Enrico Giovannini è stato Chief Statistician dell’OCSE, Presidente dell’ISTAT, Ministro del Lavoro e delle Politiche sociali nel governo Letta, Ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibile nel governo Draghi, co-fondatore e attuale direttore scientifico dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile. È il presidente del Comitato Scientifico di Eastwest
Il nuovo ciclo politico europeo: navigazione burrascosa o salto di qualità?
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Avevo concluso il mio editoriale di gennaio sulle elezioni di quest’anno in tutto il mondo con queste parole “E, visto che saremo chiamati al voto per il Parlamento europeo, auguriamoci di poter assistere a una campagna elettorale seria e ben argomentata, condotta da candidati competenti e credibili, capace di stimolare un nuovo interesse tra gli elettori e invertire la crescente tendenza all’astensione, la quale non migliora la qualità della politica né rafforza la democrazia”. Ebbene, almeno per l’Italia quell’auspicio non si è concretizzato. Non solo la campagna elettorale è stata tutta concentrata su questioni nazionali, ma anche l’astensione è aumentata, al punto tale da superare la “soglia psicologica” del 50%. Interessante è stata anche la significativa differenza delle scelte rispetto all’età, alla residenza nei piccoli e nei grandi Comuni, alla circoscrizione geografica. Inoltre, la partecipazione è stata più alta di circa 20 punti nei Comuni dove si svolgevano anche le elezioni amministrative rispetto a quella registrata dove si votava solo per le europee, il che testimonia l’esistenza di un’evidente distanza delle istituzioni europee (almeno nelle percezioni) da una parte consistente della popolazione italiana, che si manifesta nonostante la straordinaria risposta fornita dall’Unione europea al dramma della pandemia attraverso il Next Generation EU.
Ora l’attenzione dell’opinione pubblica è tutta concentrata sulle nomine e sugli equilibri politici tra le diverse forze parlamentari. Al di là del classico “balletto” politico sui nomi per i cosiddetti top jobs europei (la presidenza della Commissione, del Parlamento e del Consiglio, nonché l’Alto rappresentante per la politica estera), le elezioni non hanno provocato quello sconvolgimento che alcuni leader politici, anche nel nostro Paese, auspicavano. Certo, la situazione politica in Belgio, in Francia e in Germania desta forti preoccupazioni, anche per i futuri equilibri nel Consiglio europeo. Certo, abbiamo un Parlamento europeo più frammentato, che quindi troverà maggiori difficoltà a definire i diversi dossier. Certo, le spinte per tornare indietro su alcune politiche seguite negli ultimi cinque anni saranno più forti grazie al successo dei partiti che le hanno criticate. Ma la conferma della maggioranza basata su popolari, socialisti e liberali dovrebbe assicurare una certa continuità sull’indirizzo politico generale, anche su tematiche di grande rilievo come il Green Deal.
La domanda fondamentale da porsi è se questa continuità sarà in grado di fornire quella spinta necessaria per far fare all’Unione europea il necessario salto verso una maggiore integrazione, il che richiederebbe cambiamenti rilevanti delle regole decisionali “a Trattati esistenti”, ma anche una futura revisione dei Trattati. A novembre del 2023 il Parlamento europeo in sessione plenaria ha approvato un’importante risoluzione su questo tema, al fine di rafforzare la capacità di azione dell’Unione, nonché la legittimità democratica e l’assunzione di responsabilità a fronte delle sfide geopolitiche, economiche, sociali e ambientali attuali e future. Come evidenzia il Parlamento, l’inadeguatezza del processo decisionale attuale appare evidente specialmente in seno al Consiglio, composto oggi da 27 Stati membri ognuno dei quali, su molte materie rilevanti, ha il diritto di veto. In particolare, il Parlamento considera inevitabile una riforma a favore del voto a maggioranza anche nella prospettiva di futuri allargamenti ad altri Stati, che potrebbero complicare ulteriormente l’efficacia e la rapidità di azione dell’Unione.
