Boris Johnson ha cavalcato la battaglia per l’uscita del Regno Unito dall’Ue con grande convinzione e dedizione. D'ora in poi, Londra potrà contare solo sulle sue forze
Boris Johnson ha cavalcato la battaglia per l’uscita del Regno Unito dall’Ue con grande convinzione e dedizione. D’ora in poi, Londra potrà contare solo sulle sue forze
Questo articolo è pubblicato sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
“Mi rendo conto che per la vostra famiglia il passaggio di questa nazione da impero a umile comparsa sulla scena mondiale deve essere stato un trauma maggiore che per noialtri. Ma ritengo anche che quel vuoto non possa essere colmato dal Commonwealth. Ci sono modi in cui la Gran Bretagna potrà tornare di nuovo grande: sarà attraverso un’economia rivitalizzata; e non associandosi con leader tribali inaffidabili in originali costumi eccentrici”.
Questo dialogo tra il Primo Ministro Margaret Thatcher e la regina Elisabetta II, così ricostruito nella quarta stagione della serie Netflix The Crown, si sarebbe tenuto all’indomani della pubblicazione sul Sunday Times di un articolo intitolato “Queen Dismayed by ‘Uncaring’ Thatcher” su quello che sarebbe uno dei rarissimi casi in cui la Corona britannica si è espressa su posizioni politiche del governo (che formalmente è “il Governo di Sua Maestà”). In particolare, contro la scelta del primo ministro di non accettare l’imposizione di sanzioni economiche contro il Sudafrica dell’Apartheid durante il vertice dei leader del Commonwealth del 1986.
L’unica certezza su quelle tensioni è rappresentata dalla smentita della Corona. Il resto rimane avvolto nel buio del retroscenismo e nei racconti dei protagonisti dell’epoca che, usciti da Buckingham Palace o Downing Street, hanno affidato a giornalisti ed editori le loro memorie (di parte).
Ma ascoltare oggi, all’indomani della Brexit, quelle frasi fatte pronunciate dall’attrice Gillian Anderson che ha vestito i panni della “Lady di ferro” aiuta a comprendere quanto e come siano cambiati gli orizzonti del Regno Unito e del Partito conservatore. In un editoriale sul Washington Post, il giornalista Ben Judah, non resident senior fellow all’Atlantic Council, è arrivato a paragonare l’attuale primo ministro, Boris Johnson, a Enrico VIII, “il re inglese che per i propri fini ruppe con Roma e con il sistema europeo della Chiesa cattolica”. Altro che Winston Churchill, l’idolo dell’attuale primo ministro. Tra 200 anni nessuno ricorderà Theresa May e David Cameron, sostiene Judah: “Persino le riforme economiche di Margaret Thatcher e le guerre di Tony Blair sembreranno irrilevanti, tanto difficili da ricordare per gli studenti quanto gli sforzi di Edoardo IV ed Enrico VII”. Ricorderanno, invece, Boris Johnson “perché senza di lui, senza i suoi desideri, non ci sarebbe mai stata la Brexit”. Sarà, infatti, impossibile raccontare la storia britannica senza di lui, com’è impossibile farlo senza citare Enrico VIII, spiega Judah.
La Brexit di Boris Johnson
La Brexit è Boris Johnson. E viceversa. L’attuale Primo Ministro britannico ha cavalcato la battaglia per l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea con grande convinzione e dedizione. Almeno all’apparenza, visto che a Downing Street continuano a serpeggiare voci sull’opportunismo dietro quella decisione di cinque anni fa. Ciò che è certo è che, grazie a quella scelta di campo e alla vittoria del Leave nelle urne del 23 giugno 2016, Boris Johnson è riuscito a cacciare dal numero 10 l’ex amico David Cameron e sostituirlo — seppur con l’intermezzo di Theresa May — alla guida del Paese.
Dopo il passo indietro di quella che i suoi detrattori hanno definito la “Lady di latta” mettendola a confronto con la prima donna a Downing Street, la rivista The Atlantic si chiedeva se un progetto sovranista come la Brexit potesse trasformarsi in un disegno internazionalista. A dare una risposta sarebbe toccato al successore di May, sottolineava Sophia Gaston, visiting research fellow alla London School of Economics. Cioè a Johnson, insediatosi nel luglio 2019 alla guida del Partito conservatore e del Regno Unito.
