Carceri in rivolta, esecuzioni sommarie, autobombe e ostaggi presi in diretta TV. L’Ecuador vive l’incubo della violenza delle gang del narcotraffico senza un piano a lungo termine. Il presidente Noboa: è guerra.
Questo martedì 9 gennaio le gang narco dell’Ecuador hanno deciso di mostrare al paese e al mondo tutta la loro forza. La giornata è iniziata con una serie di esplosioni a Esmeraldas, Cuenca, Loja, la capitale Quito e Guayaquil, principale distretto finanziario. Distrutti ponti, incendiate volanti della polizia e postazioni di controllo delle forze dell’ordine in tutto il paese. Nel primo pomeriggio bande armate hanno fatto irruzione nell’università di Guayaquil con l’obiettivo di prendere ostaggi. Nel frattempo, un altro commando prendeva il controllo degli studi televisivi di TC Canal 10, sequestrando in diretta tutti i lavoratori dell’emittente e provocando il panico a livello nazionale ed internazionale.
La crisi era stata innescata già domenica sera, dopo la conferma da parte del comandante Generale della Polizia ecuadoriana della fuga di Adolfo Macías Villamar, alias “Fito”, boss del gruppo narco conosciuto come Los Choneros e condannato a 34 anni di carcere.
Villamar e il suo gruppo erano venuti a sapere di un imminente trasferimento dei principali capi delle gang ecuadoriane dal carcere di Guayaquil, da dove continuano a dirigere indisturbati le azioni delle proprie organizzazioni, al penitenziario di massima sicurezza di La Roca. È lo stesso motivo per il quale anche Fabricio Colón Pico, leader dell’altra grande banda criminale attiva nel paese, Los Lobos, è scappato da un carcere al sud di Quito questo stesso martedì assieme a 38 membri del clan. La fuga di “Fito”, ennesimo smacco all’ormai smunto e profondamente corrotto sistema carcerario ecuadoriano, ha scatenato una raffica di operazioni della polizia penitenziaria, che a loro volta hanno provocato una serie di rivolte nelle prigioni di tutto il paese. Un centinaio di agenti sono stati presi in ostaggio durante la notte di domenica.
La risposta del presidente Daniel Noboa è stata la dichiarazione dello stato d’emergenza in tutto il paese: applicato un coprifuoco dalle 23 alle 5 di mattina su tutto il territorio nazionale per 60 giorni, sospese le garanzie costituzionali di inviolabilità di domicilio e della corrispondenza nel caso dei detenuti; stabilite zone speciali di urgenza nei perimetri delle carceri di tutto il paese per permettere alle forze armate di assumerne il controllo.
Non sono certo misure eccezionali in Ecuador. Il presidente uscente, Guillermo Lasso, in soli 30 mesi di mandato presidenziale ha dichiarato lo stato d’emergenza 20 volte. Questa volta però il presidente Noboa, il più giovane della storia dell’Ecuador e al potere da soli tre mesi, ha incluso le 22 bande narcos attive sul territorio nazionale nella lista delle organizzazioni terroriste, permettendo così l’azione diretta delle Forze Armate nella loro repressione.
È dovuto proprio a questo il terrore scatenato martedì. Il governo Noboa, che aveva fatto della sicurezza uno dei suoi punti forti nella campagna elettorale, ha decretato martedì sera lo Stato di Conflitto Armato Interno, indicando i gruppi narcos non solo come organizzazioni terroriste, ma come “attori non statali belligeranti”. Una dichiarazione di guerra.
La situazione straordinaria ha suscitato tale commozione che anche il frammentato e litigioso arco politico ecuadoriano ha messo da parte le annose controversie che paralizzano le istituzioni ecuadoriane per stringersi intorno al presidente, le forze armate e la polizia. Nel pomeriggio il leader dell’opposizione ed ex presidente in esilio a Bruxelles, Rafael Correa, ha inviato un messaggio chiamando all’unità nazionale e ad offrire sostegno incondizionato al governo nella lotta contro i narcos. In tarda serata, tutti i gruppi parlamentari hanno emesso un comunicato in tal senso, assicurando altresì la emanazione di amnistie nei confronti dei membri delle forze armate e forze dell’ordine coinvolti “nell’eliminazione” delle gang e i loro membri.
La situazione in Ecuador suscita forte preoccupazione internazionale da diversi anni. Incastonato tra i due principali produttori di cocaina a livello mondiale, Colombia e Perù, il paese è passato nell’ultimo decennio da essere un territorio di transito di parte del traffico di stupefacenti, al principale hub di distribuzione della cocaina sudamericana verso gli Usa e l’Europa. Questo processo, che ha portato le organizzazioni criminali ecuadoriane a controllare una fetta di potere sempre più grande nelle istituzioni locali, è stato possibile grazie ad una serie di caratteristiche che hanno reso l’Ecuador un paese chiave nelle rotte della coca.
A inizio degli anni 2000, e dopo il collasso del sistema bancario ecuadoriano, il governo decise di abbandonare la propria moneta nazionale per assumere il dollaro come moneta corrente. La “dollarizzazione” dell’economia ecuadoriana però ha reso il paese anche più attraente per i traffici illegali, perché rende più semplice il riciclaggio di denaro in una valuta internazionale. A questo si aggiungono i cambiamenti nel mondo del narcotraffico colombiano suscitati prima dalla guerra totale scatenata alla fine degli anni ’90 contro le guerriglie, che ha obbligato parte del crimine organizzato colombiano a spostarsi direttamente sul territorio ecuadoriano; e poi dall’accordo di pace tra il governo e le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia, che ha modificato radicalmente l’assetto interno del controllo territoriale dei gruppi armati nel paese vicino.
