La premier Sheikh Hasina ha vinto il suo quinto mandato con il 90% dei voti. Bassa l’affluenza alle urne, il 40%. L’opposizione, messa ai margini, ha organizzato posti di blocco per boicottare il voto, la polizia ha sparato contro gli attivisti.
L’unica cosa certa anche alla vigilia era il risultato: alle elezioni in Bangladesh la premier Sheikh Hasina ha conquistato il suo quinto mandato, il quarto consecutivo dopo il ritorno al potere del 2009. D’altronde era difficile pensare altrimenti, visto che il voto è stato boicottato da un’opposizione messa sempre più ai margini. Tutto il resto, però, conferma che il Paese dell’Asia meridionale, importante hub produttivo, si sta allontanando sempre di più dal poter essere considerato una democrazia.
Il partito Awami League di Hasina si è assicurato 223 dei 299 seggi del parlamento. I candidati indipendenti, molti dei quali selezionati dallo stesso partito di maggioranza e dai gruppi associati, hanno conquistato 62 seggi, mentre il Partito Jatiya ne ha ottenuti 11. Gli ultimi tre seggi sono finiti a tre partiti minori.
Ma il Partito nazionalista del Bangladesh, la principale forza di opposizione, non era presente al voto. Così come non c’era lo Jamaat-e-Islami. Giocando sempre più da solo, il partito della “donna di ferro” Hasina hacontinuato progressivamente a crescere a ogni tornata elettorale: dal 48% del 2008 al 90% di oggi.
Hasina e Awami League puntavano tutto sull’affluenza per dare legittimità al voto. Il test è fallito: la commissione elettorale ha dichiarato che l’affluenza dei circa 120 milioni di elettori è stata intorno al 40%. Una percentuale dimezzata rispetto all’80% delle elezioni del 2018. Tanto che, mentre Hasina e il suo partito esultano per la vittoria, l’opposizione celebra il “boicottaggio riuscito”. Una situazione che presumibilmente rischia di frammentare il Paese anche nei prossimi anni.
Il voto si è svolto d’altronde in un clima di enorme tensione. Da settimane, attivisti e membri dell’opposizione, anche dall’estero, denunciano le elezioni come una “farsa”. Migliaia di esponenti dell’opposizione sono stati arrestati negli ultimi mesi, compreso il segretario generale del Partito nazionalista, Mirza Fakhrul Islam Alamgir. L’ex premier Khaleda Zia è in regime di residenza sorvegliata, mentre il figlio Tarique Rahman si trova in esilio a Londra, da dove attacca a ripetizione il governo. Secondo le accuse, Rahman sarebbe coinvolto in un attacco del 2004 in cui Hasina rimase ferita. Humans Right Watch ha denunciato una “violenta repressione autocratica”, ma la premier non si è fatta impressionare e giustifica la stretta e gli arresti come l’unico metodo a disposizione per difendersi da violenze e rivolte.
D’altronde, proprio durante la giornata del voto di domenica 7 gennaio, Hasina ha etichettato il principale partito dell’opposizione come una “organizzazione terroristica”, presentandosi come l’unica in grado di difendere la democrazia del Bangladesh. Una presa di posizione arrivata dopo che gli attivisti del Partito nazionalista e di altre forze minori hanno indetto uno sciopero generale e organizzato posti di blocco per convincere i cittadini a non recarsi alle urne.
In alcune occasioni, la polizia ha aperto il fuoco contro gli attivisti che stavano evitando il regolare svolgimento del voto, anche se le autorità non segnalano vittime o feriti. È morto invece un sostenitore di Hasina durante alcuni degli scontri che si sono verificati sul territorio. L’episodio più grave è stato il presunto incendio doloso di un treno di pendolari che ha causato 4 morti e 8 feriti. La polizia ha arrestato 8 persone e l’Awami League ha accusato il Partito nazionalista della tragedia. L’opposizione sostiene invece si tratti di “atti di sabotaggio pianificati da parte di funzionari governativi volti a screditare il nostro movimento non violento”.
Mentre gli attivisti provavano a far boicottare il voto, il partito di governo ha cercato di forzare i cittadini a recarsi alle urne. Secondo alcune testimonianze riportate dai media internazionali, alcuni elettori hanno affermato di essere stati minacciati di confisca delle tessere statali necessarie a ricevere l’assistenza welfare se si fossero rifiutati di votare. Sempre durante le operazioni di voto, il Manab Zamin, uno dei principali quotidiani del Bangladesh con una posizione critica nei confronti del governo, avrebbe subito dei blocchi su internet.
Chi è Sheikh Hasina
Il potere di Hasina, 76 anni, nasce lontano: è la figlia di Sheikh Mujibur Rahman, padre fondatore del Bangladesh. Già premier dal 1996 al 2001, dopo il ritorno al potere del 2009 ha adottato una linea progressivamente più assertiva, tanto che il suo governo è stato più volte accusato di abusi dei diritti umani e di repressione dell’opposizione. Allo stesso tempo, in molti le riconoscono il merito di aver risollevato il Bangladesh dalla povertà rilanciando l’economia del Paese. Partendo dall’immensa industria dell’abbigliamento, ma andando oltre attraendo diversi investimenti e lo spostamento di alcune linee produttive di aziende internazionali.
Di recente, il Fondo monetario internazionale ha dato il via libera alla prima revisione del pacchetto di salvataggio da 4,7 miliardi di dollari, garantendo al Bangladesh accesso immediato a circa 468,3 milioni e mettendo a disposizione 221,5 milioni per il programma di lotta al cambiamento climatico. Contestualmente, però, la popolazione ha spesso protestato negli ultimi mesi per l’inflazione e l’aumento del costo della vita.
Sul piano internazionale, un punto a favore di Hasina è stato senz’altro il vasto piano di accoglienza fornito alla minoranza Rohingya in fuga dal Myanmar. Quasi un milione di rifugiati si trovano attualmente in Bangladesh, che allo stesso tempo starebbe rafforzando i rapporti con la Cina. Gli Stati Uniti e l’Unione Europea restano però i principali acquirenti di capi d’abbigliamento prodotti in Bangladesh, la principale industria di valuta estera del Paese. Anche per questo Hasina spera di evitare che alle accuse di repressione dell’opposizione facciano seguito delle sanzioni. La premier ha bisogno di successi economici per evitare che le turbolenze interne sfocino dal fronte politico a quello sociale.