La leadership cinese non riesce proprio a tollerare una governance più liberale nell’enclave hongonchina…
Con un anno di ritardo si sono tenute ieri le elezioni del Parlamento locale di Hong Kong. Meno del 30% della popolazione si è recata a votare nei seggi elettorali pesantemente sorvegliati dalla polizia (circa 10.000 agenti sono stati schierati nella sola giornata di ieri).
Quelle andate in scena sono delle elezioni farsa, a causa della nuova legge elettorale, varata a marzo scorso, che ha di fatto azzerato le possibilità dell’opposizione di essere rappresentata. La legge prevede che ad Hong Kong possano candidarsi solo i cosiddetti “patrioti”, nei fatti i sostenitori del Governo cinese. Inoltre, solo 20 dei 90 membri del consiglio legislativo sono eletti col voto popolare; gli altri saranno diretta espressione del Governo e dei rappresentanti delle professioni (legate al Governo).
La governatrice filo-cinese Carrie Lam ha dichiarato che una scarsa partecipazione potrebbe significare semplicemente che i cittadini sono “soddisfatti” del Governo.
Intanto, nei giorni precedenti al voto, cinque mandati di arresto sono stati emessi contro alcuni attivisti pro-democrazia, residenti all’estero, ritenuti colpevoli di aver esortato gli elettori a boicottare le urne. I trasgressori rischiano fino a tre anni di carcere e fino a 25.500 euro di multa.
Tra luglio del 2020 e oggi, le autorità cinesi e quelle di Hong Kong, grazie a una nuova legge sulla sicurezza, che ha dato loro di fatto potere un illimitato, hanno perseguitato e incarcerato tutti gli oppositori di Pechino, mettendo a tacere qualsiasi voce di dissenso. Nel novembre del 2019, nelle ultime elezioni distrettuali, ancora sotto la vecchia legge i candidati pro-democrazia avevano stravinto, ottenendo 390 seggi su 452.
Oggi, la maggioranza di quegli eletti non c’è più, è stata squalificata. Quando hanno dovuto giurare di voler rispettare la costituzione di Hong Kong, molti di loro sono stati estromessi, poiché la loro dichiarazione non è stata ritenuta credibile dalle autorità.
Hong Kong resta una spina nel fianco nella credibilità del sistema di governance cinese, in quanto il dissenso è evidente e si manifesta, anche se duramente represso. Difficile cancellare decenni di abitudine al pluralismo, con un colpo di spugna. E la dirigenza di Pechino non sembra avere la visione per tollerare uno schema di Governo diverso da quello autoritario, che caratterizza la Cina continentale. Noi occidentali non possiamo che fare una cosa: fari accesi su Hong Kong, sia come comunità internazionale sia come stampa libera.