Coronavirus: la crisi ha dimostrato quanto servano le istituzioni multilaterali per la nostra salute e per la sicurezza collettiva
Che il mondo non fosse preparato alla gestione efficace di una pandemia come quella da Covid-19 lo sappiamo da tempo. Le parole pronunciate da Bill Gates al TED Talk 2015, che qualcuno ha ribattezzato come profetiche, erano in realtà il frutto di studi specifici ed elaborazioni statistiche basate su fatti concreti. All’epoca, la sfida era quella di contenere i contagi — e il numero di morti — causati dalla diffusione dell’ebola nella regione dell’Africa occidentale. Grazie a una risposta eccezionale di Stati, organizzazioni internazionali e regionali, delle fondazioni private come Gates Foundation e degli enti non governativi, l’epidemia venne arrestata: sono stati calcolati meno di 30mila individui colpiti dal virus e poco più di 11mila persone che hanno perso la vita.
Il 14 settembre 2014 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adottò all’unanimità una risoluzione, la numero 2177, con la quale si chiese l’isolamento immediato dei Paesi affetti — principalmente, Liberia, Sierra Leone e la Guinea — e incoraggiò, così come altri partner, l’Organizzazione mondiale della sanità “a rafforzare la sua leadership tecnica attraverso il supporto alle operazioni dei Governi” per il contrasto al virus. Venne, inoltre, creata una missione Onu ad hoc, l’UNMEER — United Nations Mission for Ebola Emergency Response — “per fermare i contagi, per il trattamento degli infetti, per garantire i servizi essenziali, preservare la stabilità e prevenire future diffusioni del virus”. Si può ragionevolmente affermare che fu un successo gestionale per la comunità internazionale, esempio che non è stato purtroppo preso in considerazione per la pandemia da coronavirus. Gates e la sua fondazione capirono immediatamente lo stato dell’arte e, dunque, quali sono le mancanze che impediscono di affrontare correttamente un’epidemia che se virulenta, come ipotizzato cinque anni fa dal fondatore della Microsoft, troverebbe il mondo impreparato.
Così è stato nel caso del Covid-19, per molteplici ragioni: mancanza di un sistema globale effettivo di risposta; scarsità di equipaggiamento in dotazione alle strutture sanitarie; limitatezza del numero del personale sanitario e della formazione svolta. La questione principale ruota attorno alla risposta internazionale che, sia nelle situazioni di crisi che di regolare management, è direttamente proporzionale alla volontà dei Governi di farla funzionare, così come le organizzazioni intergovernamentali come l’Onu possono essere efficaci solo grazie alla spinta politica dei membri. Le Nazioni Unite nascono all’indomani della Seconda guerra mondiale, cristallizzando i rapporti di forza del 1945, con le potenze vincitrici che, ancora oggi, detengono un potere rilevante, nonostante i profondi cambiamenti avvenuti negli ultimi 75 anni. Il Consiglio di Sicurezza, ad esempio, composto da 15 Stati, ha al suo interno 5 nazioni — Stati Uniti, Russia, Cina, Gran Bretagna e Francia — con diritto di veto. Essendo l’unico organo Onu con mandato e potere coercitivo e d’uso della forza per il mantenimento della pace e della sicurezza, esso è soggetto a un grave malfunzionamento, con i vari membri — specie quelli non permanenti eletti a rotazione — rappresentativi di poteri dal diverso peso specifico. Infatti, le scelte prese in seno al Security Council sono il frutto di sottili calcoli che tengono in conto gli interessi delle principali potenze. Motivo per il quale è stato più semplice adottare misure per il contrasto della diffusione dell’ebola nel 2014, piuttosto che decidere il da farsi per il Covid-19, localizzato in una Cina in piena lotta per la supremazia economica, militare e culturale con gli Stati Uniti.
Il Segretario Generale António Guterresha parlato al Consiglio di Sicurezza solo il 9 aprile, dopo mesi dall’inizio delle tensioni causate dal virus e a diverse settimane di distanza dall’annuncio di pandemia della World Health Organization. L’incontro è stato richiesto da 9 Stati non permanenti del Consiglio, che hanno dovuto superare le resistenze di Pechino — coinvolta per prima nella gestione del coronavirus e accusata da Washington di averne deliberatamente nascosto gli effetti —, secondo cui la situazione non costituisce una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale, ovvero tra i compiti di controllo dell’organismo, sanciti dall’articolo 24 della Carta dell’Onu. È palese l’inadeguatezza del framework gestionale dei rapporti internazionali e delle emergenze, uno schema che presta il fianco alle velleità degli Stati più forti, che alimenta la diffidenza dell’opinione pubblica e non tiene in considerazione le reali esigenze della popolazione mondiale. Ad esempio, l’amministrazione statunitense guidata da Donald Trump, fin dal suo insediamento nel gennaio 2017, ha impostato una strategia di allontanamento netto dal principio del multilateralismo. Con l’abbandono degli Accordi di Parigi sul clima sottoscritti con la Conference of the Parties (Cop21) e poi del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPoA) sul nucleare iraniano, gli Stati Uniti hanno compiuto un ulteriore passo con il blocco dei finanziamenti all’Oms, pari a circa 900 milioni di dollari nel biennio 2018/2019 e rappresentativi del 14% del budget totale dell’organizzazione con sede a Ginevra.
