di Prespa con cui Atene e Skopje hanno mandato in soffitta la disfida del nome e formalizzato il nuovo appellativo internazionalmente riconosciuto di Macedonia del Nord. La presidenza francese del Consiglio dell’Ue, giunta agli ultimi giorni di attività, ha disinnescato il pericolo con una soluzione di compromesso che in realtà legittima molte delle rivendicazioni bulgare e mette per la seconda volta sul piatto dei macedoni richieste pesanti da mandar giù, per cui serve oltretutto una (improbabile) riforma costituzionale.
L’autunno contribuirà ad aggiungere qualche elemento, ma colpi di scena sarebbero da escludere: a ottobre, da una parte, la Commissione dovrà illustrare il suo annuale pacchetto allargamento; dall’altra, le elezioni politiche che rinnoveranno il complesso sistema di governo della Bosnia-Erzegovina aiuteranno a far luce sul reale avanzamento sul sentiero Ue del Paese. E magari a sbloccare la concessione dello status di candidato. E pure il Kosovo si sarebbe deciso a inviare formalmente la domanda, passaggio finora bloccato dal fatto che Pristina ancora oggi non è riconosciuta da cinque Stati membri dell’Unione (Spagna, Romania, Slovacchia, Grecia e Cipro) e, contemporaneamente, dall’assenza di sviluppi sulla liberalizzazione dei visti Ue necessari ai (soli) kosovari.
Anche se un nuovo afflato è stato dato al processo di adesione dei Balcani, le garanzie che possa procedere senza intoppi e senza finire in un vicolo cieco non sono alte, mentre disillusione e disaffezione verso l’Ue sono ormai radicate in una regione in cui si è invece diffusa la tentacolare presenza dei capitali cinesi e dell’influenza russa, ben sintetizzata dalla Serbia sempre più pecora nera.
Mantenere viva la fiammella della prospettiva di adesione all’Ue per i Paesi candidati è essenziale, ma occorre che sia anche credibile. Le premesse non sono incoraggianti ora che prende forma (si riunisce a Praga a inizio ottobre) la Comunità politica europea messa in pista da Emmanuel Macron, il forum di coordinamento per rilanciare la cooperazione nel continente dall’Islanda all’Ucraina, fino agli stessi Balcani, al di là di formule specializzate o “affaticate” come Osce e Consiglio d’Europa. Non è un’alternativa all’allargamento o alle politiche di vicinato − assicurano Parigi e Bruxelles −, ma in molti vi vedono un concreto stratagemma per rinviare sine die le nuove adesioni.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
Puoi acquistare la rivista in edicola o abbonarti.
La disillusione e la disaffezione verso l’Unione europea si stanno radicando nella regione, come anche gli investimenti cinesi e l’influenza russa