Il tramonto, facilitato dalla crescita dei regimi totalitari, della logica multilaterale e del commercio internazionale aumenta il rischio che le tensioni globali, non più governate a livello geopolitico, sfocino in scontri tra blocchi militari
In un recente articolo su Domani, Alessandro Penati ha indicato due “fallimenti del mercato che segneranno il nostro futuro”: la tutela dell’ambiente e i rischi geopolitici. Se già Sir Nicholas Stern, nel rapporto del 2007 sui costi dell’inazione rispetto al cambiamento climatico, scriveva che tale fenomeno rappresenta “il più grande fallimento del mercato nella storia dell’umanità”, scrive Penati a proposito del secondo: “L’uso dei rapporti economici come arma di guerra si è dimostrato un rischio mortale per il principio del vantaggio comparato”, cioè del principio posto alla base della convenienza reciproca e collettiva del commercio internazionale.
Cosa è accaduto nel 2022…
In effetti, gli eventi che hanno caratterizzato l’anno che si è appena concluso sembrano confermare che per un certo numero di potenze, regionali o globali, i rischi di perdite economiche legati a comportamenti conflittuali non siano stati sufficienti ad impedire l’apertura di fronti militari contro altri Stati, come nel caso dell’invasione russa dell’Ucraina, o di fronti interni, come la repressione in Iran. Ma lo stesso si potrebbe dire, ovviamente su scala diversa, delle tensioni tra Cina e Stati Uniti sulla questione di Taiwan, o tra Stati Uniti e Unione Europea sulle conseguenze commerciali per le imprese europee dell’Inflation Reduction Act, o quelle prevedibili tra Unione Europea e paesi terzi a seguito dell’accordo sull’European Carbon Border Adjustment, che alcuni vedono come un atto puramente protezionistico, mentre altri lo giudicano come un modo per riequilibrare una concorrenza sleale da parte dei paesi che usano tecnologie ad alta intensità di emissioni per produrre beni che poi esportano nel Vecchio continente.
…e cosa non dovrebbe stupirci
Eastwest ha seguito attentamente questi fenomeni e i tanti altri eventi che hanno caratterizzato gli ultimi anni, vissuti in modo altalenante tra le speranze di positivi sviluppi della cooperazione internazionale, talvolta a seguito di drammi planetari come la pandemia da COVID-19 o la crisi climatica, e le paure derivanti dai tanti conflitti che caratterizzano il mondo. E ha sottolineato, giustamente, la scarsa capacità del multilateralismo di risolvere le dispute bilaterali o i grandi problemi planetari, a partire proprio dalla crisi climatica. Ed è qui dove l’osservazione di Penati assume una certa rilevanza, perché se le forze che spingono verso i conflitti appaiono relativamente insensibili, almeno nel breve periodo, alle perdite economiche derivanti dai loro comportamenti, allora non dobbiamo stupirci che il multilateralismo, che ha fatto della definizione delle regole del commercio internazionale uno dei suoi più grandi successi, stimolando e rendendo possibile l’ultima ondata del fenomeno che chiamiamo “globalizzazione”, sembri diventato uno strumento incapace di governare le tensioni. Così come non dovremmo stupirci del fatto che l’Unione Europea, la quale ha costruito il proprio impianto giuridico-sociale-economico attraverso un’integrazione dei sistemi nazionali basata sui vantaggi economici comparati, e che ha, in forma analoga, definito i rapporti nei confronti del resto del mondo sulla base della forza commerciale e non di quella militare, appaia in maggiore difficoltà nel nuovo quadro geopolitico proprio a causa dell’impossibilità di far pesare la sua potenza economica per condurre la Russia a un tavolo negoziale.
La crisi climatica
E analoghe considerazioni valgono per la crisi climatica. Le enormi difficoltà della cooperazione internazionale sul tema, che pure aveva raggiunto il suo culmine nel 2015, con la sottoscrizione dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile (settembre) e con gli Accordi di Parigi (dicembre), sono apparse evidenti nei summit del G20 di Bali e della Cop27 di Sharm-el-Sheikh, nonostante l’accordo sulla creazione del fondo per l’adattamento al cambiamento climatico a favore dei paesi più colpiti da quest’ultimo, cioè dei paesi in via di sviluppo. Il sostanziale disimpegno di Russia e Cina ha reso impossibile qualsiasi avanzamento delle negoziazioni sui tanti dossier urgenti che riguardano la riduzione dell’uso dei combustibili fossili e delle emissioni di gas climalteranti, l’impegno per il trasferimento di tecnologie green, il cambiamento dei modelli di produzione, ecc. Anche in questo caso, i costi economici, sociali e umani di comportamenti “sbagliati” non sembrano essere presi in considerazione nelle decisioni politiche, e la carenza di chiare strategie di trasformazione dei sistemi economici, sia nei paesi avanzati che in quelli emergenti e in via di sviluppo, alimenta evidenti distorsioni nel funzionamento dei mercati, riducendo gli incentivi per il settore privato ad adottare tecnologie meno inquinanti.
