Gambia, Marocco, Barbados da una parte; Brasile, India, Cina dall’altra: i virtuosi e i disonesti. Tutti sono consapevoli, alcuni si impegnano, altri fingono di farlo
Il clima, il suo cambiamento, il suo continuo (e, a questo punto, evidente) surriscaldarsi, è faccenda che riguarda tutti, a tutte le latitudini. Ma non tutti i Governi stanno reagendo allo stesso modo. Alcuni hanno preso la faccenda di petto, affrontandola come se fosse qualcosa da cui, con urgenza, dipende la vita delle persone. Altri, invece, continuano a trattare tutta la questione clima e inquinamento come hanno sempre fatto, ossia come un problema lontano, nello spazio e nel tempo. E per questo, danno la precedenza a problemi più immediati e concreti, come l’occupazione, l’inerzia dei modelli industriali o, molto più prosaicamente, il consenso elettorale.
Altri ancora invece, e sono i Paesi più grandi e grossi, sia dal punto di vista della popolazione che da quello dell’economia, come gli Usa o l’Ue, hanno ben chiara la portata del problema, la sua imminente gravità (e anche il suo peso elettorale), ma si trovano nella complicata posizione di essere gli unici che davvero possono fare qualcosa e, allo stesso tempo, quelli che possono farci meno di tutti perché la loro ricchezza (opulenza, in alcuni casi) e quella di chi li abita dipendono proprio, se non solo, da un modello economico pensato e progettato sulla base di petrolio e carbone. Smantellarlo, potrebbe significare ripensare l’intero sistema: una cosa che si può fare, ma che richiede passi lenti e ponderati, laddove invece forse servirebbero strappi decisi.
I “buoni”
Così, in questa stasi, mentre guardiamo le nuvole che corrono nel cielo, le tempeste tropicali che spazzano le Alpi, la grandine a novembre e i 38 gradi in Siberia, risulta difficile fare una lista dei buoni e dei cattivi tra i Paesi del mondo. Qualunque definizione sarebbe imprecisa, affrettata, parziale. Quello che possiamo fare, però, è una distinzione tra Paesi più o meno consapevoli e volenterosi. Nella lista dei Paesi più consapevoli, perché il cambiamento climatico ce lo hanno letteralmente in casa, possiamo mettere il Costa Rica, la Danimarca (con la costola Groenlandia) e le Barbados. Paesi il cui peso economico e geo-politico è, in verità, piuttosto limitato, ma che hanno fatto della lotta al cambiamento climatico la loro bandiera, la loro sfida identitaria.
Nel caso del Costa Rica occorre dire che, insieme alla Danimarca, ha dato vita al BOGA, Beyond Oil and Gas Alliance, una specie di cordata internazionale di Paesi intenzionati a fissare una data precisa entro cui mettere al bando definitivamente, la produzione e la ricerca di petrolio e gas. All’alleanza, lanciata tra non poche perplessità lo scorso settembre, hanno aderito, dopo Cop26, Paesi come Francia, Italia, Finlandia e Irlanda, oltre che lo stato della California e la regione del Quebec. La Danimarca, inoltre, si è impegnata a ridurre del 70% le emissioni di gas serra entro il 2030 e ha deciso di investire fortissimo sull’energia eolica offshore, settore del quale aspira a diventare Paese faro. Della Danimarca, poi, fa parte anche la regione autonoma della Groenlandia, che si ritrova nella posizione peculiare di essere una delle terre in assoluto più colpita dal riscaldamento globale e dallo scioglimento dei ghiacci.
Allo stesso tempo, però, la Groenlandia è anche un Paese ricchissimo di terre rare, materiali indispensabili alla transizione ecologica, ma la cui estrazione è devastante e inquinante come poche altre. Non a caso, dunque, pochi mesi fa, la Groenlandia ha fermato un enorme progetto di escavazione. Una scelta comprensibile e salutata con sollievo dagli ambientalisti di tutto il mondo. Ma che mette la Groenlandia nella scomoda e paradossale posizione di essere uno dei paesi climaticamente più consapevoli e, allo stesso tempo, che più si mette di traverso alle politiche di transizione energetica. E la ragione per cui lo fa è, in questa specie di matrioska di paradossi, proprio la tutela dell’ambiente.
Un altro Paese che merita di stare nella lista dei Paesi volonterosi e consapevoli è il Gambia, un posto del quale il mondo, in genere, tende a dimenticarsi. Pochi pochi mesi fa, però, è balzato agli onori delle cronache perché il think tank Climate Action Tracker ha certificato che, con una riduzione di gas serra del 44% entro il 2025, il Gambia è l’unico Paese ad aver rispettato a pieno gli impegni della tabella di marcia previsti da Parigi 2015. Un traguardo enorme in termini assoluti e simbolici. Ma insignificante in termini relativi, se si pensa che il Gambia è un Paese di 2,5 milioni di abitanti che per lo più vivono in estrema povertà e il cui contributo alle emissioni globali annue è di meno dello 0,01% annuo.