Il vuoto di potere creato dalla smobilitazione delle Farc è stato colmato dai cartelli messicani, la mafia albanese e altri gruppi internazionali che hanno stretto collaborazione con le gang attive nell’Ecuador. Un paese che inoltre soffre da anni di una grande debolezza istituzionale, che si evince nell’ampia rete di corruzione presente a livello nazionale. Le organizzazioni criminali hanno puntato a piegare ai propri interessi i settori su cui hanno bisogno di maggior controllo: il sistema carcerario, i porti e le frontiere. La debolezza statale nella lotta alla corruzione è talmente grande che le gang hanno potuto diversificare le proprie attività anche ad altri campi. Nella provincia settentrionale di Imbabura, ad esempio, Los Lobos gestiscono da anni una fiorente miniera d’oro con la connivenza delle autorità locali e dipartimentali.
La rapida crescita del ruolo dell’Ecuador nel narcotraffico internazionale si è potuta rilevare espressamente nell’aumento vertiginoso della quantità di cocaina sequestrata al largo delle sue coste negli ultimi anni: dalle 63 tonnellate confiscate nel 2015 si è passati al record di 210 tonnellate del 2021. L’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine ha segnalato che l’Ecuador ha raggiunto il terzo posto a livello globale per quantità di cocaina sequestrata, dopo Usa e Colombia.
Un business vastissimo, che ha provocato la crescita delle organizzazioni legate al traffico di droga con conseguenze prevedibili: il sovraffollamento carcerario e la guerra tra gang rivali per il controllo degli affari più succulenti. Le carceri ecuadoriane sono ormai fuori controllo da diversi anni. Dal 2020 ad oggi sono quasi 500 i morti dovuti a rivolte o attacchi mirati dentro alle prigioni in Ecuador. Nel settembre 2021 il penitenziario Regionale di Guayaquil ha subito un attacco con missili sparati da droni telecomandati a distanza. Pochi giorni prima, uno scontro tra gang rivali nel penitenziario El Litoral aveva provocato il peggior massacro nella storia del paese, con 123 morti.
La violenza, inedita in un paese come l’Ecuador, ha preso il sopravvento anche nelle strade delle principali città, soprattutto nella zona costiera. L’indice di omicidi ogni 100.000 abitanti è passato da 6 nel 2018 a 43 nel 2023, catapultando il paese nel top 3 dei paesi più violenti dell’America Latina e uno dei più violenti del mondo. In alcuni quartieri di Guayaquil, la città più popolosa del paese, e nel dipartimento di Los Rios, l’indice supera i 100 omicidi per ogni 100.000 abitanti. Una violenza che non risparmia nessuno: proprio durante la campagna elettorale che si è conclusa con la vittoria di Noboa ad ottobre, sono stati uccisi otto candidati, tra cui l’aspirante alla presidenza Fernando Villavicencio, che nei sondaggi precedenti al voto vantava un appoggio superiore a quello dell’attuale presidente.
La risposta del governo di Noboa alla crisi in corso non rappresenta novità alcuna, e molti esperti a livello continentale avvertono che la militarizzazione e la “guerra contro il narco” sono irrimediabilmente destinate ad aggravare la situazione. I casi di Colombia e Messico sono gli esempi più chiari in questo senso. Ma è la mancanza di un piano alternativo al dispiegamento e uso della forza quel che più preoccupa.
Lo stesso Noboa ha abbandonato le proposte legate all’assistenza sociale e all’allargamento del welfare per contrastare il crimine organizzato subito dopo l’uccisione di Villavicencio, per abbracciare invece la risposta militarista. Il suo mandato però è breve, solo 16 mesi, in quanto la sua presidenza conclude in realtà quella del dimissionario Lasso. Difficile dunque pensare che il paese possa imboccare una strada solida per uscire dalla situazione attuale in così poco tempo, e meno ancora con le ricette di sempre.
Questo martedì 9 gennaio le gang narco dell’Ecuador hanno deciso di mostrare al paese e al mondo tutta la loro forza. La giornata è iniziata con una serie di esplosioni a Esmeraldas, Cuenca, Loja, la capitale Quito e Guayaquil, principale distretto finanziario. Distrutti ponti, incendiate volanti della polizia e postazioni di controllo delle forze dell’ordine in tutto il paese. Nel primo pomeriggio bande armate hanno fatto irruzione nell’università di Guayaquil con l’obiettivo di prendere ostaggi. Nel frattempo, un altro commando prendeva il controllo degli studi televisivi di TC Canal 10, sequestrando in diretta tutti i lavoratori dell’emittente e provocando il panico a livello nazionale ed internazionale.
La crisi era stata innescata già domenica sera, dopo la conferma da parte del comandante Generale della Polizia ecuadoriana della fuga di Adolfo Macías Villamar, alias “Fito”, boss del gruppo narco conosciuto come Los Choneros e condannato a 34 anni di carcere.