Il contributo del Messico alla riappacificazione americana con Cuba, la questione migratoria, la modernizzazione della frontiera comune e la regionalizzazione delle filiere produttive al centro del colloquio “costruttivo” tra i due Presidenti.
La telefonata di venerdì pomeriggio tra il presidente degli Stati Uniti Joe Biden e l’omologo messicano Andres Manuel López Obrador è stata “costruttiva” e non ci sono state prepotenze e pressioni da parte americana. Lo ha detto la Casa Bianca e dall’altra parte, al Palazzo Nazionale, lo hanno confermato (“una conversazione cordiale”, “ci ha trattati con rispetto”). L’etichetta e questo genere di precisazioni sono importanti nei contatti tra Washington e Città del Messico perché la relazione bilaterale – nonostante la profonda integrazione economica raggiunta dopo quasi trent’anni – è ancora materia sensibile, spesso interpretata secondo vecchie lenti di ingerenza totale e di assoggettamento messicano alle volontà del potente vicino settentrionale.
Non è così: ad esempio sull’Ucraina il Messico non si è allineato agli Stati Uniti nelle sanzioni alla Russia; ha condannato l’invasione, ma in sede ONU si è astenuto alla votazione per sospendere Mosca dal Consiglio per i diritti umani. È profonda la distanza con il Canada, altro paese nordamericano e alleato degli Stati Uniti, che ha invece inviato artiglieria all’Ucraina e persino definito genocidio le aggressioni russe.
La questione migratoria
Gli Stati Uniti vorrebbero dal Messico un comportamento diverso, non solo sull’Ucraina ma anche sull’energia (López Obrador vuole ridare priorità alla partecipazione statale nel settore elettrico, minacciando gli investimenti privati), e sono preoccupati per la militarizzazione della sicurezza pubblica, per gli attacchi del presidente ai giornalisti e per il tentativo dell’esecutivo di controllare il sistema elettorale. Epperò l’amministrazione Biden tiene basso il tono delle critiche perché ha bisogno della collaborazione messicana su una questione cruciale e politicamente spinosa: l’immigrazione.
A marzo le autorità statunitensi hanno arrestato 210mila migranti che cercavano di attraversare in maniera irregolare la frontiera con il Messico: è il numero mensile più alto in vent’anni. Ma la Casa Bianca prevede un aumento ulteriore dei tentativi d’ingresso una volta che – il 23 maggio – verrà rimosso il Titolo 42: è un ordine emesso da Donald Trump che permette il respingimento rapido in Messico dei migranti per prevenire la diffusione del coronavirus; da marzo 2020 è stato utilizzato più di due milioni di volte. Da fine maggio in poi, dunque, il contributo messicano nel contenimento dei flussi migratori diretti a nord sarà ancora più cruciale.
L’amministrazione Biden dovrebbe revocare il Titolo 42 perché ha promesso un approccio all’immigrazione diverso da quello di Trump, più umano e ordinato, benché le strutture dedicate siano già ora sature. Anche il Messico vuole la cancellazione dell’ordine perché ha aumentato molto la pressione sulle città vicine al confine, che devono gestire grandi masse di persone vulnerabili. Chiede allora che i migranti vengano rimandati piuttosto nei loro paesi d’origine – di solito arrivano dalla porzione settentrionale dell’America centrale: Guatemala, El Salvador e Honduras –, ma ottenere la collaborazione di quei governi non è facile, perché l’emigrazione rappresenta per loro una ricchezza economica per via delle rimesse.
López Obrador ha un piano: intervenire sulle cause alla base dell’esodo – la mancanza di opportunità economiche, ad esempio – attraverso un piano di sviluppo realizzato con il contributo economico di Washington. A maggio il presidente messicano farà un viaggio in America centrale che lo porterà in El Salvador, Honduras, Guatemala, Belize e a Cuba. È una notizia significativa: finora ha compiuto tre sole visite all’estero, tutte negli Stati Uniti.
Il contributo del Messico alla riappacificazione con Cuba
López Obrador è in buoni rapporti con il presidente cubano Miguel Díaz-Canel e la cosa potrebbe tornare utile a Washington. Proprio i cubani sono la seconda nazionalità più numerosa tra i migranti che cercano di entrare negli Stati Uniti – preceduti dai messicani e seguiti da guatemaltechi e honduregni –, ma L’Avana non accetta i rimpatriati via aereo.
La questione è complessa, anche per l’influenza politica dei cubano-americani in Florida ostili al regime socialista. L’amministrazione Biden vorrebbe ripristinare gli accordi migratori con Cuba cancellati nel 2018 da Trump, che ha pure chiuso l’ambasciata americana a L’Avana: prevedevano, da parte statunitense, l’emissione di 20mila visti di immigrazione all’anno per i cubani; in cambio, Cuba accettava i voli di deportazione degli irregolari. La settimana scorsa Stati Uniti e Cuba hanno tenuto i primi negoziati diretti sull’immigrazione in quattro anni, ma probabilmente non ci sarà alcuna riappacificazione finché Biden non annullerà il divieto alle rimesse verso l’isola; vuole però rassicurazioni democratiche da Cuba dopo la repressione delle grandi proteste dello scorso luglio.
Gli altri punti della telefonata
Oltre all’immigrazione, durante la telefonata tra Biden e López Obrador si è parlato anche del prossimo Summit delle Americhe che si terrà a giugno a Los Angeles: gli Stati Uniti vorrebbero non invitare il Venezuela, Cuba e il Nicaragua (già esclusi dal Summit per la democrazia di Biden), mentre il Messico preferirebbe un vertice più inclusivo possibile.
Infine, i due presidenti hanno discusso della modernizzazione infrastrutturale della frontiera comune per favorire il potenziamento e l’integrazione delle filiere industriali. La crisi del coronavirus e la competizione con la Cina hanno indotto gli Stati Uniti a modificare le proprie catene di approvvigionamento, spostandole dall’Asia al Nordamerica. Molte aziende si stanno adeguando a questa fase di accorciamento delle supply chains: dopo Amazon, che a settembre ha costruito un grosso magazzino alla periferia di Tijuana, vicino la California, anche Mattel (l’azienda americana di giocattoli che fa le Barbie e le Hot Wheels) ha detto ad aprile che aprirà in Messico il suo stabilimento più grande al mondo, pensato per rifornire il mercato statunitense.
Come riportato da Bloomberg, Lorenzo Berho, amministratore delegato di Vesta, società messicana che costruisce edifici industriali, ha detto che in Messico il processo di “regionalizzazione” delle filiere è già in corso e che “la globalizzazione come la conosciamo potrebbe essere giunta alla sua fine”.