In tempi di crisi, nasce il co-housing, una nuova forma dell’abitare. È l’abitare comune senza rinunciare agli spazi individuali, riconquistando quel valore essenziale del vicinato che la dimensione urbana ha cancellato.
Esiste, tra la casa e l’economia, un legame antico. È il legame tra oikos e nomos, tra la dimora (ciò che tiene insieme le cose) e la regola (la gestione delle cose). Così se crisi economica significa anche e innanzitutto crisi della casa, la riduzione del flusso monetario apre una riflessione sulle forme dell’abitare: perché nonostante la nostra generale assuefazione alla casa in cemento armato nel grande condominio, non esiste un’unica forma di casa ma tante tecnologie e modalità costruttive, diversi possibili modelli insediativi, strutture di società e di convivenza che vanno cambiando nel tempo e che coesistono nelle stesse città o a poca distanza.
In questo senso, la novità forse più interessante emersa negli ultimi anni, riguarda la possibilità di stabilire nuove forme di coabitazione: una sorta di vicinato elettivo, a partire dall’idea che se tanto le reti parentali quanto i servizi di welfare si allentano, lasciandoci sempre più soli, occorre ritessere delle trame sociali, perché ci si può sostenere a vicenda.
Se è questa la chiave del co-housing, due sono le sue caratteristiche essenziali: la compresenza di abitazioni private e servizi comuni, e un modello di partecipazione attiva dei residenti alle scelte necessarie per la vita della struttura, dalla sua progettazione alla gestione quotidiana.
Con queste caratteristiche e numerose declinazioni possibili, l’abitazione collaborativa nasce in Nord Europa negli anni Settanta sotto la spinta dei movimenti femministi, ma si diffonde come un’onda in piena nel Mediterraneo e nel resto del mondo con la crisi del 2007.
A Munksoegaard, in Danimarca, per esempio la ricerca di una forma di economia essenziale e sistemica, porta un gruppo di co-houser (uniti da una comune visione ecologista) a progettare e realizzare da sé le proprie case, con materiali tradizionali come il legno, l’argilla e la paglia, a basso costo e con grandissime qualità e prestazioni: la paglia in particolare è lo stelo della pianta morta di cereali, dunque un materiale naturale e residuale, e ha grande capacità di isolamento termico oltre che, compressa e murata, grande capacità portante e di resistenza sismica e al fuoco.
L’interesse verso forme di autocostruzione, con materiali tradizionali ma dimenticati come il legno e la paglia, è oggi molto forte anche in Italia, dove però il groviglio di leggi esistenti non permette come in Danimarca, o nella più vicina Francia, di costruirsi la casa da sé (rispettando poche e chiare norme) con una semplice comunicazione all’amministrazione comunale.
Fioriscono però iniziative come quella dell’Associazione Italiana Edilizia in Paglia per riscoprire stili di vita sostenibili, all’insegna della più avanzata ricerca scientifica internazionale, ma anche di un ritorno ad un sistema costruttivo “familiare”: dove ciascuno possa farsi la casa con le proprie mani, meglio se condividendo l’esperienza con l’aiuto di amici e parenti.
La possibilità di una doppia gestione pubblico-privata di grandi spazi comuni come mense e palestre, utilizzate da enti pubblici di giorno e da una comunità di cohouser a canone minimo la sera, è invece caratteristica di un’importante esperienza in Svezia, dove a Stoplickan, vivono oltre 400 persone in 13 condomini: un vero e proprio quartiere.
L’Olanda è invece il paese che ospita il maggior numero di comunità di co-housing dedicate agli anziani (oltre 200), sostenute dallo stato per ridurre i costi dell’assistenza sociale e sanitaria.
Se infatti a 60 anni possiamo aspettarci di vivere ancora un terzo degli anni già vissuti, la questione della terza età sta diventando una delle più radicali e difficili mutazioni sociali della nostra epoca. E la prospettiva di una terza età vissuta autonomamente ma in comune, attrae anche un paese dove la tradizione del nucleo familiare è più radicata (ma in veloce evaporazione) come l’Italia.
Due famose esperienze pilota tanto di forme di abitare cooperativo quanto di inedite forme di collaborazione tra pubblico e privato, sono state a livello europeo quella di Coin Street in Inghilterra e quella del quartiere Vauban in Germania.
Nel primo caso, un gruppo di abitanti del South Bank di Londra è riuscito ad opporsi alla realizzazione di un progetto per la trasformazione del proprio quartiere dando vita a un gruppo di azione e poi a una vera e propria “impresa sociale”: il Coin Street Community Builders. Questa, realizzando un mix di case, servizi, spazi per attività culturali, giardini, e organizzando corsi, laboratori ed eventi, ha trasformato il quartiere in un centro urbano multifunzionale, punto d’attrazione per i londinesi e visitatori da tutto il mondo.
A Friburgo, sulle aree di una caserma francese dismessa all’inizio degli anni Novanta, il Forum Vauban, una Ong nata nel 1994 e scelta l’anno dopo dall’amministrazione della città come rappresentante della comunità, ha progettato e realizzato un quartiere modello basato su un rapporto equilibrato tra aree abitate e produttive, sul principio della priorità pedonale, della progettazione partecipata e dell’adozione di scelte architettoniche finalizzate a ridurre la domanda di energia e sviluppare l’energia solare.
In Italia in questi anni si è aperto un acceso dibattito mediatico sul tema del cohousing, accompagnato dalla fioritura di molteplici esperienze, basate sull’auto organizzazione di gruppi di famiglie (particolarmente interessante per esempio il caso di CoAbitare a Torino) oppure sulla nascita di vere e proprie società di servizi, dove un’equipe di esperti (imprenditori, architetti, psicologi) accompagna le famiglie nel percorso di creazione di una cooperativa e nella realizzazione del progetto.
Così opera per esempio la Cohousing Venture di Milano, aiutando potenziali cohouser a trovare un edificio o area da recuperare e altri partecipanti con cui dar vita a una community, seguendoli poi sino alla sua realizzazione. Un’altra evoluzione dei modelli abitativi emersa dalla crisi in Italia, riguarda le nuove forme di edilizia sociale privata.
Protagonista del social housing è al momento la Fondazione Housing Sociale, con una decina di progetti caratterizzati da un approccio integrato agli aspetti architettonici, economico-gestionali e sociali, della vita futura degli edifici. Tra questi, ha appena preso il via il cantiere di via Cenni a Milano dove in soli 14 mesi verrà realizzato il più grande complesso residenziale europeo con strutture portanti in legno: 4 edifici di 9 piani per un totale di 124 alloggi tutti in classe A. Ovvero, con consumi medi annui per un appartamento di 100 mq stimati di meno di 300 euro, contro i 1000-1500 spesi mediamente per il riscaldamento in Italia.
Sostenibilità, efficienza e solidarietà, attraverso la centralità di spazi collettivi (una lavanderia, un living e una utensileria dedicati agli inquilini, un foyer e un centro di fisioterapia aperti alla città) e di originali servizi residenziali (mamme di giorno, famiglie solidali, gestore sociale), sono le parole chiave del progetto per la creazione di una comunità portatrice di un modello innovativo di convivenza attiva.
In tempi di crisi, nasce il co-housing, una nuova forma dell’abitare. È l’abitare comune senza rinunciare agli spazi individuali, riconquistando quel valore essenziale del vicinato che la dimensione urbana ha cancellato.