Le riforme proposte riguardano importanti aspetti del funzionamento dell’Unione, quali: maggiori poteri al Parlamento europeo, che verrebbe dotato di un pieno diritto di iniziativa legislativa; estensione del ricorso al voto a maggioranza qualificata nel Consiglio e pubblicizzazione delle posizioni degli Stati membri su questioni legislative, per garantire una maggiore trasparenza; revisione della composizione della Commissione europea (rinominata “esecutivo europeo”) la cui presidenza verrebbe decisa dal Parlamento con l’approvazione del Consiglio (invertendo l’attuale modalità); possibilità che il Presidente della Commissione scelga i Commissari in base alle preferenze politiche, tenendo conto dell’equilibrio geografico e demografico; riduzione del numero dei Commissari (non più di 15) e introduzione di un criterio di rotazione nella scelta tra rappresentanti dei diversi Stati membri; creazione di meccanismi di partecipazione diretta dei cittadini e rafforzamento del ruolo dei partiti politici europei. Per quanto riguarda le competenze dell’Unione, secondo il Parlamento europeo l’Unione dovrebbe avere competenza esclusiva per l’ambiente, la biodiversità e i negoziati sui cambiamenti climatici. Andrebbe poi prevista una competenza concorrente tra l’Ue e gli Stati membri su sanità pubblica, affari esteri, sicurezza esterna e difesa, e andrebbe rafforzato il ruolo della Corte di Giustizia europea sul rispetto dello Stato di diritto e il controllo preventivo sulle norme.
Il tema è ora sul tavolo dei membri del Consiglio, anche perché a marzo di quest’anno la Commissione europea ha adottato una Comunicazione sulle riforme e sulle revisioni strategiche pre-allargamento, nella quale si specifica che, pur sostenendo la modifica dei Trattati “se e laddove necessario”, la governance dell’Ue potrebbe essere migliorata rapidamente sfruttando appieno il potenziale dei Trattati attuali, attraverso anche le cosiddette “clausole passerella” che consentono il passaggio dal voto all’unanimità al voto a maggioranza qualificata in seno al Consiglio in settori chiave.
In preparazione della riunione del Consiglio di giugno, la Presidenza belga ha indicato lo stato dell’arte del dibattito tra Stato membri sulle varie tematiche, riconoscendo che “l’Ue come la conosciamo non è stata concepita per l’ordine mondiale polarizzato e frammentato di oggi” e individuando una convergenza sulla necessità delle riforme, in particolare di quelle riguardanti: la difesa dei valori dell’Unione, anche contro comportamenti inappropriati da parte degli Stati membri; la revisione delle politiche su mercato unico, competitività, politica agricola comune, politica di coesione e politica di difesa comune; la dimensione del bilancio europeo.
Ovviamente, una revisione delle regole, e specialmente dei Trattati, per avere successo, richiede un preventivo forte miglioramento del “gradimento” dell’Unione da parte degli elettori, il che impone coraggiose azioni da subito. Anche per questo, il punto cruciale su cui si giocherà la partita politica europea dei prossimi cinque anni riguarderà il ruolo dell’Unione europea come erogatrice di fondi per la trasformazione dei sistemi economici e sociali, anche per assicurare competitività nei confronti di Cina e Stati Uniti. Infatti, l’Unione è stata disegnata per essere principalmente un’istituzione di regolazione, finalizzata ad omogeneizzare le legislazioni nazionali attraverso regolamenti e direttive, a tutelare la concorrenza all’interno del mercato unico, a definire strategie comuni a medio-lungo termine. Coerentemente con questa impostazione, il bilancio comunitario è estremamente ridotto, circa l’1% del prodotto interno lordo europeo, e molte politiche sono appannaggio dei Paesi membri, i quali hanno visto spesso come troppo invadenti le legislazioni europee su tematiche quali le politiche sociali o industriali.
Con la pandemia prima e con le successive crisi l’Unione ha assunto negli ultimi anni un ruolo diverso, sancito chiaramente dall’emissione di debito comune per finanziare il Next Generation EU. Si ripeterà nella nuova legislatura questa impostazione, magari potenziata, come auspicato recentemente anche da Mario Draghi per fronteggiare la competizione con Cina e Stati Uniti, o si tornerà alla “vecchia” impostazione? Ecco la domanda cruciale, vitale direi, che bisogna porsi. Come mostrato dall’analisi comparativa dei Manifesti delle forze politiche realizzata dall’ASviS (https://asvis.it/public/asvis2/files/Pagina_Europa/Estratto_Rapporto_Primavera_2024_Par_3-4.pdf), popolari e liberali non prevedono di andare in questa direzione, mentre socialisti e verdi la citano in maniera esplicita. Figurarsi cosa pensano del tema le forze politiche di destra che auspicano un restringimento delle competenze europee.
Insomma, il futuro dell’Unione dipenderà non solo dall’efficienza e rapidità dei processi decisionali, ma soprattutto dalla sua capacità di investire ingenti risorse per innovare a tutto campo nella direzione delle transizioni ecologica e digitale, della formazione e della ricerca, della competitività del sistema economico, oltre che del superamento delle disuguaglianze e della realizzazione del Pilastro europeo dei diritti sociali. L’Italia dovrebbe esprimersi senza esitazioni a favore di questa impostazione nelle prossime settimane e mesi, anche se una tale scelta dovesse smentire le posizioni espresse durante la campagna elettorale da alcune forze politiche della maggioranza. Molti esponenti del Governo, con riferimento al Green Deal, invocano pragmatismo e difesa dell’interesse nazionale. Ebbene, sono proprio questi gli argomenti che dovrebbero spingere l’Italia ad andare nella direzione indicata, perché solo così l’Europa farà il salto di qualità da cui dipende anche il futuro dell’Italia.