La forte presa di posizione di Washington è dettata da calcoli prettamente politici, nel quadro degli slogan presidenziali unilaterali e isolazionisti quali America First e Make America Great Again, che hanno portato Trump alla conquista della Casa Bianca. La diffusione incontrollata del virus a livello planetario e sul territorio statunitense è stata l’occasione per puntare il dito contro la Cina e il Direttore Generale del Who, l’etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus, con l’organizzazione colpevole, secondo il Presidente repubblicano, di collusione con le autorità cinesi. Eppure, a gennaio Trump elogiava gli sforzi di Pechino nel contrasto al virus e, fattore dirompente, era da tempo a conoscenza della gravità della situazione, con il suo Governo protagonista di tagli alle strutture sentinella del Cdc, Centers for Disease Control and Prevention. L’agenzia di controllo sulla sanità pubblica degli States, che provvede al contrasto delle malattie e offre assistenza per il blocco di epidemie, ha subìto il taglio di 2/3 del personale nella sede di Pechino.
Sempre in Cina, l’amministrazione repubblicana ha chiuso gli uffici di Nsf, National Science Foundation e di Usaid, l’importante Agenzia per lo Sviluppo Internazionale che nel Paese asiatico si occupava del monitoraggio e del contrasto alle epidemie. Non solo: nel 2018, il Dipartimento all’Agricoltura, Usda, è stato privato del responsabile del controllo delle malattie animali. Ancora, a novembre 2019 l’Ncmi, National Center for Medical Intelligence, ha realizzato un rapporto dettagliato sui rischi del coronavirus, inviato alla Dia, Defence Intelligence Agency, al Pentagono e alla Casa Bianca: la portata dell’evento è stata ampiamente sottostimata dalla dirigenza governativa. Nel report, inoltre, viene stigmatizzato come la leadership cinese sapesse che l’epidemia fosse fuori controllo, mantenendo per sé l’informazione e nascondendola ai Governi stranieri e alle agenzie di salute pubblica.
Le azioni delle due superpotenze denunciano una realtà lapalissiana: l’esigenza di una struttura di comando, sì comune ma pienamente autonoma dalle visioni di politica interna degli Stati e finanziata a dovere, alla quale cedere sovranità per una gestione puntuale ed efficace delle emergenze pandemiche, non certo nuove al genere umano. La strada maestra rimane il multilateralismo, ma rafforzato, che può nascere solo dalla riforma trasparente del sistema dei poteri delle Nazioni Unite e da una governanceglobale realmente capace di guardare al futuro, nel pieno rispetto dei diritti umani e della tutela dell’ambiente. Sfide titaniche per l’attuale classe dirigente, che non si è dimostrata all’altezza della situazione.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di giugno/luglio di eastwest.
Che il mondo non fosse preparato alla gestione efficace di una pandemia come quella da Covid-19 lo sappiamo da tempo. Le parole pronunciate da Bill Gates al TED Talk 2015, che qualcuno ha ribattezzato come profetiche, erano in realtà il frutto di studi specifici ed elaborazioni statistiche basate su fatti concreti. All’epoca, la sfida era quella di contenere i contagi — e il numero di morti — causati dalla diffusione dell’ebola nella regione dell’Africa occidentale. Grazie a una risposta eccezionale di Stati, organizzazioni internazionali e regionali, delle fondazioni private come Gates Foundation e degli enti non governativi, l’epidemia venne arrestata: sono stati calcolati meno di 30mila individui colpiti dal virus e poco più di 11mila persone che hanno perso la vita.
Il 14 settembre 2014 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adottò all’unanimità una risoluzione, la numero 2177, con la quale si chiese l’isolamento immediato dei Paesi affetti — principalmente, Liberia, Sierra Leone e la Guinea — e incoraggiò, così come altri partner, l’Organizzazione mondiale della sanità “a rafforzare la sua leadership tecnica attraverso il supporto alle operazioni dei Governi” per il contrasto al virus. Venne, inoltre, creata una missione Onu ad hoc, l’UNMEER — United Nations Mission for Ebola Emergency Response — “per fermare i contagi, per il trattamento degli infetti, per garantire i servizi essenziali, preservare la stabilità e prevenire future diffusioni del virus”. Si può ragionevolmente affermare che fu un successo gestionale per la comunità internazionale, esempio che non è stato purtroppo preso in considerazione per la pandemia da coronavirus. Gates e la sua fondazione capirono immediatamente lo stato dell’arte e, dunque, quali sono le mancanze che impediscono di affrontare correttamente un’epidemia che se virulenta, come ipotizzato cinque anni fa dal fondatore della Microsoft, troverebbe il mondo impreparato.
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