Mélanie Joly, la Ministra degli Esteri, non scoraggia ulteriori scambi con Pechino ma esorta le aziende canadesi a tenere gli occhi aperti nel fare affari con la Cina.
La ministra degli Affari esteri del Canada, Mélanie Joly, ha tenuto questa settimana un discorso anticipatorio dell’attesa strategia governativa per l’Indo-Pacifico, che dovrebbe venire pubblicata entro novembre dopo due anni di elaborazione. Il documento servirà a indirizzare i rapporti economici e politici in una regione molto vasta, che va dal Nordamerica occidentale all’oceano Indiano, e soprattutto a definire l’approccio da tenere con la Cina, una nazione che la ministra ha descritto come una potenza globale sempre più dirompente: non è soltanto la seconda economia più grande al mondo, ma un paese autoritario e assertivo che vuole rimodellare l’ordine internazionale secondo i propri valori non-democratici.
Una cooperazione circoscritta
Dopo il cosiddetto “caso Huawei” del 2018, conclusosi solo qualche mese fa – ovvero l’arresto della dirigente della società cinese Meng Wanzhou a Vancouver e il successivo incarceramento per ritorsione di due cittadini canadesi, Michael Spavor e Michael Kovrig –, pare che Ottawa non voglia più rinunciare al confronto con Pechino. Confronto che non sarà totale, però: nell’impossibilità di ignorarla, date le sue dimensioni, Joly ha specificato che il Canada continuerà a ricercare una collaborazione con la Cina sia sul commercio che sui grandi temi di interesse comune, come la riduzione delle emissioni e la non-proliferazione delle armi nucleari. Una cooperazione circoscritta, dunque. Per il resto, Joly ha anticipato che il Canada “farà di più per contrastare le influenze straniere” e spenderà 37 milioni di dollari – stando alle fonti di Reuters – per assumere esperti di Cina nelle sue ambasciate. Il riferimento è alla tentata infiltrazione cinese nelle elezioni federali canadesi del 2019, denunciata nei giorni scorsi dal primo ministro Justin Trudeau. Anche il direttore del servizio di intelligence canadese CSIS, Adam Fisher, ha detto che Pechino agisce per “corrompere” i sistemi politici occidentali, interferendo nelle loro procedure e decisioni.
Decoupling e friend-shoring
Il discorso di Joly si è fatto notare anche per l’assenza di alcuni concetti chiave come decoupling (è il disaccoppiamento, cioè il distacco dalla Cina in alcune catene del valore cruciali) e friend-shoring (è la cosiddetta “delocalizzazione tra amici”, cioè l’installazione di capacità produttiva solo nei paesi alleati o partner) evocati invece da altri ministri canadesi. Un mese fa il ministro dell’Innovazione François-Philippe Champagne dichiarò appunto che Ottawa vuole il decoupling dalla Cina e dagli “altri regimi nel mondo che non condividono [i nostri, ndr] stessi valori”. A pochi giorni di distanza la vice-prima ministra Chrystia Freeland disse che il Canada dovrebbe abbracciare il friend-shoring per mettere al riparo le filiere strategiche. Entrambi i concetti piacciono molto agli Stati Uniti, gli alleati di riferimento del Canada, che vogliono infatti sia isolare la Cina, impedendole di accedere alle tecnologie avanzate e alle materie prime più rilevanti, sia “regionalizzare” in Nordamerica la manifattura di prodotti e dispositivi critici (a cominciare dalle batterie per i veicoli elettrici).
Un rischio geopolitico
Joly non ha parlato esplicitamente di friend-shoring e di decoupling, dicendo di essere per le “porte aperte”. Tuttavia ha avvertito le aziende canadesi dei rischi che corrono nel fare affari con la Cina, definendola “un rischio geopolitico”. Gli imprenditori hanno già dimostrato di possedere una certa consapevolezza. A maggio, ad esempio, il governo canadese ha annunciato l’esclusione delle società di telecomunicazioni cinesi Huawei e ZTE dalla lista dei fornitori per la rete 5G per ragioni di sicurezza nazionale. Ma gli operatori del settore, come Bell Canada e Telus, si erano già affidate a Ericsson (svedese) e a Nokia (finlandese) per le infrastrutture di quinta generazione. A inizio novembre il Canada ha ordinato a tre compagnie cinesi di dismettere i loro investimenti nell’industria canadese dei minerali critici (come il litio per le batterie), citando sempre motivazioni di sicurezza nazionale. La mossa ha rappresentato un segnale concreto dell’avanzamento della Minerals Security Partnership, soprannominata “NATO dei metalli”: un’alleanza sui minerali per la transizione energetica tra gli Stati Uniti, il Canada e un gruppo di paesi politicamente affini volta a ridurre l’influenza cinese sulla filiera.
In passato, la supremazia geopolitica si è spesso legata al dominio delle tecnologie critiche di quella singola epoca: prima venne il Regno Unito con il vapore e il ferro, poi gli Stati Uniti con l’acciaio e l’elettronica; oggi la potenza si trasmette attraverso le telecomunicazioni, l’intelligenza artificiale, il computing quantistico, le batterie. Washington vuole dunque evitare che Pechino cavalchi la nuova rivoluzione industriale, e chiede a Ottawa e agli altri alleati di partecipare allo sforzo.
Dopo il cosiddetto “caso Huawei” del 2018, conclusosi solo qualche mese fa – ovvero l’arresto della dirigente della società cinese Meng Wanzhou a Vancouver e il successivo incarceramento per ritorsione di due cittadini canadesi, Michael Spavor e Michael Kovrig –, pare che Ottawa non voglia più rinunciare al confronto con Pechino. Confronto che non sarà totale, però: nell’impossibilità di ignorarla, date le sue dimensioni, Joly ha specificato che il Canada continuerà a ricercare una collaborazione con la Cina sia sul commercio che sui grandi temi di interesse comune, come la riduzione delle emissioni e la non-proliferazione delle armi nucleari. Una cooperazione circoscritta, dunque. Per il resto, Joly ha anticipato che il Canada “farà di più per contrastare le influenze straniere” e spenderà 37 milioni di dollari – stando alle fonti di Reuters – per assumere esperti di Cina nelle sue ambasciate. Il riferimento è alla tentata infiltrazione cinese nelle elezioni federali canadesi del 2019, denunciata nei giorni scorsi dal primo ministro Justin Trudeau. Anche il direttore del servizio di intelligence canadese CSIS, Adam Fisher, ha detto che Pechino agisce per “corrompere” i sistemi politici occidentali, interferendo nelle loro procedure e decisioni.