Mezzo mondo va al voto nel 2024: ma come e per fare cosa?
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Il 2024 vedrà più della metà della popolazione mondiale, oltre 4 miliardi di persone, esprimere i propri orientamenti politici attraverso il voto. Si vota per il Parlamento europeo e per il rinnovo di alcuni parlamenti europei, si vota in India, Russia, Stati Uniti, Messico, Indonesia, Regno Unito, solo per parlare degli Stati membri del G20. Dovremmo quindi celebrare questa “storica” tornata elettorale come un grande successo di progresso nella direzione indicata dal Target 16.7 dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile approvata nel 2015 dall’Assemblea Generale dell’Onu, il quale recita “Assicurare un processo decisionale reattivo, inclusivo, partecipativo e rappresentativo a tutti i livelli”? Ovviamente si, ma con molti distinguo.
Come si legge nel Rapporto Freedom in the World 2023, pubblicato da Freedom House, il mondo nel suo complesso è significativamente più libero oggi di 50 anni fa: se nel 1973, 44 Paesi su 148 erano classificati liberi, oggi se ne contano 84 su 195. Ma lo stesso Rapporto segnala che nel mondo la libertà è in progressiva riduzione da ben 17 anni. Inoltre, se nel 2022 ben 34 Paesi hanno visto aumentare la tutela dei diritti e della libertà, in 35 si è registrato un peggioramento della situazione. Particolarmente preoccupante è l’aumento della pressione esercitata dai regimi di governo nei confronti della stampa, un fenomeno che, con intensità molto diverse, riguarda oltre 150 Paesi.
Anche a causa di ciò, l’Economist ha recentemente fatto notare che su 71 paesi considerati dal Democracy index, solo in 43 si terranno elezioni pienamente libere e democratiche, tra cui i 27 Stati membri dell’Unione europea. I rimanenti 28, tra cui Bangladesh e Russia, non assicurano le condizioni minime per realizzare ciò che la comunità internazionale ritiene un diritto fondamentale degli individui. Inoltre, anche molti Paesi dove ci saranno elezioni libere appaiono abbastanza lontani da quello che intendiamo per democrazia. Sempre l’Economist stima che, sui 167 Paesi considerati dal Democracy index, solo 24 presentano una democrazia “completa” e 48 (tra cui l’Italia) una democrazia “imperfetta”, mentre 95 (cioè, il 57% del totale, tra cui alcuni Paesi che vanno al voto quest’anno) sono caratterizzati da “regimi ibridi” o “regimi autoritari”.
Può esserci vera democrazia ed elezioni veramente libere se la stampa non è tale o se l’informazione sulla cui base i cittadini dovrebbero formare le proprie opinioni e poi votare è sbagliata o volutamente distorta? Il tema è molto discusso dagli esperti della materia, specialmente con riferimento al ruolo, apparentemente crescente, della “propaganda”, la quale ovviamente è sempre esistita, ma che oggi può sfruttare nuovi strumenti, quali i social media. Il The Global Risk Report 2024 del World Economic Forum presentato a Davos nel gennaio di quest’anno, basato sulle opinioni di 11.000 manager e di esperti delle diverse materie, segnala come, tra i rischi considerati più rilevanti nei prossimi due anni, al primo posto ci sia proprio quello legato alla “disinformazione e alla cattiva informazione”, tema che, nelle prospettive a 10 anni, scende al quinto posto, preceduto dai fenomeni dovuti al cambiamento climatico e al degrado ambientale e seguito dal cattivo uso dell’Intelligenza Artificiale (IA).In particolare, il 31% degli intervistati ritiene che la gravità del problema della cattiva informazione sia massima o molto elevata, mentre solo un 8% la ritiene limitata. Rispetto alla situazione dei singoli Paesi, il Rapporto indica che in India questo problema è percepito come il rischio più grave a breve termine, mentre negli Stati Uniti esso si colloca al sesto posto della classifica dei rischi, e che forti dubbi sono stati espressi dagli intervistati su come alcuni governi (ad esempio, quello messicano) gestiscono il problema delle fake news. Si legge nel Rapporto “la proliferazione della disinformazione può essere sfruttata per rafforzare l’autoritarismo digitale e l’uso della tecnologia per il controllo dei cittadini. I governi saranno sempre di più in grado di determinare cosa è vero e consentire ad alcuni partiti politici di monopolizzare il pubblico, nonché di sopprimere le voci dissenzienti, inclusi giornalisti e oppositori. Alcuni lo hanno già fatto, imprigionando, in Bielorussia e Nicaragua, e uccidendo, in Myanmar e Iran, per discorsi online”.
