Oggi più che mai l’isola caraibica lotta per la sopravvivenza e la causa principale è l’embargo statunitense. Ma perché i fratelli Castro non sono riusciti a garantirle un minimo di autosufficienza?
All’indomani delle clamorose proteste a Cuba, che hanno ridestato un’eccezionale attenzione in tutto il mondo con i più svariati commenti, risulta evidente quanto l’isola caraibica abbia fatto la storia, e come al contempo sia forse prossimo il suo capolinea per la situazione insostenibile che vive.
La Perla de las Antillas è alla fame. Già nel 1989 perse il sostegno strategico dell’Urss, resistendo comunque nelle Americhe per altri trent’anni; a conferma che si era trattato di una rivoluzione popolare vera. Poi ha dovuto fare a meno anche della collaborazione del Venezuela di Hugo Chávez; senza che si profili oggi all’orizzonte un’altra ancora di salvezza. Mancano beni di prima necessità, cibo e medicine, benzina ed energia elettrica sono razionate, mentre le uniche fonti d’entrata di moneta estera per poter importare generi di base sono pressoché azzerate: turismo internazionale, rimesse familiari, brigate mediche internazionali; oltre alla flessione delle esportazioni di zucchero e sigari. Per arrivare al colpo fatale del contagio del Covid-19, sotto controllo fino a qualche mese fa ed ora inarginabile, pur con il vaccino autoctono che non può essere diffuso con la prontezza dovuta per limiti di produzione e la “banale” mancanza di siringhe.
Il peso dell’embargo Usa
Detto questo, la principale causa per cui Cuba lotta oggi più che mai per la sopravvivenza resta comunque il pluridecennale embargo statunitense che si è fatto sempre più asfissiante e che in simili termini non ha precedenti nella storia moderna. Tanto che negli ultimi 29 anni è stato condannato dall’assemblea dell’Onu con la sola opposizione di Usa e Israele. Compreso il recentissimo voto del 13 giugno scorso, ignorato dalla stampa che per anni ha sostanzialmente sorvolato su questa guerra non dichiarata che ha condannato fin dal principio la Revolución a uno stato di emergenza. Ma con quale diritto (oltreché autorità morale) gli Stati Uniti possono imporre una tale coercizione verso un’altra nazione che non costituisce pericolo alcuno?
Certo viene altrettanto da chiedersi come i fratelli Castro in 62 anni non siano riusciti a garantire un minimo di autosufficienza in questo Paese pur privo di materie prime e a vocazione prevalentemente rurale; anzi abbiano peccato di immobilismo (salvo per le infrastrutture turistiche). Di certo hanno pagato le inefficienze intrinseche al socialismo statale, per di più tropicale, in quanto a produzione e produttività. Così come la lentezza nell’attuazione delle stesse recenti timide quanto obbligate riforme (moneta unica, iniziativa privata…) promosse dal nuovo Presidente Miguel Diaz Canel per riportare la sussidiata economia cubana alla realtà.
Bisogna però anche qui rimontare ad alcune ragioni strutturali che precedono la caduta del dittatore Batista. A Cuba, ultimo Paese a emanciparsi dalla colonia spagnola e caduto immediatamente nella sfera esclusiva del “gigante del nord”, non ci sono praticamente mai stati agricoltori, bensì peones impiegati nelle piantagioni di canna da zucchero e di tabacco gestite da oligarchi locali se non direttamente da multinazionali Usa. Per il resto, nella piscina di casa degli States, Cuba non era considerata altro che la casa da gioco e il bordello, dependance di Miami.
Radica del resto proprio qui l’essenza del draconiano embargo rinnovato da ben 12 Presidenti Usa come reazione alla perdita di un dominio diretto emancipatosi in quanto a sovranità nazionale a sole 90 miglia dalle proprie coste. Anche se poi lo stesso boicottaggio si è convertito nel “pretesto” principale dell’abile Fidel Castro per assicurare (ancora oggi) l’immodificabilità e il perdurare della Rivoluzione cubana.
Solo l’11° inquilino della Casa Bianca, Barack Obama, aveva tentato la svolta proprio per quello che definì il “fallimento” delle politiche fin lì seguite. E nel 2016, per la prima volta, decise di astenersi all’Onu nella votazione contro l’embargo, ristabilire le relazioni diplomatiche e recarsi personalmente a L’Avana. Con Papa Francesco a fare da mediatore verso Raul Castro, che a sua volta intraprese alcune aperture verso una privatizzazione dell’economia. Obama non ebbe però mai la maggioranza al Congresso per derogare il boicottaggio.
