I venti di guerra lo rafforzano ma la vera emergenza sono le bollette, la crescita, l’inflazione e il Pnrr. Riuscirà Mario Draghi a essere il vero successore di Angela Merkel in Europa e nel mondo?
Ora che la guerra di Putin portata fino alle porte di Kiev chiede un’Europa con leader uniti, stabili e affidabili, per Mario Draghi la partita si fa davvero complicata. Un conto è infatti vincere la guerra alla pandemia, mandare a casa Arcuri e nominare il generale Figliuolo come plenipotenziario della campagna vaccinale. Altro è mediare con gli altri capi di Stato e di Governo europei mantenendo la barra dritta sugli interessi nazionali, che poi significa sostanzialmente mettere in sicurezza i nostri contratti energetici con Mosca o trovare fonti di approvvigionamento alternative quali Algeria e Azerbaijan.
È pur vero che nell’ora più buia dell’attacco all’Ucraina, la mattina del 24 febbraio, Mario Draghi, anche grazie al tutoraggio del Presidente Mattarella, è uscito con dichiarazioni risolute che hanno fatto quasi dimenticare l’assordante silenzio dei giorni precedenti e i vari inciampi su una visita annunciata ma non ancora confermata a Mosca per mediare con Putin, annuncio che avrebbe irritato notevolmente l’amministrazione Usa, non avendo finora Draghi, in un anno al Governo, compiuto alcun viaggio a Washington.
Ma a ben guardare, già prima della crisi ucraina, qualcosa si era fatalmente rotto nell’incantesimo del banchiere centrale che dopo aver salvato l’Euro avrebbe salvato l’Italia piegata dalla pandemia e dalla crisi rimettendola in carreggiata per affrontare le sfide del futuro. Difficile stabilire esattamente quando la magia si è spenta, quando i poteri di SuperMario non hanno più colto nel segno. Nelle cancellerie e nell’opinione pubblica Draghi è tornato ad essere – come già fu Mario Monti nel 2011 – quel tecnico competente e apprezzato che è sempre stato. Nulla di più.
Vero spartiacque tra il SuperMario della prima ora e Draghi 2, la conferenza stampa del 22 dicembre, in una location insolita fuori dai palazzi del potere, che doveva segnare una discontinuità con i suoi predecessori. Ai giornalisti che gli chiedevano se intendesse o meno partecipare alla corsa per il Quirinale, il premier rispose con una battuta che lasciò trasparire tutta la disponibilità per l’alto incarico. Liquidò il lavoro del Governo come già quasi completato e si definì “un nonno al servizio delle istituzioni”. Fu la conferma che al Colle l’ex governatore della Bce ci puntava davvero.
In quell’occasione Draghi mostrò tutta la sua incapacità nell’intercettare i veri “animal spirit” della politica italiana (cosa che invece sa destreggiare con abilità il Presidente della Repubblica). Ma fece di peggio: nel primo giorno di consultazioni convocò il leader della Lega Matteo Salvini (che nelle settimane precedenti aveva quasi ridicolizzato nei duelli sul Green Pass e i vaccini) e gli altri segretari di maggioranza per sondare la loro disponibilità a votarlo.
Quelle vicende segnarono la fine di SuperMario. Il passaggio tra il prima e il dopo del suo mandato di unità nazionale. Un prima, fatto di decisionismo e mediazione tattica, con lo sguardo fisso al Colle e la prospettiva di guidare il Paese per sette anni. Un dopo, da decifrare tra partiti ingovernabili guidati da comitati elettorali e capibastone ma da lasciar cuocere nel loro brodo. E obiettivi non semplici da raggiungere, una scadenza certa nel 2023, campagna elettorale permettendo. Mantenere saldamente i risultati della crescita del Pil e difendere il Pnrr dai ritardi della burocrazia italiana e dalle diffidenze di Bruxelles. Insomma uno scenario molto diverso rispetto a quando Draghi disse sì a Mattarella per quella che sembrava una missione impossibile: unire forze politiche diverse tra loro per utilizzare gli oltre 200 miliardi assegnati all’Italia dal Next Generation EU, il più grande piano di aiuti economici che l’Europa abbia mai concesso.
La cosiddetta “accountability” ossia quel principio di responsabilità di cui sono tradizionalmente forniti i banchieri centrali, che nella prima fase del Governo poteva apparire un elemento necessario per agevolare il funzionamento della macchina statale, alla fine del 2021 e ancora di più nella vicenda del Quirinale e subito dopo ha mostrato tutti i suoi limiti. Il compromesso con i partiti e con le diverse anime presenti in ciascun partito è oggi un passaggio obbligato che Draghi vive come una costrizione che rallenta l’azione del Governo e ne limita l’efficacia.
