L’Oms deve essere meno dipendente dalle donazioni dei Paesi, meno impegnata in diplomazia ma più nella gestione delle emergenze
Quando il 28 gennaio, pochi giorni dopo il lockdown totale dell’area di Wuhan, epicentro dell’epidemia, il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, è volato a Pechino per incontrare il Presidente cinese Xi Jinping, qualcuno ha iniziato a sospettare che la passerella fosse più politica che una questione tecnico-scientifica. Di quello che la comunità internazionale chiamava ancora “nuovo coronavirus” la Cina sapeva già molto, ma non stava condividendo abbastanza con l’unica istituzione che avrebbe dovuto, in modo del tutto super partes, gestire tecnicamente la pandemia. Quando Tedros vola a Pechino già da una settimana il dottor Zhong Nanshan, uno dei più famosi scienziati cinesi, tra i massimi esperti di Sars e uno dei primi ad arrivare a Wuhan a gennaio, aveva confermato i sospetti di tutti, e cioè che il nuovo coronavirus si comportasse come un virus influenzale, e quindi si poteva trasmettere da uomo a uomo. Nonostante questo, e nonostante i casi di polmonite atipica si stessero diffondendo un po’ ovunque nel mondo, subito prima della partenza di Tedros per la Cina, l’Oms decise di non dichiarare l’emergenza di Wuhan “di preoccupazione internazionale”.
L’istituto delle Nazioni Unite con sede a Ginevra fu costretto a cambiare rotta il 30 gennaio, ma nel frattempo le dichiarazioni del direttore generale erano tutte di plauso e congratulazioni nei confronti di Pechino per la sua “strabiliante capacità” di contenimento del virus.
A distanza di oltre un anno, sappiamo quasi tutto di quello che è successo. L’Oms ha sbagliato molte delle sue decisioni. Secondo vari esperti e diverse fonti, le istituzioni dell’Onu, anche quelle più importanti, hanno perso da tempo la capacità di gestire situazioni molto complesse perché sono “troppo impegnate a sopravvivere”: da un lato il taglio dei fondi, la burocratizzazione, e poi la politica.
La missione a Wuhan
In una delle inchieste più dettagliate sul ruolo dell’Organizzazione mondiale della sanità nel contrastare la pandemia, pubblicata nel novembre scorso, il New York Times spiega che il viaggio a Pechino del direttore generale Tedros sarebbe dovuto servire per lasciare un team di esperti internazionali dell’Oms a investigare in Cina, a Wuhan, le origini del virus. Il Presidente Xi accetta una “missione congiunta” Cina-Oms, che viaggia per nove giorni a metà febbraio 2020 in alcune città del Paese – ma i luoghi chiave, come il mercato di Wuhan, restano chiusi all’ispezione. Nel report finale del team, si parla ancora di “asintomatici non contagiosi” e si esalta la risposta cinese, definita “la più ambiziosa, agile e aggressiva della storia”. A fine dicembre, dopo mesi di richieste e di lobby, la Cina ha finalmente autorizzato la missione di un team dell’Oms per investigare sull’origine della pandemia. L’indagine ha avuto inizio il 14 gennaio a Wuhan. Secondo alcuni analisti si tratterebbe finalmente di una concessione, da parte della Cina, alla comunità internazionale: capire perché e quando il virus è saltato dall’animale all’uomo.
Ma molti hanno criticato i ritardi di autorizzazione, ai quali l’Oms ha risposto sempre giustificando le decisioni di Pechino. Il problema è, ancora una volta, la politica: l’etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus, che dal 2005 al 2012 è stato ministro della Salute di Addis Abeba, poi ministro degli Esteri, è un epidemiologo che si è trasformato in diplomatico, scrive il New York Times. “I suoi sostenitori dicono che la diplomazia soft è necessaria per chiunque diriga l’Oms, un’agenzia sotto-finanziata che fa affidamento sulle donazioni per circa l’80% del suo budget”. Per continuare ad avere soldi, l’Oms ha bisogno di essere amichevole con tutti, soprattutto con i suoi principali donatori. Non solo: nel 2017, quando Tedros è stato votato direttore generale, l’Oms veniva fuori dalla disastrosa gestione dell’epidemia di ebola dell’Africa occidentale tra il 2014 e il 2016, che portò alla più grande epidemia del virus (e oltre undicimila decessi). Secondo le indagini successive, l’Oms ebbe in quel caso la grande responsabilità di aver minimizzato i focolai, soprattutto nei primi mesi, e di aver eccessivamente burocratizzato l’intervento di aiuti esterni, come quello offerto dall’allora presidente americano Barack Obama.