Il teorema di Condorcet, normalmente considerato la base concettuale della democrazia, afferma che, nel caso in cui il voto sia espresso liberamente e le persone formino le proprie opinioni in modo indipendente e sulla base di informazioni mediamente corrette, allora la democrazia è il modo migliore per estrarre le preferenze di una società. Ma con l’uso strumentale dei social media queste ipotesi sono messe in discussione, tanto più laddove grandi fasce della popolazione non possiedono gli strumenti culturali per distinguere affermazioni vere e “verità alternative”, come le chiama Donald Trump. Se le ipotesi poste alla base del teorema non sono verificate, allora la possibilità di prendere decisioni sbagliate attraverso strumenti democratici aumenta al crescere del numero di persone coinvolte nel processo decisionale, il che porta alcuni addirittura a teorizzare la superiorità dei modelli “oligarchici” o autocratici”, in cui il numero di persone coinvolte nelle scelte è ridotto al minimo.
Proprio per quanto detto, la questione della centralizzazione dei processi decisionali riguarda tutti, anche i Paesi in cui la democrazia è formalmente esistente e le elezioni si svolgono in modo realmente libero. La crescente domanda di “decisionismo” politico si manifesta in quasi tutto il mondo, anche in Europa, alimentata dal senso di smarrimento che molti vivono di fronte alla velocità con cui taluni fenomeni si manifestano (innovazione tecnologica, crisi climatica, aumento delle disuguaglianze, ecc.). Anche l’Unione europea sta cercando di individuare soluzioni innovative sul piano delle relazioni tra le diverse istituzioni (Commissione, Parlamento e Consiglio) per diventare più efficace nella sua azione, senza però rinunciare alla dimensione democratica del processo decisionale. In questa direzione vanno alcune delle proposte votate recentemente dal Parlamento europeo per una riforma dei trattati, dal cambio di nome della Commissione (in Esecutivo) al diritto di iniziativa legislativa da attribuire al Parlamento.
Ma quali sono le questioni su cui le cittadine e i cittadini sono chiamati ad esprimersi? Ovviamente, ogni elezione ha le sue specificità nazionali, ma osservando quanto avvenuto nelle elezioni che si sono svolte recentemente e quanto sta accadendo nelle campagne elettorali in corso in alcuni Paesi emergono alcune tematiche comuni, alcune delle quali strettamente legate tra loro: il posizionamento internazionale e la visione dei rapporti economici e politici tra aree geopolitiche; la transizione ecologica; la “difesa” e la “protezione” delle persone dalle molteplici minacce derivanti dalle trasformazioni in atto; il rapporto della politica con i cosiddetti “poteri forti” (economici, ideologici, politici, ecc.); la gestione dell’immigrazione; la tutela dei diritti individuali e sociali. Sono tutte tematiche su cui le diverse destre e sinistre che esistono nei vari Paesi hanno posizioni fortemente polarizzate, talvolta volutamente rese tali dalla propaganda elettorale.
L’esito delle tante elezioni previste per il 2024 consentirà di capire meglio gli orientamenti delle opinioni pubbliche globali su queste tematiche, dalle quali dipenderà lo sviluppo futuro delle relazioni internazionali e quindi della cooperazione (o conflittualità) multilaterale, della globalizzazione (o della deglobalizzazione) e dell’organizzazione delle catene del valore, con effetti rilevanti sulla condizione delle persone (soprattutto delle classi medie e dei più deboli) e della coesione sociale. Le differenze tra destre e sinistre appaiono sorprendentemente più sfumate su questioni come la tassazione dei patrimoni, la riduzione delle disuguaglianze (cresciute enormemente in quasi tutti i Paesi), il ruolo diretto dello Stato nell’economia, che nel secolo scorso rappresentavano il terreno privilegiato di scontro sul piano ideologico e politico.
Sarà poi particolarmente interessante valutare i risultati elettorali di outsider e di “nuovi” movimenti politici, tra cui quelli normalmente definiti “populisti”, ai quali tendono a rivolgersi gli elettorati meno caratterizzati sul piano ideologico o i “disperati”, molti dei quali sono alla ricerca di facce nuove o di una radicalità difficilmente individuabile nelle forze politiche “classiche”, da più tempo presenti nell’agone politico. Nonché analizzare le piattaforme che queste ultime elaboreranno per apparire credibili nei confronti degli elettori desiderose di soluzioni e facce nuove.