Paradossalmente lo stratega di quella sterzata, peraltro assai insidiosa per l’effetto “contaminante” che avrebbe potuto avere su un’isola blindata, fu il suo vice Joe Biden, il politico democratico che forse meglio conosce il sub continente latinoamericano. Il quale da candidato presidenziale si era impegnato come priorità a riprendere quel percorso, drasticamente invertito da Donald Trump. Ma una volta insediato, Biden si è limitato a disinserire Cuba dalla lista dei paesi terroristi. È che anche il neopresidente Usa sperimenta lo stesso ricatto (soprattutto da parte dei cubano-americani della diaspora nella Florida) che aveva subito Obama, preoccupato com’è per le elezioni di midterm dove potrebbe perdere la già esilissima maggioranza al Senato.
Al contrario, ha disposto nuove sanzioni ad personam nei confronti di coloro che si sarebbero resi “responsabili di violazioni dei diritti umani” durante le recenti manifestazioni di piazza represse nell’isola. Mentre ha solo ventilato la possibilità di un ripristino delle rimesse familiari. Egli stesso sarebbe dunque tentato di lasciar fare, visto che la debacle del governo rivoluzionario potrebbe essere imminente.
Ma è proprio qui il dilemma di quello che sarà l’epilogo di questa fase storica di Cuba: avvio di una transizione pacifica, o agonia e rischio di un bagno di sangue?
Le condizioni interne
Sul piano interno, se per i malcontenti altrettanto sorprendenti sfociati nel maleconazo del ’94 (anche allora per le gravi penurie del periodo especial) la maggior parte della popolazione era ancora nata prima della rivoluzione, oggi le giovani generazioni sono maggioranza; e, come si è visto, fino all’11 luglio scorso hanno goduto pure del libero impiego moltiplicatore (pur piuttosto caro) dei social. Per di più in un contesto orfano del carisma dei fratelli Castro e con la classe dirigente attuale anch’essa partorita dopo il ‘59.
Come se non bastasse, se fino a cavallo del nuovo millennio l’uguaglianza per i cittadini cubani in quanto a generi di prima necessità e sul piano dei diritti sociali (salute, istruzione e una sana vecchiaia) era stata a tutti garantita, con l’avvento del “mercato” del turismo e delle rimesse familiari è spuntata una sorta di classe privilegiata di coloro i cui introiti erano in moneta estera rispetto a chi continuava a sussistere in pesos cubani.
Conseguentemente nelle precarie condizioni attuali anche il controllo sociale, da sempre assai rigido (pure nei confronti dei dissidenti interni non filo-Usa) non poteva che diventare più soffocante; in particolare verso le insofferenze della gioventù, che potevano essere gestite assai meno peggio, specialmente in quanto a politiche culturali. A ciò si aggiunga la chiusura migratoria, concordata ma anche qui pretesa innanzitutto dagli Usa; che in alcuni momenti nel passato aveva costituito una valvola di sfogo per il regime (vedi l’esodo del Marielito dell’81 e i balseros dei decenni successivi).
Dunque il consenso interno, pur difficilmente misurabile, col tempo non può che essersi assottigliato. E se al momento gli ultimi episodi non si sono rivelati certo peggiori rispetto alla repressione recente in vari paesi latinoamericani, la situazione potrebbe precipitare. Tanto più per le altrettanto affollate contro-manifestazioni convocate dal Governo che hanno mostrato una società cubana spaccata in due, col rischio di un traumatico scontro fisico.
Di qui l’imperativa necessità di un negoziato fra Washington e L’Avana che porti alla revoca dell’embargo e al contempo a sostanziali mutamenti economici e politici da parte della dirigenza cubana; pur senza abdicare alla sovranità. Del resto nulla è per sempre. L’alternativa potrebbe essere un’implosione violenta, con i cubani risucchiati e normalizzati nella voragine della miseria e della disperazione in cui si dibatte da sempre il resto della stragrande maggioranza dei latinoamericani.
Dunque, come auspicò lo stesso anticomunista Papa Wojtyla nella sua visita del gennaio ’98: “che Cuba si apra al mondo e il mondo si apra a Cuba”.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di settembre/ottobre di eastwest.
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Oggi più che mai l’isola caraibica lotta per la sopravvivenza e la causa principale è l’embargo statunitense. Ma perché i fratelli Castro non sono riusciti a garantirle un minimo di autosufficienza?