Tre anni fa Tedros è stato eletto alla guida dell’Oms grazie al supporto della cordata cinese contro il candidato filoamericano, l’inglese David Nabarro. L’influenza della Cina di Xi Jinping – novella paladina del multilateralismo– nelle organizzazioni internazionali era il segreto di Pulcinella fino a qualche tempo fa: tutti sapevano che Pechino aveva una strategia, quella di riempire i buchi lasciati dall’assenza americana, soprattutto per quanto riguarda le donazioni e i budget, ed espandere la sua influenza nelle istituzioni sovranazionali. Del resto, tra le agenzie dell’Onu più strategiche, specialmente per guadagnare influenza nei Paesi in via di sviluppo, ci sono quelle che distribuiscono beni alimentari e vaccini: la Fao, già a guida cinese, e l’Oms.
Le critiche di Trump
Quando il Presidente americano Donald Trump ha iniziato la sua battaglia ideologica contro la Cina – dopo un periodo iniziale di fascinazione, lo sappiamo dai resoconti dei suoi ex fedelissimi – la prima cosa che ha annunciato è stato il taglio dei fondi all’Organizzazione mondiale della sanità. Poi ha notificato all’istituzione di Ginevra la volontà di andarsene completamente dal gruppo: l’uscita dovrebbe essere formalizzata il 6 luglio del 2021. Nella loro scompostezza (per fare un esempio, l’ossessione linguistica sul “China Virus”), le dichiarazioni di Trump sull’Oms hanno contribuito a rendere pubblici dei problemi reali, di cui fino a prima della pandemia di Covid si parlava fin troppo poco: da un lato, la strategia cinese di offrire fondi a chi non ne ha a sufficienza, specialmente nelle istituzioni internazionali; dall’altro lato, la natura stessa dell’Oms che impedisce ai suoi dirigenti di pretendere, ai sensi di legge, delle informazioni fondamentali da parte dei paesi membri, e quindi di avere un ruolo efficace ed effettivo al di là dei singoli Governi dei Paesi membri.
Quello che sappiamo degli ultimi dodici mesi di attività dell’istituzione sanitaria dell’Onu è un costante rincorrere le scoperte dei singoli Paesi, spesso contraddicendo sé stessa. Il ruolo fondamentale dell’Oms, poi, avrebbe dovuto essere quello della distribuzione dei vaccini: nessuna pandemia può essere sconfitta senza un vaccino “bene comune”, distribuito equamente da una organizzazione super partes che dirige il traffico. L’Oms ha lanciato il Covax, un’iniziativa globale per la distribuzione del vaccino contro il Covid che dovrebbe contribuire a raggiungere l’immunità di gregge nei 190 paesi che hanno aderito. Ma un’iniziativa simile, con il budget dell’Oms, sarebbe stata impensabile: e infatti è stata mobilitata la Gavi, l’Alleanza per il vaccino, che vede tra le decine di donatori la Cina, gli Stati Uniti, la Commissione europea, TikTok, Ups, la Bill & Melinda Gates Foundation, la Russia.
Cosa farà Biden?
L’insediamento del democratico Joe Biden alla Casa Bianca potrebbe cambiare ancora una volta la postura americana sui tavoli internazionali. Il nuovo Presidente americano non ha intenzione di andare alla guerra diplomatica con Pechino, ma sa che usare gli stessi toni dell’amministrazione Trump vorrebbe dire continuare ad allontanare la Cina. Biden, sin dall’inizio della campagna elettorale, ha preso molto sul serio il Covid, e ha già messo in piedi un autorevole team sanitario. Vuole far tornare l’America a contare, soprattutto dopo quattro anni di America First: significa che quasi certamente revocherà l’uscita degli Stati Uniti dall’Oms e proporrà una riforma interna, per rendere l’istituzione meno dipendente dalle donazioni dei singoli Paesi. Una battaglia che, visto com’è andata con la pandemia, potrebbe non essere soltanto americana.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/febbraio di eastwest.
L’Oms deve essere meno dipendente dalle donazioni dei Paesi, meno impegnata in diplomazia ma più nella gestione delle emergenze
Quando il 28 gennaio, pochi giorni dopo il lockdown totale dell’area di Wuhan, epicentro dell’epidemia, il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, è volato a Pechino per incontrare il Presidente cinese Xi Jinping, qualcuno ha iniziato a sospettare che la passerella fosse più politica che una questione tecnico-scientifica. Di quello che la comunità internazionale chiamava ancora “nuovo coronavirus” la Cina sapeva già molto, ma non stava condividendo abbastanza con l’unica istituzione che avrebbe dovuto, in modo del tutto super partes, gestire tecnicamente la pandemia. Quando Tedros vola a Pechino già da una settimana il dottor Zhong Nanshan, uno dei più famosi scienziati cinesi, tra i massimi esperti di Sars e uno dei primi ad arrivare a Wuhan a gennaio, aveva confermato i sospetti di tutti, e cioè che il nuovo coronavirus si comportasse come un virus influenzale, e quindi si poteva trasmettere da uomo a uomo. Nonostante questo, e nonostante i casi di polmonite atipica si stessero diffondendo un po’ ovunque nel mondo, subito prima della partenza di Tedros per la Cina, l’Oms decise di non dichiarare l’emergenza di Wuhan “di preoccupazione internazionale”.
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