Una famosa maledizione cinese dice: ti auguro di vivere in tempi interessanti. Non so chi l’abbia lanciata qualche anno fa, ma qualcuno deve averlo fatto, viste le complessità e i drammi che osserviamo nel nostro mondo. Auguriamoci che la ragionevolezza degli elettori che verranno chiamati al voto nel 2024 e la sapienza di chi risulterà eletto siano in grado di metterci al riparo da nostalgie o avventurismi analoghi a quelli che, 100 anni fa, scatenarono quelle forze distruttive di cui dovremmo sempre tenere viva la memoria. E, visto che saremo chiamati al voto per il Parlamento europeo, auguriamoci di poter assistere a una campagna elettorale seria e ben argomentata, condotta da candidati competenti e credibili, capace di stimolare un nuovo interesse tra gli elettori e invertire la crescente tendenza all’astensione, la quale non migliora la qualità della politica né rafforza la democrazia.
La nuova sfida intergenerazionale
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Dopo l’invasione russa dell’Ucraina è molto facile abbandonarsi al pessimismo sullo stato della diplomazia internazionale, specialmente di quella multilaterale. I crescenti conflitti, specialmente politici e commerciali, tra le grandi potenze testimoniano il tentativo, ormai scoperto, da parte di molti (Russia e Cina in primis) di modificare l’ordine mondiale dominato – secondo questi ultimi – dalla leadership statunitense e occidentale. I segnali di questo tentativo di modificare l’attuale situazione si notano anche nell’attivismo di attori importanti (India) e meno importanti (paesi in via di sviluppo) sul piano economico, spesso caratterizzati da un’evidente vena antioccidentale, alimentata anche dal modo “egoista” in cui essi ritengono che i paesi ricchi abbiano gestito la crisi pandemica.
In questa situazione, le Nazioni Unite e le altre organizzazioni internazionali appaiono in evidente affanno per far avanzare dossier importanti, a partire da quelli riguardanti la lotta alla crisi climatica. E non basta lo storico accordo sulla tutela degli oceani raggiunto recentemente, dopo molti anni di negoziazioni, a cambiare la sensazione che si sia ormai perso quello spirito comune che aveva condotto nel 2015 alla firma dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile e agli Accordi di Parigi. Di conseguenza, la domanda che molti si fanno è quale può essere la strada da intraprendere per rilanciare la cooperazione internazionale all’indomani dell’eventuale, e auspicata (per quanto, al momento, apparentemente molto lontana), fine delle ostilità in Ucraina.
Il 2023 e il 2024 prevedono due momenti in cui si potrà forse vedere emergere uno spirito più collaborativo o, specularmente, una chiusura netta al dialogo multilaterale, ambedue legati alla roadmap contenuta nel documento Our Common Agenda, pubblicato nel settembre 2021 dal Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres. Il primo appuntamento si svolgerà a settembre di quest’anno, in occasione dell’Assemblea Generale, e sarà dedicato a fare il punto sull’attuazione dell’Agenda 2030 e a valutare il percorso verso i 17 Sustainable Development Goals (SDGs). Sarà la prima volta che tale riunione (prevista a cadenza quadriennale) si svolgerà a livello di Capi di Stato e di Governo e anche l’Italia dovrà esprimere il proprio punto di vista sulle varie proposte avanzate, tanto più che nel 2024, quando (e questo è il secondo momento previsto dal documento di Guterres) è previsto un Summit sul futuro delle Nazioni Unite, il nostro Paese avrà la presidenza del G7.
Per ciò che concerne lo stato dell’Agenda 2030, il rapporto pubblicato dal Segretario Generale dell’Onu a settembre 2022 mostra chiaramente come il combinato disposto (direbbero i giuristi) della pandemia e della guerra in Ucraina abbia rappresentato una brusca inversione di tendenza, al ribasso, del cammino verso il raggiungimento degli SDGs. La pandemia e l’aumento dei prezzi dell’energia e delle materie prime hanno cancellato quattro anni di progresso nella riduzione della povertà globale, con un aumento di circa otto milioni di working poors, cioè di persone che, pur avendo un lavoro, sono al disotto della linea di povertà. La guerra in Ucraina ha determinato un aumento della scarsità alimentare per la fascia più povera della popolazione mondiale. La pandemia ha arrestato l’aumento della speranza di vita, mentre le morti per tubercolosi sono aumentate per la prima volta dal 2005 e nei paesi in via di sviluppo si sono arrestate le campagne vaccinali contro numerose malattie, specialmente quelle riguardanti i più piccoli. Sono in forte aumento le patologie legate a stress e la salute mentale è diminuita in tutto il mondo. La pandemia ha portato quasi 150 milioni di studenti a rinunciare a metà delle lezioni e 24 milioni probabilmente non torneranno più sui banchi di scuola.