Un esempio tra i tanti: Draghi ha abbandonato il vertice Ue-Unione africana del 17 febbraio a Bruxelles, alla prima sessione plenaria, scusandosi con Macron, per rientrare a Roma e consultarsi con Mattarella sul percorso da intraprendere per non entrare in rotta di collisione con quei partiti che in Consiglio dei Ministri gli approvano i provvedimenti e in Parlamento li stravolgono. Mattarella lo ha rassicurato e consigliato di andare avanti con l’unico obiettivo di difendere il Pnrr, ridurre le bollette e salvaguardare il Pil.
Anche in politica estera, a cominciare dalla crisi ucraina e dal dibattito sulle sanzioni, si è avuto un Draghi defilato pronto a delegare quasi tutta la visibilità internazionale al Ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Significativo al riguardo l’editoriale del Wall Street Journal, secondo il quale l’atteggiamento di Draghi che ha chiesto di escludere dalle sanzioni il settore energetico sarebbe “una resa preventiva ed è esattamente il motivo per cui Putin immagina che il prezzo di un’invasione sarebbe inferiore a quanto annunciato”. Draghi, si legge nell’editoriale, “non vuole che la sua eredità come Primo Ministro di unità nazionale sia offuscata da una crisi energetica ma consentire l’imperialismo di Mosca sarebbe una macchia ancora più grande”. Insomma anche i giornali stranieri che lo avevano osannato nella prima fase stanno cominciando a guardare Draghi con un occhio meno benevolo.
Le energie del capo del Governo si concentrano ora tutte sulla guerra mentre la pandemia viene delegata a Speranza. Dalla fine di marzo 2022, poi, niente più Green Pass e obblighi vaccinali. Una sorta di “liberi tutti”. Eppure Draghi aveva fatto veramente Draghi nelle seconde e terze ondate del Covid l’anno passato. Aveva smantellato ciò che c’era prima. A Bruxelles aveva chiesto alle case farmaceutiche vaccini per tutti. Il Super Green Pass ha consentito di raggiungere livelli record di vaccinazioni. Erano anche i mesi in cui il premier calcava con forza la scena internazionale, con il Global Health Summit e un G20 di successo organizzato a Roma in pieno Covid. C’è chi dice che le monetine che i leader del mondo lanciarono nella fontana di Trevi serrano il segnale che individuava in Draghi il vero successore della Merkel in Europa e nel mondo.
Ma poi arrivò la politica e i partiti con quelle logiche inspiegabili per un “civil servant” educato alla chiarezza dei rapporti in stile anglosassone. È ancora presto per trarre vaticini affidabili dai comportamenti del premier italiano. Bisognerà vedere tra qualche mese se i due anni al Governo valgono più degli otto a Francoforte. Se tutti i partiti della maggioranza possono essere paragonati a Jens Weidmann, il governatore della Bundesbank. Serve infatti un tempo sufficiente per capire se l’agenda di Draghi 2-Mattarella saprà imporsi sui partiti così come a suo tempo si impose sul banchiere centrale tedesco.
“Io la vedo in maniera relativamente chiara; – ha detto Draghi recentemente – il dovere del Governo è proseguire e affrontare sfide importanti per gli italiani che sono quella immediata del caro energia, quella meno immediata ma preoccupante che è l’inflazione che sta aggredendo il potere acquisto dei lavoratori ed erodendo, anche se per ora non si vede, la competitività delle imprese. C’è poi l’uscita dalla pandemia e il Pnrr, che sta andando molto bene”.
Draghi ha escluso crisi e rimpasti fino alle elezioni. E a chi lo vorrebbe in campo anche dopo il termine della legislatura nel 2023, il premier respinge l’ipotesi di diventare federatore di un centro politico. “Ho visto che tanti politici mi candidano a tanti posti in giro per il mondo, mostrando grande sollecitudine, ma vorrei rassicurarli che, se decidessi di lavorare, un lavoro lo trovo da solo”. E, dette con quel mezzo sorriso che somiglia a un ghigno, sono parole che hanno quasi il suono di una velata minaccia.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di marzo/aprile di eastwest.
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È pur vero che nell’ora più buia dell’attacco all’Ucraina, la mattina del 24 febbraio, Mario Draghi, anche grazie al tutoraggio del Presidente Mattarella, è uscito con dichiarazioni risolute che hanno fatto quasi dimenticare l’assordante silenzio dei giorni precedenti e i vari inciampi su una visita annunciata ma non ancora confermata a Mosca per mediare con Putin, annuncio che avrebbe irritato notevolmente l’amministrazione Usa, non avendo finora Draghi, in un anno al Governo, compiuto alcun viaggio a Washington.