John Kerry è il nuovo Inviato speciale per il clima dell'amministrazione Biden, che vuole mettere al centro dell'agenda diplomatica la cooperazione climatica e i giovani. Il suo piano è ambizioso e progressista
John Kerry è il nuovo Inviato speciale per il clima dell’amministrazione Biden, che vuole mettere al centro dell’agenda diplomatica la cooperazione climatica e i giovani. Il suo piano è ambizioso e progressista
In tempi di diplomazia digitale, ormai lo abbiamo imparato, non si deve sottovalutare l’importanza di un tweet. E quello pubblicato dall’ex segretario di Stato americano John Kerry nel giorno della sua nomina a Inviato speciale per il clima dice tantissimo dell’approccio di Joe Biden. “L’America”, si legge, “avrà presto un Governo che tratta la crisi climatica come l’urgente minaccia alla sicurezza nazionale che è. Sono orgoglioso di collaborare con il Presidente eletto, con i nostri alleati e con i giovani leader del movimento climatico per affrontare questa crisi in veste di Inviato presidenziale per il clima”.
Il piano di Biden per il clima
In questi neanche trecento caratteri c’è un po’ tutto quello che l’amministrazione Biden vuole essere: un’amministrazione che vuole far percepire il distacco da quella precedente, che mette la questione climatica al centro dell’agenda politica e diplomatica, che intende ripristinare la cooperazione con i Paesi alleati e che è vicina alle richieste delle nuove generazioni, che esigono azioni drastiche per il contenimento del riscaldamento globale. Il tweet allude certamente all’attivista Greta Thunberg ma forse anche ad Alexandria Ocasio-Cortez, che ha trentun anni e che incarna la nuova (e influente) sinistra radicale del Partito democratico.
Il piano di Biden per l’energia e l’ambiente non è il “Green New Deal” di Ocasio-Cortez, ma non si può dire che non sia progressista. Prevede la decarbonizzazione del settore elettrico entro il 2035 e l’azzeramento delle emissioni nette di anidride carbonica entro il 2050, con investimenti federali per 1,7 migliaia di miliardi in dieci anni. Realizzarlo non sarà facile.
La transizione energetica dalle fonti fossili a quelle rinnovabili avrà un impatto domestico, nel senso che si ripercuoterà – resta da capire come – sull’economia americana e sul tasso di occupazione, ma è parte di una sfida dai confini geografici ben più vasti. Gli Stati Uniti sono i secondi maggiori emettitori di gas serra al mondo; la loro quota però rappresenta il 15% circa del totale globale. Non è davvero possibile contrastare efficacemente i cambiamenti climatici senza l’impegno di tutti, alleati e avversari dell’America. Biden lo sa, e per questo ha promesso che nel suo primo giorno di mandato rientrerà nell’accordo di Parigi e utilizzerà il “potere dell’esempio” per incoraggiare i Paesi più reticenti a tagliare in profondità le loro emissioni. Intanto, le analisi dicono che la temperatura media globale muove verso un aumento di 2,9°C entro il 2100, un livello superiore al limite fissato nell’accordo (2°C). Ma c’è da ben sperare: di recente molti Governi – come il Giappone, la Corea del Sud, il Canada, il Regno Unito, la Cina, l’Unione europea – si sono imposti degli obiettivi per la riduzione sostanziale delle emissioni al 2030, fino all’azzeramento netto entro i venti o trenta anni successivi. A non averlo ancora fatto sono gli Stati Uniti.
Non solo quindi l’America di Biden dovrà “rimettersi in pari”, come si dice, con un piano climatico altrettanto ambizioso: e non è scontato che ci riesca, vista la distanza con i repubblicani sul tema. Dovrà anche spronare tutti gli altri a fare di più: e per avere una possibilità di – ad esempio – convincere le economie in via di sviluppo ad abbandonare il carbone, Washington dovrà dare il buon esempio in casa.
Cosa aspettarsi dalla nuova amministrazione?
Viene però da chiedersi se, dopo quattro anni di Donald Trump, l’America non abbia perso la fiducia degli altri Paesi e soprattutto se abbia ancora la “legittimità” per mettersi alla guida dell’azione globale per il clima: anche perché il mondo non è rimasto fermo al 2015 e ha imparato un po’ ad andare avanti senza Washington. Ma con la nomina di un politico della statura di John Kerry – che è stato segretario di Stato sotto Barack Obama e che ha avuto un ruolo chiave nei negoziati per l’accordo di Parigi –Biden vuole comunicare a tutti che sta facendo sul serio. Il cambiamento climatico sarà la priorità in politica estera.