La siccità degli ultimi anni ha colpito vaste aree del Pianeta e oltre 730 milioni di persone vivono in luoghi a forte stress idrico, il che determina migrazioni di grandi masse di persone. Negli ultimi due anni i processi di diffusione dell’energia rinnovabile sono rallentati e sono diminuiti significativamente i flussi finanziari verso i Paesi in via di sviluppo per nuovi impianti di energia rinnovabile. In molte aree del mondo è aumentata la disoccupazione e la disuguaglianza tra ricchi e poveri; si sono arrestati i progressi contro il lavoro minorile, al punto che 160 milioni di bambini svolgono attività lavorative. La qualità degli ecosistemi continua a peggiorare e la lotta alla crisi climatica registra risultati decisamente insufficienti per evitare gli scenari peggiori di aumento della temperatura e della frequenza di fenomeni meteorologici estremi.
Insomma, il quadro che verrà presentato ai leader mondiali nel prossimo settembre è decisamente drammatico e segnala come per riprendere la via dello sviluppo sostenibile siano necessarie azioni decise da parte di tutti i Paesi del mondo.
Le proposte di Guterres, il cui secondo mandato terminerà nel 2025, per il Summit del 2024 sono numerose e ambiziose, non solo nel campo della lotta alla crisi climatica e ai rischi di distruzione del capitale naturale. In primo luogo, ricorda la necessità di rinnovare il “contratto sociale” tra i Governi e i cittadini, al fine di ricostituire la fiducia nelle istituzioni democratiche, tutelare i diritti umani, primi fra tutti quello dell’uguaglianza tra uomini e donne, e sviluppare “beni comuni” e politiche orientate all’educazione, alla salute e al lavoro. Per questo, secondo Guterres, i Governi dovrebbero condurre consultazioni della società per ascoltare la visione delle persone sul futuro e le loro aspettative.
Inoltre, il Segretario generale propone di porre fine alla cosiddetta “infodemia”, cioè alla diffusione di notizie false, artatamente diffuse dai social media controllati da interessi economici e politici, per mettere al centro dei processi decisionali la scienza e dati affidabili. Per questo, propone lo sviluppo di un “codice di condotta” globale che assicuri l’integrità e l’affidabilità delle informazioni diffuse dai media, vecchi e nuovi. D’altra parte, propone di affrancarsi dal Prodotto interno lordo (PIL) come misura del benessere e di sviluppare nuove misure statistiche e delle attività delle imprese che prendano in maggiore considerazione gli aspetti sociali e ambientali, dedicando attenzione alla sostenibilità e all’uguaglianza, così da disegnare in modo più preciso le politiche per migliorare la condizione delle persone e del Pianeta.
Guterres sposa in pieno l’idea di porre al centro dell’azione degli Stati e delle società il benessere delle giovani generazioni e quello delle future generazioni, dando maggiore voce e ruolo ai giovani anche all’interno del sistema delle Nazioni Unite, ad esempio attraverso la rifondazione del “Trusteeship Council” dell’Onu, la creazione di un Laboratorio sul futuro, la sottoscrizione di una Dichiarazione universale sulle future generazioni e la nomina di uno Special Envoy, al fine di assicurare che le decisioni politiche, specialmente quelle sostenute dai bilanci pubblici, siano orientate maggiormente all’interesse delle future generazioni. In tale prospettiva, viene proposta la predisposizione di un Rapporto dell’Onu sui rischi futuri basato sul foresight strategico (in analogia a quanto recentemente fatto dall’Unione europea) e la creazione di una “Piattaforma di emergenza” per la gestione di crisi globali. Infine, ma non meno importante, Guterres propone di rafforzare il ruolo dei Paesi del G20 all’interno del sistema delle Nazioni Unite e di creare nuovi organismi per il coinvolgimento degli stakeholder su tematiche come la gestione dello Spazio e dei processi di digitalizzazione.