La bassa considerazione delle conseguenze economiche di comportamenti conflittuali e non cooperativi si manifesta in modo particolarmente evidente nei paesi governati da autocrati, il cui numero tende ad aumentare nel tempo, come documentato dal Rapporto 2022 sullo stato della democrazia dell’International Institute for Democracy and Electoral Assistance (IDEA), secondo il quale il numero di paesi governati da democrazie si è ridotto significativamente, mentre tra quelli non democratici il 50% è divenuto più repressivo. Inoltre, negli ultimi sei anni il numero di paesi che si sono spostati verso regimi autoritari è pari al doppio di quelli che si sono mossi verso sistemi democratici, cosicché alla fine del 2021 circa la metà dei 173 paesi valutati hanno sperimentato riduzioni di almeno una delle dimensioni che vengono considerate come base di un sistema democratico.
Il multilateralismo
Se, dunque, esiste una qualche relazione tra stato delle democrazie, relativa insensibilità delle autocrazie ai costi di comportamenti conflittuali (che tipicamente ricadono su popolazioni sempre più represse), inefficacia degli strumenti di mercato – economico e politico – sviluppati grazie al multilateralismo, non dovremmo stupirci della crisi di quest’ultimo. Il che, ovviamente, pone i paesi G7 e OCSE, e soprattutto l’Unione Europea, in una posizione estremamente difficile, non solo sul piano politico, ma anche su quello economico. Per definizione, di fronte a fallimenti del mercato spetta allo Stato intervenire, assumendo il costo di superare il blocco del settore privato. Per ciò che concerne la lotta alla crisi climatica i costi legati a politiche di “mitigazione” (cioè alla transizione ecologica dei sistemi energetici ed economici) appaiono molto ingenti e concentrati nel prossimo decennio, così da evitare di superare quei punti di non ritorno (tipping points) oltre i quali, come indicato dagli scienziati, i fenomeni degenerativi seguono percorsi non lineari, con effetti ancora più catastrofici sull’attività umana (come gli eventi metereologici estremi). Ma non è molto diverso per le questioni geopolitiche: infatti (e qui riuso, modificandola dove necessario, la frase precedente), i costi orientati alla “mitigazione” dei rischi geopolitici (cioè al sostegno economico dei paesi verso la transizione democratica del sistema politico e alla transizione ecologica dei sistemi energetici ed economici) appaiono molto ingenti e concentrati nel prossimo decennio, così da evitare di superare quei punti di non ritorno (tipping points) oltre i quali, come indicato dagli esperti di geopolitica e questioni militari, i fenomeni degenerativi seguono percorsi non lineari, con effetti ancora più catastrofici sull’attività umana (come le guerre, anche nucleari).
Un salto di qualità
Mi sono permesso di giocare sul piano lessicale per rafforzare l’idea che crisi climatica e crisi geopolitiche sono veramente frutto di processi simili e richiedono ambedue strategie fortemente innovative e la disponibilità a sostenere i costi delle politiche di “mitigazione” dei rischi per evitare di dover fronteggiare i costi, ben più ingenti, di quelle di “adattamento” agli effetti derivanti da rischi non evitati. Si tratta di costi ingenti per lo Stato, ma non solo. Ed è qui dove forse una politica autorevole può generare una seria e forte collaborazione con il settore privato in nome di interessi comuni, e con le società nel loro complesso, cioè con le società civili attive nei vari paesi, magari attraverso una mobilitazione delle giovani generazioni, analoga a quella che si è manifestata per la questione climatica, e delle donne, analoga a quella che si sta manifestando in Iran e in altri paesi. Diverse indagini demoscopiche mostrano come la maggiore resistenza ad impegnarsi per fronteggiare la crisi climatica viene manifestata dagli uomini ultracinquantenni, cioè dalle persone che detengono gran parte delle posizioni di potere, nel settore pubblico e in quello privato. Ecco perché dobbiamo impegnarci tutti, compreso Eastwest, per dare più spazio e sostegno alle varie Grete Thunberg che, in tanti paesi del mondo, lottano per un mondo diverso, più pacifico, equo e sostenibile, e per superare lo scetticismo e il cinismo tipico di molte persone di una certa età, i quali impediscono anche alla governance globale di fare quel salto di qualità di cui abbiamo disperato bisogno.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/marzo di eastwest
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In effetti, gli eventi che hanno caratterizzato l’anno che si è appena concluso sembrano confermare che per un certo numero di potenze, regionali o globali, i rischi di perdite economiche legati a comportamenti conflittuali non siano stati sufficienti ad impedire l’apertura di fronti militari contro altri Stati, come nel caso dell’invasione russa dell’Ucraina, o di fronti interni, come la repressione in Iran. Ma lo stesso si potrebbe dire, ovviamente su scala diversa, delle tensioni tra Cina e Stati Uniti sulla questione di Taiwan, o tra Stati Uniti e Unione Europea sulle conseguenze commerciali per le imprese europee dell’Inflation Reduction Act, o quelle prevedibili tra Unione Europea e paesi terzi a seguito dell’accordo sull’European Carbon Border Adjustment, che alcuni vedono come un atto puramente protezionistico, mentre altri lo giudicano come un modo per riequilibrare una concorrenza sleale da parte dei paesi che usano tecnologie ad alta intensità di emissioni per produrre beni che poi esportano nel Vecchio continente.