Non si corre per il Quirinale, si viene scelti e si accetta, quasi a malincuore. Questo il copione. I favoriti e scalpitanti in genere non vengono eletti. Cosa attendersi dunque dal prossimo voto parlamentare?
La regola prescrive una specie di voglioso distacco. A dimostrazione che il Quirinale non è per chi lo desideri, ma è una gloria terminale che corrisponde alla più smaniosa scaramanzia del comando. Anche Mario Draghi ricorre infatti alla metafora, che simpaticamente allude: “Sono un nonno a servizio delle istituzioni”. Ci si propone, dunque, ma anche no.
La corsa al Quirinale
La lunga corsa verso la presidenza della Repubblica, d’altra parte, sempre mortifica i candidati troppo desiderosi, superbi e sicuri di sé. Successe due volte a Fanfani, cui scrissero nelle schede: “Maledetto nanetto non sarai mai eletto”. E successe a Spadolini, poi a Forlani e persino ad Andreotti. Così le ambizioni sono costrette a muoversi nell’ombra. E fatta eccezione per Silvio Berlusconi, primo nella storia italiana a candidarsi alla presidenza della Repubblica senza far alcun mistero dei propri desideri, per tutti gli altri la prassi vuole al contrario che ci si candidi e ci si accrediti al di fuori d’ogni rapporto con l’opinione pubblica.
Non c’è mai nessuno che dica “io vorrei fare il Presidente, credo di avere le qualità adatte”. Quelli che di solito la spuntano, alla fine, sono infatti quelli che stanno più a lungo sott’acqua, come i sommergibilisti. Nessuno pensava davvero che Oscar Luigi Scalfaro, nel 1992, diventasse Presidente della Repubblica. E nemmeno Sergio Mattarella era tra i favoriti. Più noto sei, infatti, di solito, meno possibilità hai. Significa forse che Mario Draghi non sarà mai Presidente della Repubblica? E chi può dirlo. I partiti sembrano temerlo, quest’uomo diventato la vivente fatalità dell’italico destino.
Appaiono spaventati dall’ipotesi che una sua ascesa al soglio presidenziale provochi la fine repentina della legislatura. E fin qui danno tutti l’impressione di non volerlo votare. Dal canto suo, l’ex Presidente della Bce, sornione e spiritoso, si è definito un “nonno al servizio delle istituzioni”. Dunque alludendo, anche lui, alla presidenza. Senza mai confermare, ma nemmeno smentire, d’essere interessato al quel Colle più alto sorvegliato dai corazzieri. A quella gloria terminale. È infatti proprio nella voglia che la faccenda quirinalizia sempre si complica. Perché “chi entra Papa, esce cardinale”, come dicevano nella Dc. Chiedete a Romano Prodi, che fu impallinato dai famosi centouno franchi tiratori. Bisogna dunque dissimulare, e costruire, adelante con juicio, passo dopo passo. Sotto il pelo dell’acqua ci sono ancora Dario Franceschini, Pier Ferdinando Casini, Paolo Gentiloni, Guliano Amato, Luciano Violante, Walter Veltroni, Anna Finocchiaro, Sabino Cassese… E chi meno parla, chi meno si è espone e meno appare, forse in realtà più aspira, e più ha possibilità. Ed è così che alla fine, i candidati più forti come sempre sono anche quelli più improbabili e sommersi.
La confusione delle forze politiche
Strana e complicata faccenda, l’elezione del Presidente della Repubblica. Si voterà alla fine di gennaio, tra il 20 e il 25. Manca poco. Eppure mai come questa volta tutto appare confuso e indecifrabile. Perché se è normale e fisiologico che non ci siano esplicitamente dei candidati, è al contrario preoccupante e patologica l’incertezza delle forze politiche. Il loro stordimento. Questa volta nessun partito sembra infatti capace di dare le carte e dirigere le danze, trovare un metodo, offrire un punto d’incontro. Enrico Letta non ha la forza parlamentare sufficiente col solo Pd, né può contare sulla fragilità esplosa dei 5 Stelle di Giuseppe Conte per provare a imporre qualcosa: un nome, un’idea, anche solo un profilo disegnato nell’aria. Giorgia Meloni è in grande spolvero, sì, nei sondaggi, ma in Parlamento ha un gruppo parlamentare minuscolo e dal peso trascurabile. È fuori partita. Silvio Berlusconi gioca per sé, per adesso. E Matteo Salvini, infine, sembra un nostromo senza bussola: candida Draghi, ma poi dice che se Draghi va al Quirinale equivale alle elezioni anticipate. In pratica sabota il candidato che pure afferma di sostenere. E davvero Draghi dovrebbe esporsi alle follie di un Parlamento incontrollabile? Alle incertezze di leader politici che improvvisano? Sul serio un uomo con la sua biografia accetterebbe il rischio dello spelacchiamento e dell’umiliazione?
C’è chi addirittura spera nell’ultima mossa del cavallo di Matteo Renzi, il leader disarcionato e in crisi di consensi ma che pure ha fin qui dirottato e indirizzato il destino di questa legislatura: impedito le elezioni ai tempi del Papeete, favorito la nascita del secondo governo Conte, determinato la crisi di Conte e l’ascesa di Draghi a Palazzo Chigi. Ora forse ci si attende da Renzi che determini, pur senza voti, ma con la sola imposizione del talento politico, anche l’incoronazione di Draghi al Quirinale. Chissà. Pare che lui sia orientato però verso altre soluzioni. E così, davvero, l’unica cosa certa sul proscenio istituzionale e politico è la confusione. L’assenza di un filo rosso da seguire. Nessuno parla con nessuno. Nessuno sembra capace di costruire quel genere di conversazioni e d’intese, di compromessi e di scambi, che dovrebbero essere la caratteristica e la qualità stessa della politica.
