La Cina non vuole più essere la "fabbrica del mondo". Il Piano di sviluppo economico e sociale 2021-2025 lancia un segnale alle industrie: basta con i combustibili fossili
La Cina non vuole più essere la “fabbrica del mondo”. Il Piano di sviluppo economico e sociale 2021-2025 lancia un segnale alle industrie: basta con i combustibili fossili
La Cina è uscita bene dal colpo di immagine subito con la pandemia e la scelta di non avvertire il mondo di quanto stava succedendo a Wuhan. Un modello a democratico, che consente di mobilitare risorse e imporre limitazioni alla libertà personale senza nemmeno discuterne in un consiglio comunale, si è rivelato efficace. Certo, l’immagine del Paese rimane ammaccata in Europa (meno in Italia, pare di capire dai sondaggi) e negli Stati Uniti, dove secondo Gallup oggi l’opinione pubblica ha una visione più negativa che dopo la repressione a Tien-An-Men.
Il ritorno rapido alla crescita economica è anche un buon viatico per l’annuale Congresso del Popolo che si riunisce in questi giorni a Pechino. Un anno dopo molte cose sono cambiate, alcune sono il frutto della pandemia, altre del cambio della guardia alla Casa Bianca. Tra gli elementi positivi, per Pechino e per il pianeta intero, c’è il ritorno degli Stati Uniti negli Accordi di Parigi, che avranno come conseguenza indiretta una maggiore competizione anche sul terreno della ricerca su tecnologie compatibili e sulle energie rinnovabili. Se il mondo si muove in quella direzione, la competizione economica, pure, comincerà a essere su quel terreno: quali batterie, che capacità di stoccaggio, quale sistema di trasporti, quali automobili e quali filiere produttive.
Per farsi trovare pronta, la Cina immagina una svolta in quella direzione. O almeno questo è quanto si evince dalle anticipazioni sul Piano di sviluppo economico e sociale 2021-2025. In sintesi (e parlando solo di questo aspetto), le linee guida sono cinque: sostituire la crescita ad alta velocità con una crescita di alta qualità; riequilibrare l’economia con una riforma strutturale dal lato dell’offerta; far crescere la domanda interna, pur continuando a sostenere i mercati e le esportazioni; guidare la modernizzazione attraverso l’innovazione e i progressi tecnologici; promuovere una produzione di fascia alta, intelligente e verde.
A Pechino, insomma, si coltiva l’idea, già in corso di realizzazione, di smetterla di essere la fabbrica del mondo e far crescere i servizi e i settori produttivi di gamma alta, il tutto prestando attenzione alla qualità dell’ambiente e ai livelli di emissioni di CO2. Come ricordiamo, almeno dall’attenzione sui livelli di smog nella Pechino olimpica del 2008, il tema delle emissioni e dell’inquinamento è un tema a prescindere dalla lotta al cambiamento climatico. Migliorare la qualità dell’aria per Pechino è una questione di salute pubblica e, quindi, di politica interna. La Cina, ricordiamolo, è il più grande inquinatole del pianeta, responsabile di circa il 28% delle emissioni globali.
Il piano di sviluppo economico e sociale 2021-2025 sarà tra le altre cose un segnale diretto al sistema industriale cinese, un invito ad abbandonare i combustibili fossili. Una frenata o una marcia indietro rispetto a un 2020 durante il quale la capacità di generare energia attraverso il carbone è cresciuta in maniera imponente. La Cina ha infatti approvato la costruzione di centrali a carbone per produrre 36,9 GigaWatt solo l’anno scorso, tre volte di più dell’anno precedente, portando il totale in costruzione a 88,1 GigaWatt. L’energia generata dalla combustione del carbone sarebbe sufficiente a rifornire il fabbisogno energetico della Germania. A spingere nella direzione del carbone (che costa meno, richiede minori investimenti e nessuno sviluppo tecnologico) sono le compagnie elettriche e gli enti locali. Il nuovo piano produrrà quindi possibili bracci di ferro. Ma il carbone fa cattiva pubblicità e rende Pechino più debole a qualsiasi tavolo negoziale sulle questioni climatiche. Non è da escludere che in un futuro non lontano, con il ripensamento delle filiere produttive generato dalla pandemia e la crescente competizione internazionale, l’impronta ecologica possa divenire una ragione per imporre dazi alle merci importate, ad esempio dall’Europa. Per la Cina cambiare direzione è insomma importante per molte ragioni interne e internazionali.
Arrivare presto e bene per Pechino è importante anche in termini di competizione internazionale. Se General Motors sceglie l’elettrico, anche il settore auto cinese dovrà farlo se vuole rimanere competitivo. E l’esempio dell’auto è solo uno tra i tanti possibili. E qui torniamo alla competizione tra modelli. Se l’Europa ha tutto sommato un vantaggio perché per prima si è data regole e limiti, la Cina ha dalla sua la forza di un sistema centralizzato e democratico nel quale si stabiliscono obiettivi e si lavora come un sol uomo in quella direzione. Quale occasione migliore di dimostrare che quel modo di gestire un Paese è il migliore se non la corsa a una “civiltà ecologica” (una formula usata nella presentazione della conferenza Onu 2021 sulla biodiversità che si terrà a maggio a Kunming)?
Se la politica fosse razionale, la scelta di Pechino dovrebbe influenzare quanto accade negli Stati Uniti. Anche a Washington si sta decidendo di fare grandi passi nella direzione di una conversione ecologica dell’economia, con la differenza che per far passare le leggi, le regole, i piani di investimento federali sulle infrastrutture servono 51 voti in Senato. Gli Stati Uniti sono dunque alle prese con la necessità di competere con il modello cinese anche su questo terreno, con la differenza che una parte degli eletti repubblicani (ma anche il senatore Manchin, della carbonifera West Virginia) tendono a non voler sentir parlare di energie rinnovabili. Le polemiche sui blackout in Texas, che alcune teorie del complotto imputano al congelamento delle pale eoliche e non a un sistema vecchio e isolato, sono indicative. C’è quasi da sperare che le scelte cinesi aiutino Biden a imporre la sua linea ambientalista. Il rischio, per gli Usa, è quello di diventare l’ultimo Paese sviluppato a rimanere aggrappato a un modello industriale superato. E di avere un argomento in meno sulla bontà del modello democratico.
La Cina non vuole più essere la “fabbrica del mondo”. Il Piano di sviluppo economico e sociale 2021-2025 lancia un segnale alle industrie: basta con i combustibili fossili
La Cina è uscita bene dal colpo di immagine subito con la pandemia e la scelta di non avvertire il mondo di quanto stava succedendo a Wuhan. Un modello a democratico, che consente di mobilitare risorse e imporre limitazioni alla libertà personale senza nemmeno discuterne in un consiglio comunale, si è rivelato efficace. Certo, l’immagine del Paese rimane ammaccata in Europa (meno in Italia, pare di capire dai sondaggi) e negli Stati Uniti, dove secondo Gallup oggi l’opinione pubblica ha una visione più negativa che dopo la repressione a Tien-An-Men.
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