Lo slancio internazionalista (neo-imperialista, scrivono con accezione negativa i più scettici) è ormai al centro di quello che è diventato il partito della Brexit e della Global Britain. E non poteva trovare miglior simbolo del Primo Ministro Johnson, ex sindaco di Londra, nato a New York, definitosi più volte un “one-man melting pot”, date le sue origini inglesi, francesi, tedesche, ottomane, ma anche cristiane, ebraiche e musulmane. Il suo bisnonno, Ali Kemal, fu ministro dell’Impero ottomano un secolo fa. Storia personale e curriculum (studi a Eton e Oxford prima di intraprendente la carriera giornalistica che l’ha portato alla vicedirezione del quotidiano Telegraph e alla direzione del settimanale Spectator; poi la politica) raccontano un personaggio tutt’altro che nazionalista o sovranista. Senza dimenticare la buona dose di sfacciataggine di cui ha dato prova in più occasioni: basti pensare che durante un’intervista con David Letterman quando ancora era sindaco della città cosmopolita per eccellenza disse che “tecnicamente” può anche “diventare presidente degli Stati Uniti”, visto che ha la doppia cittadinanza.
Le prospettive di Boris Johnson
Il Primo Ministro Johnson sembra deciso a ribaltare la linea thatcheriana, convinto che il Regno Unito possa riconquistare spazi sul palcoscenico globale recuperando quello perso dopo la crisi di Suez che ha sancito il suo declassamento a media potenza. Così ha lavorato nell’ultimo anno per gettare le basi della Global Britain firmando accordi commerciali post Brexit con diversi Paesi tra cui Canada, Giappone, Messico, Norvegia, Singapore e Svizzera e rilanciando il ruolo del Regno Unito sul palcoscenico globale. Basti pensare alla presidenza della conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Cop26) organizzata con la partnership dell’Italia. O alla guida del prossimo G7, al quale Downing Street ha già invitato in qualità di ospiti Australia, Corea del Sud e India, Paesi che rientrano nell’idea, rilanciata anche dal presidente statunitense Joe Biden, di un’alleanza tra gli Stati Uniti e i loro partner nel quadrante atlantico ma anche in quello indo-pacifico per fronteggiare in maniera multilaterale l’ascesa della Cina e il suo espansionismo commerciale, tecnologico e militare. Senza dimenticare il ruolo del Commonwealth. Come sottolineato dalla rivista Foreign Policy, con l’uscita dall’Unione europea il Regno Unito ha bisogno di un nuovo blocco commerciale su cui fare affidamento. E il Commonwealth, associazione volontaria di 54 Paesi nata nel 1931, che rappresenta quasi un terzo della popolazione mondiale e oltre il 10% dell’economia globale, sembra fare al caso.
Tuttavia, nel suo slancio internazionalista, il primo ministro Johnson non può fare a meno di (pre)occuparsi delle dinamiche interne al Regno Unito. Gli esiti del referendum del 2016 stanno venendo a galla: la Scozia e l’Irlanda del Nord si espressero a maggioranza a favore del Remain, mentre le altre due nazioni britanniche, Inghilterra e Galles, votarono per il Leave. Alla luce degli accordi di divorzio e commerciali negoziati tra Regno Unito e Unione europea, a un secolo dalla sua nascita, l’Irlanda del Nord è un po’ più vicina a Dublino e un po’ più lontana da Londra. Più lontana da Londra nella speranza di tornare più vicina a Bruxelles è anche la Scozia, con la first minister Nicola Sturgeon che ha detto all’Unione europea di “tenere la luce accesa” al ritorno nel club. Un percorso che potrebbe essere accelerato dalle elezioni parlamentari scozzesi previste a maggio: se il partito di Sturgeon, lo Scottish National Party, dovesse aumentare il numero di seggi potrebbe tornare a chiedere un nuovo referendum sull’indipendenza (per poi tentare la strada che riporta all’Unione europea) dopo quello del 2014 che ha visto la vittoria del no.
L’unità del Regno non è l’unica preoccupazione, però. Superare lo status di media potenza in questa fase contraddistinta dalla sfida tra Stati Uniti e Cina significa anche avere un peso nell’ambito della sicurezza. Per questo l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea e la conseguente mancanza di un “occhio europeo” per l’alleanza d’intelligence Five Eyes (che collega il Paese con Australia, Canada, Nuova Zelanda e Stati Uniti) rischia di rappresentare un altro ostacolo ai tentativi di Londra di tornare ago della bilancia negli sforzi occidentali e sul panorama globale.