Sette anni fa il caos Quirinale fu risolto con una cena settimanale. La cena dei non cretini, anzi dei competenti, potere fortissimo e perciò invisibile, muto, ma bilanciato, decisionista e operativo. La cabina di regia di cui oggi non si vede nemmeno l’ombra. Giorgio Napolitano, Giuliano Amato, Sergio Mattarella e Sabino Cassese. Erano loro i commensali di quella segreta cena settimanale (di preferenza il martedì) andata avanti per un anno, a cavallo tra il 2014 e il 2015 in attesa delle dimissioni ampiamente annunciate del Presidente dell’epoca, Giorgio Napolitano, prorogato dai partiti per la loro incapacità. Oggi come allora. Ebbene, a quei tempi tutti sapevano e tutti facevano finta di niente. Ovvero che era un appuntamento carbonaro tra amici che si stimano, ma allo stesso tempo una cena tra rivali per la successione di Napolitano. E che da quel mazzo sarebbe uscita la carta vincente. Come si fa in un club di gentlemen uscivano tutti dal luogo dell’incontro fischiettando, ognuno convinto che il traguardo fosse più vicino per sé e più lontano per gli altri.
C’erano una volta un ex comunista, un socialista, un cattolico democratico e un liberale. Come nelle barzellette. Si faceva il punto e poi questo punto discendeva giù pe’ li rami verso i mondi di riferimento dei commensali: nomine, rapporti con la finanza, con i grand commis, leggi, Governi, emendamenti, manovre. Potere forte, anche se a Palazzo Chigi c’era il ragazzo di Rignano, Matteo Renzi, uno che il punto tende a metterselo da solo, dove gli pare, anche a costo di rompersi l’osso del collo. Un gruppo di quirinabili, insomma, riuniti attorno al presidente della Repubblica in carica. E un presidente del consiglio, leader della maggioranza, con la forza parlamentare (e l’agilità politica) sufficiente a gestire un processo complesso come l’elezione del Presidente della Repubblica. Tutto ciò che insomma manca adesso.
Tutto può ancora mutare…
Due anni prima di quelle cene, era andata in scena la crisi istituzionale, la vergogna dei partiti culminata con la richiesta – cappello in mano – d’una rielezione di Napolitano. Sergio Mattarella lo ha detto e ripetuto: non ha intenzione di ricandidarsi, non vuole essere rieletto. Più volte lo ha ribadito nelle ultime settimane fra visite (a Papa Francesco) e cerimonie natalizie. Eppure nel suo discorso di fine anno, pronunciato in piedi, quasi sull’uscio del Palazzo, quindi non fuori dal Quirinale ma nemmeno del tutto dentro, il Presidente in carica non ha recitato un commiato. Non ha preso cappello. Non ha salutato. Ma ha saggiamente omesso qualsiasi riferimento al suo futuro personale e a quello dell’istituzione che lui rappresenta.
Si capisce allora che davvero tutto può mutare in un contesto ancora così denso di incertezze. Il 14 dicembre 2012 l’allora Presidente Napolitano in occasione degli auguri al corpo diplomatico chiuse l’evento sottolineando che “guardando al termine del mio mandato, vi ho accolto oggi al Quirinale ancora una volta”. E tre giorni dopo, il 17 dicembre con il premier Mario Monti da poco dimissionario, aggiunse davanti alle alte cariche dello Stato che “la non rielezione al termine del settennato è l’alternativa che meglio si conforma al modello costituzionale di Presidente della Repubblica. È con questa convinzione che mi accomiato da voi”. Poi, come sappiamo, nel caos, venne rieletto. Anche per il Presidente in carica, infatti, la regola del Quirinale prescrive l’ormai ben noto voglioso distacco. Vale per tutti. Al punto che oggi il non candidato e riluttante Sergio Mattarella è forse in realtà uno dei supercandidati più probabili.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
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La regola prescrive una specie di voglioso distacco. A dimostrazione che il Quirinale non è per chi lo desideri, ma è una gloria terminale che corrisponde alla più smaniosa scaramanzia del comando. Anche Mario Draghi ricorre infatti alla metafora, che simpaticamente allude: “Sono un nonno a servizio delle istituzioni”. Ci si propone, dunque, ma anche no.
La lunga corsa verso la presidenza della Repubblica, d’altra parte, sempre mortifica i candidati troppo desiderosi, superbi e sicuri di sé. Successe due volte a Fanfani, cui scrissero nelle schede: “Maledetto nanetto non sarai mai eletto”. E successe a Spadolini, poi a Forlani e persino ad Andreotti. Così le ambizioni sono costrette a muoversi nell’ombra. E fatta eccezione per Silvio Berlusconi, primo nella storia italiana a candidarsi alla presidenza della Repubblica senza far alcun mistero dei propri desideri, per tutti gli altri la prassi vuole al contrario che ci si candidi e ci si accrediti al di fuori d’ogni rapporto con l’opinione pubblica.