Nel gruppo dei buoni, poi, potremmo mettere anche un altro paese africano, il Marocco, che si sta dando da fare per migliorare la gestione delle sue risorse idriche, per ripopolare le foreste e per generare gran parte della sua energia da fonti rinnovabili. La posizione del Marocco, però, è contestata, perché per raggiungere l’obiettivo del 53% di energia rinnovabile entro il 2030 occorre passare dal controllo del Sahara Occidentale, area tra le più contese e complesse della Terra.
Infine, nel club dei Paesi senza dubbio buoni, ma di scarso ruolo economico e (ahimè) ambientale, ci sono le isole Barbados. Il loro peso nel gigantesco paniere delle emissioni globali è minimo (siamo, di nuovo dalle parti dello 0,01%, per circa 250 mila abitanti), ma, dopo Glasgow, il Paese, o meglio la sua carismatica presidente Mia Mottley, ha assunto il ruolo di leader ambientale planetario.
I “cattivi”
Stilare un gruppo dei cattivi, o meglio di Paesi che si ostinano a non impegnarsi per la riduzione del loro impatto sul clima, è faccenda assai più complicata. Perché in teoria non esiste nessun Paese che non sia consapevole dalla questione clima. E non esiste nessun Paese che, almeno di facciata, non abbia preso impegni per ridurre le proprie emissioni. Però esistono Paesi ai quali la transizione ecologica non conviene. Almeno non ora, non a queste condizioni.
Uno, per esempio è l’Australia, primo esportatore al mondo di carbone.
In realtà il contributo complessivo del carbone all’economia australiana è relativamente basso (circa l’1% delle entrate nazionali), ma è politicamente cruciale perché i lavori nel carbone sostengono alcune delle comunità rurali da cui dipende il risultato delle elezioni. A quelle comunità guarda soprattutto (un po’ come il senatore del West Virginia, Joe Manchin) il premier australiano Scott Morrison, noto per le sue posizioni di forte minimizzazione, se non proprio negazione, del cambiamento climatico e del ruolo del carbone nella sua crescita.
Male anche la Russia: non solo per i suoi (assai timidi) tentativi di policy interna, non solo per le mire, pesantissime, che ha sull’Artico, ma anche per le sue posizioni sullo scacchiere internazionale. Lo scorso dicembre, per esempio, la Russia ha bloccato una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che avrebbe definito il cambiamento climatico una minaccia alla pace.
Male anche il Brasile, dove i roghi continui della deforestazione selvaggia degli anni di Bolsonaro, hanno fatto sì che ad oggi la Foresta Amazzonica emetta più CO2 di quanta riesca ad assorbirne.
Vulgata vuole che anche Cina e India giochino nella squadra degli inquinatori senza tetto né legge. Ma, di nuovo, si tratta di una definizione un po’ affrettata. La Cina, per esempio, da un lato è responsabile di un’infinità di emissioni e usa il carbone come se fosse acqua fresca, dall’altro è anche uno dei maggiori investitori al mondo in energie rinnovabili oltre che un imprescindibile produttore di tecnologie necessarie alla transizione verde, come pannelli solari e pale eoliche.
Allo stesso modo, anche sull’India (che pure ha giocato la parte del poliziotto cattivo alla Cop di Glasgow, imponendo che nella dichiarazione finale si parlasse di ‘riduzione’ e non di ‘abbandono’ del carbone) non si possono dare giudizi affrettati. In primo luogo perché, per quanto l’India inquini (e lo fa moltissimo, è il terzo Paese al mondo per emissioni dopo Cina e Usa) ha un livello di inquinamento pro capite assai basso (molto inferiore a quello di qualsiasi Paese occidentale: 1,9 tonnellate a persona nel 2019, contro le 16 tonnellate di ciascuno statunitense). In secondo luogo perché quando si parla di India e inquinamento non si può, in tutta onestà, non tenere conto delle responsabilità storiche di un problema antico al quale l’India sta contribuendo solo da pochi anni: e se il clima, nel suo precipitoso cambiare, non tiene conto di chi ha iniziato per primo, la politica, necessariamente, lo fa.
Infine occorre dire che l’India, che pure ha zavorrato le trattative di Glasgow, un impegno lo ha preso: emissioni zero entro il 2070. Il che significa sì, vent’anni più tardi del 2050 promesso da Regno Unito, Stati Uniti e Ue, e dieci dopo il 2060 scelto da Cina, Russia e Arabia Saudita. Ma significa anche il termine ultimo. La vera e non più trattabile data di scadenza del mondo inquinatore che conosciamo. E questa è senza dubbio, una buona notizia. Non ottima, certo. Ma, per ora, è tutto ciò che abbiamo.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
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Altri ancora invece, e sono i Paesi più grandi e grossi, sia dal punto di vista della popolazione che da quello dell’economia, come gli Usa o l’Ue, hanno ben chiara la portata del problema, la sua imminente gravità (e anche il suo peso elettorale), ma si trovano nella complicata posizione di essere gli unici che davvero possono fare qualcosa e, allo stesso tempo, quelli che possono farci meno di tutti perché la loro ricchezza (opulenza, in alcuni casi) e quella di chi li abita dipendono proprio, se non solo, da un modello economico pensato e progettato sulla base di petrolio e carbone. Smantellarlo, potrebbe significare ripensare l’intero sistema: una cosa che si può fare, ma che richiede passi lenti e ponderati, laddove invece forse servirebbero strappi decisi.