Ovviamente, tutto questo può essere accolto con lo scetticismo dominante di cui ho parlato all’inizio, e quindi derubricato come un libro dei sogni. Oppure, come una sfida molto impegnativa sulla quale impegnarsi a tutto campo, nella convinzione che da essa dipenda il nostro futuro. Eastwest darà il proprio contributo per approfondire le varie questioni e per capire cosa presumibilmente uscirà dai summit di quest’anno e dell’anno prossimo, con la serietà, il realismo e l’equilibrio che ne caratterizzano l’impegno, magari cercando di capire meglio come il Governo italiano si sta preparando a questi appuntamenti.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di aprile/giugno di eastwest
Non c’è pace senza commercio internazionale
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In un recente articolo su Domani, Alessandro Penati ha indicato due “fallimenti del mercato che segneranno il nostro futuro”: la tutela dell’ambiente e i rischi geopolitici. Se già Sir Nicholas Stern, nel rapporto del 2007 sui costi dell’inazione rispetto al cambiamento climatico, scriveva che tale fenomeno rappresenta “il più grande fallimento del mercato nella storia dell’umanità”, scrive Penati a proposito del secondo: “L’uso dei rapporti economici come arma di guerra si è dimostrato un rischio mortale per il principio del vantaggio comparato”, cioè del principio posto alla base della convenienza reciproca e collettiva del commercio internazionale.
Cosa è accaduto nel 2022…
In effetti, gli eventi che hanno caratterizzato l’anno che si è appena concluso sembrano confermare che per un certo numero di potenze, regionali o globali, i rischi di perdite economiche legati a comportamenti conflittuali non siano stati sufficienti ad impedire l’apertura di fronti militari contro altri Stati, come nel caso dell’invasione russa dell’Ucraina, o di fronti interni, come la repressione in Iran. Ma lo stesso si potrebbe dire, ovviamente su scala diversa, delle tensioni tra Cina e Stati Uniti sulla questione di Taiwan, o tra Stati Uniti e Unione Europea sulle conseguenze commerciali per le imprese europee dell’Inflation Reduction Act, o quelle prevedibili tra Unione Europea e paesi terzi a seguito dell’accordo sull’European Carbon Border Adjustment, che alcuni vedono come un atto puramente protezionistico, mentre altri lo giudicano come un modo per riequilibrare una concorrenza sleale da parte dei paesi che usano tecnologie ad alta intensità di emissioni per produrre beni che poi esportano nel Vecchio continente.
…e cosa non dovrebbe stupirci
Eastwest ha seguito attentamente questi fenomeni e i tanti altri eventi che hanno caratterizzato gli ultimi anni, vissuti in modo altalenante tra le speranze di positivi sviluppi della cooperazione internazionale, talvolta a seguito di drammi planetari come la pandemia da COVID-19 o la crisi climatica, e le paure derivanti dai tanti conflitti che caratterizzano il mondo. E ha sottolineato, giustamente, la scarsa capacità del multilateralismo di risolvere le dispute bilaterali o i grandi problemi planetari, a partire proprio dalla crisi climatica. Ed è qui dove l’osservazione di Penati assume una certa rilevanza, perché se le forze che spingono verso i conflitti appaiono relativamente insensibili, almeno nel breve periodo, alle perdite economiche derivanti dai loro comportamenti, allora non dobbiamo stupirci che il multilateralismo, che ha fatto della definizione delle regole del commercio internazionale uno dei suoi più grandi successi, stimolando e rendendo possibile l’ultima ondata del fenomeno che chiamiamo “globalizzazione”, sembri diventato uno strumento incapace di governare le tensioni. Così come non dovremmo stupirci del fatto che l’Unione Europea, la quale ha costruito il proprio impianto giuridico-sociale-economico attraverso un’integrazione dei sistemi nazionali basata sui vantaggi economici comparati, e che ha, in forma analoga, definito i rapporti nei confronti del resto del mondo sulla base della forza commerciale e non di quella militare, appaia in maggiore difficoltà nel nuovo quadro geopolitico proprio a causa dell’impossibilità di far pesare la sua potenza economica per condurre la Russia a un tavolo negoziale.
La crisi climatica
E analoghe considerazioni valgono per la crisi climatica. Le enormi difficoltà della cooperazione internazionale sul tema, che pure aveva raggiunto il suo culmine nel 2015, con la sottoscrizione dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile (settembre) e con gli Accordi di Parigi (dicembre), sono apparse evidenti nei summit del G20 di Bali e della Cop27 di Sharm-el-Sheikh, nonostante l’accordo sulla creazione del fondo per l’adattamento al cambiamento climatico a favore dei paesi più colpiti da quest’ultimo, cioè dei paesi in via di sviluppo. Il sostanziale disimpegno di Russia e Cina ha reso impossibile qualsiasi avanzamento delle negoziazioni sui tanti dossier urgenti che riguardano la riduzione dell’uso dei combustibili fossili e delle emissioni di gas climalteranti, l’impegno per il trasferimento di tecnologie green, il cambiamento dei modelli di produzione, ecc. Anche in questo caso, i costi economici, sociali e umani di comportamenti “sbagliati” non sembrano essere presi in considerazione nelle decisioni politiche, e la carenza di chiare strategie di trasformazione dei sistemi economici, sia nei paesi avanzati che in quelli emergenti e in via di sviluppo, alimenta evidenti distorsioni nel funzionamento dei mercati, riducendo gli incentivi per il settore privato ad adottare tecnologie meno inquinanti.