Da un diplomatico come Kerry ci si aspetta, in particolare, che ripristini la collaborazione sul tema con la Cina, il grande rivale geopolitico americano ma anche il maggiore emettitore di gas serra: è responsabile da sola di circa il 30% del totale mondiale. “Entrambi i Paesi hanno interesse a collaborare”, ha detto Simone Tagliapietra, fellow presso il think tank Bruegel e docente all’Università Cattolica del Sacro Cuore e alla Johns Hopkins SAIS. “Kerry sa bene che o si coinvolge la Cina, o del trattato di Parigi non se ne fa nulla”. Su questo punto Biden è in effetti già stato chiaro. In un articolo pubblicato sulla rivista Foreign Affairs ha scritto che gli Stati Uniti devono essere duri con la Cina, ma anche che Washington e Pechino devono cooperare in quelle aree in cui c’è convergenza di interessi, come appunto il contrasto ai cambiamenti climatici. “Collaborare interessa anche alla Cina, che ha sviluppato una propria coscienza ambientale”, spiega Tagliapietra: “il Presidente cinese Xi Jinping parla di un multilateralismo “verde” e il Paese sta facendo passi in avanti sul clima con il piano quinquennale”. Per Pechino “far fronte ai cambiamenti climatici significa anche far fronte ad una questione domestica come l’inquinamento dell’aria”.
Il dialogo con la Cina e l’Ue
Tagliapietra immagina che un rinnovato dialogo tra America e Cina sul clima possa portare allo sviluppo di “azioni congiunte sulla riforestazione o sulle tecnologie per il raggiungimento delle emissioni negative, come quelle per la cattura della CO2”. In questi anni, invece, è sembrato che Pechino abbia voluto sfruttare lo scetticismo climatico di Trump e la sua avversione per i grandi accordi per aumentare la propria influenza globale e presentarsi come la nuova garante della cooperazione internazionale. Lo scorso settembre, durante l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, Xi invitò tutti i Paesi a una “ripresa verde per l’economia mondiale nell’era post-Covid”; poco prima Trump aveva usato lo stesso palcoscenico per attaccare l’accordo di Parigi. Più recentemente, il 12 dicembre, Xi ha parlato al Climate Ambition Summit e detto che, quando si parla di clima, “l’unilateralismo non ci porterà da nessuna parte”.
Non è strano che anche la lotta al riscaldamento globale possa essere una questione geopolitica. Tra Unione europea e Regno Unito, per esempio, c’è una “corsa” per la leadership climatica fatta di obiettivi di decarbonizzazione sempre più alti, che si lega a Brexit e alle ambizioni condivise di proiettare influenza sul resto del mondo. È ancora presto per dirlo con certezza, ma gli elementi disponibili sembrano dirci che l’ambiente non si trasformerà invece in un terreno di competizione – l’ennesimo – fra Stati Uniti e Cina. Dopo quattro anni di crisi nelle relazioni bilaterali, però, Kerry dovrà riuscire a ricostruire un ponte con Pechino. Il Partito comunista, intanto, sembra essere in attesa di conoscere le mosse dell’amministrazione Biden. Xi ha rivelato qualche dettaglio del piano per il raggiungimento della neutralità carbonica entro il 2060, ma non è abbastanza: non ha ad esempio annunciato un limite massimo alle emissioni e nemmeno spiegato che cosa ne farà la Cina di tutte le sue centrali a carbone; anzi, nel 2020 ha continuato ad approvare la costruzione di nuove.
Più facile, vista l’alleanza storica, sarà per l’America recuperare i rapporti con l’Unione europea. Tagliapietra vede tanti punti di contatto tra il programma di Biden e il Green Deal di Bruxelles. E la stessa Commissione ha proposto una “agenda verde transatlantica” per coordinare gli sforzi contro il riscaldamento globale e favorire gli investimenti in nuove tecnologie. L’Europa sarebbe interessata soprattutto ad avere l’appoggio americano al cosiddetto Meccanismo di adeguamento del carbonio alla frontiera, per “aggiustare” il prezzo delle importazioni tenendo conto delle politiche sulle emissioni di CO2 adottate dai Paesi di origine.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
In tempi di diplomazia digitale, ormai lo abbiamo imparato, non si deve sottovalutare l’importanza di un tweet. E quello pubblicato dall’ex segretario di Stato americano John Kerry nel giorno della sua nomina a Inviato speciale per il clima dice tantissimo dell’approccio di Joe Biden. “L’America”, si legge, “avrà presto un Governo che tratta la crisi climatica come l’urgente minaccia alla sicurezza nazionale che è. Sono orgoglioso di collaborare con il Presidente eletto, con i nostri alleati e con i giovani leader del movimento climatico per affrontare questa crisi in veste di Inviato presidenziale per il clima”.
Il piano di Biden per il clima
In questi neanche trecento caratteri c’è un po’ tutto quello che l’amministrazione Biden vuole essere: un’amministrazione che vuole far percepire il distacco da quella precedente, che mette la questione climatica al centro dell’agenda politica e diplomatica, che intende ripristinare la cooperazione con i Paesi alleati e che è vicina alle richieste delle nuove generazioni, che esigono azioni drastiche per il contenimento del riscaldamento globale. Il tweet allude certamente all’attivista Greta Thunberg ma forse anche ad Alexandria Ocasio-Cortez, che ha trentun anni e che incarna la nuova (e influente) sinistra radicale del Partito democratico.
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