La bassa considerazione delle conseguenze economiche di comportamenti conflittuali e non cooperativi si manifesta in modo particolarmente evidente nei paesi governati da autocrati, il cui numero tende ad aumentare nel tempo, come documentato dal Rapporto 2022 sullo stato della democrazia dell’International Institute for Democracy and Electoral Assistance (IDEA), secondo il quale il numero di paesi governati da democrazie si è ridotto significativamente, mentre tra quelli non democratici il 50% è divenuto più repressivo. Inoltre, negli ultimi sei anni il numero di paesi che si sono spostati verso regimi autoritari è pari al doppio di quelli che si sono mossi verso sistemi democratici, cosicché alla fine del 2021 circa la metà dei 173 paesi valutati hanno sperimentato riduzioni di almeno una delle dimensioni che vengono considerate come base di un sistema democratico.
Il multilateralismo
Se, dunque, esiste una qualche relazione tra stato delle democrazie, relativa insensibilità delle autocrazie ai costi di comportamenti conflittuali (che tipicamente ricadono su popolazioni sempre più represse), inefficacia degli strumenti di mercato – economico e politico – sviluppati grazie al multilateralismo, non dovremmo stupirci della crisi di quest’ultimo. Il che, ovviamente, pone i paesi G7 e OCSE, e soprattutto l’Unione Europea, in una posizione estremamente difficile, non solo sul piano politico, ma anche su quello economico. Per definizione, di fronte a fallimenti del mercato spetta allo Stato intervenire, assumendo il costo di superare il blocco del settore privato. Per ciò che concerne la lotta alla crisi climatica i costi legati a politiche di “mitigazione” (cioè alla transizione ecologica dei sistemi energetici ed economici) appaiono molto ingenti e concentrati nel prossimo decennio, così da evitare di superare quei punti di non ritorno (tipping points) oltre i quali, come indicato dagli scienziati, i fenomeni degenerativi seguono percorsi non lineari, con effetti ancora più catastrofici sull’attività umana (come gli eventi metereologici estremi). Ma non è molto diverso per le questioni geopolitiche: infatti (e qui riuso, modificandola dove necessario, la frase precedente), i costi orientati alla “mitigazione” dei rischi geopolitici (cioè al sostegno economico dei paesi verso la transizione democratica del sistema politico e alla transizione ecologica dei sistemi energetici ed economici) appaiono molto ingenti e concentrati nel prossimo decennio, così da evitare di superare quei punti di non ritorno (tipping points) oltre i quali, come indicato dagli esperti di geopolitica e questioni militari, i fenomeni degenerativi seguono percorsi non lineari, con effetti ancora più catastrofici sull’attività umana (come le guerre, anche nucleari).
Un salto di qualità
Mi sono permesso di giocare sul piano lessicale per rafforzare l’idea che crisi climatica e crisi geopolitiche sono veramente frutto di processi simili e richiedono ambedue strategie fortemente innovative e la disponibilità a sostenere i costi delle politiche di “mitigazione” dei rischi per evitare di dover fronteggiare i costi, ben più ingenti, di quelle di “adattamento” agli effetti derivanti da rischi non evitati. Si tratta di costi ingenti per lo Stato, ma non solo. Ed è qui dove forse una politica autorevole può generare una seria e forte collaborazione con il settore privato in nome di interessi comuni, e con le società nel loro complesso, cioè con le società civili attive nei vari paesi, magari attraverso una mobilitazione delle giovani generazioni, analoga a quella che si è manifestata per la questione climatica, e delle donne, analoga a quella che si sta manifestando in Iran e in altri paesi. Diverse indagini demoscopiche mostrano come la maggiore resistenza ad impegnarsi per fronteggiare la crisi climatica viene manifestata dagli uomini ultracinquantenni, cioè dalle persone che detengono gran parte delle posizioni di potere, nel settore pubblico e in quello privato. Ecco perché dobbiamo impegnarci tutti, compreso Eastwest, per dare più spazio e sostegno alle varie Grete Thunberg che, in tanti paesi del mondo, lottano per un mondo diverso, più pacifico, equo e sostenibile, e per superare lo scetticismo e il cinismo tipico di molte persone di una certa età, i quali impediscono anche alla governance globale di fare quel salto di qualità di cui abbiamo disperato bisogno.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di gennaio/marzo di eastwest