Il candidato riformista ha preso tre milioni di voti più del candidato conservatore ottenendo il consenso del 53,3% della metà degli elettori iraniani: al secondo turno ha votato infatti il 49,8% degli aventi diritto. Al primo turno l’astensione era stata del 60%.
L’Iran ha scelto: Masoud Pezeshkian è il nono presidente della repubblica islamica. Ha vinto la tornata di ballottaggio con il 53,3% dei voti con tre milioni di voti in più (16,3 contro 13,5 milioni) rispetto all’altro candidato, il conservatore Saeed Jalil, che ha avuto il 44,3% dei consensi. A votare, il 49,8% degli oltre 61 milioni di elettori.
Pochi quelli che hanno votato, anche se maggiore di dieci punti percentuali rispetto a coloro che avevano votato al primo turno il 28 giugno, quando si è registrato il risultato più basso della storia repubblicana. Manifestazioni di giubilo si sono registrate per le strade di Teheran e di altre città. Video che sui social si sono alternati e hanno sostituito le immagini dei seggi vuoti e gli appelli, soprattutto di giovani, a non votare, utilizzando l’hashtag “minoranza traditrice”.
Che gli iraniani non abbiano avuto voglia di votare, che ci sia disaffezione rispetto al regime degli Ayatollah, soprattutto per quello che riguarda la condizione economica e quella dei diritti civili, è un fatto. Come quello che il riformismo che si riferisce al neo presidente sia più di facciata che di altro, in una tornata elettorale comunque decisa e gestita dai leader sciiti, in un regime che non mostra segni di cambiamento.
Dopotutto, Pezeshkian non è così lontano dalle idee di chi, l’Ayatollah Ali Khamenei, davvero decide le sorti del paese. Che, con la sua influenza, ha deciso chi si poteva candidare o no. Lo stesso neo presidente ci ha provato due volte. Il presidente in Iran ha un ruolo minoritario rispetto a quello del leader religioso, che gestisce e decide tutto. Ma serve, il nuovo presidente ”riformista”, per dare una immagine diversa del paese soprattutto all’estero, paventando aperture che siano destinate soprattutto all’alleggerimento delle sanzioni che hanno portato ad una disastrosa situazione economica.
Il neo presidente non è un neofita della politica. Cardiochirurgo sessantanovenne, è deputato al Parlamento dal 2008, del quale è stato anche vicepresidente. È stato per molto tempo membro della commissione sanitaria del parlamento iraniano e ministro della sanità all’inizio degli anni 2000 sotto l’ex presidente Mohammad Khatami. È vicino alle posizioni dell’ex presidente Rouhani, e ha cercato di raccogliere il voto dei moderati, dei riformisti ma soprattutto dei molti giovani che protestano da anni nel paese. “Se indossare certi vestiti è un peccato, il comportamento nei confronti delle donne e delle ragazze è 100 volte più grave. Da nessuna parte nella religione è consentito affrontare qualcuno a causa dei suoi vestiti”, ha detto, criticando apertamente i metodi brutali portati avanti dalle autorità religiose intransigenti, attraverso la polizia morale, che hanno portato ad arresti, percosse e alla morte di Mahsa Amini, nel settembre di due anni fa, mentre era in custodia della polizia. Lo stesso Rouhani, parlando dopo le elezioni, aveva annunciato aperture verso una società iraniana più inclusiva delle donne e nei suoi due mandati mostrò qualche piccolo segno di apertura in tal senso.
Pezeshkian ha annunciato di voler favorire la crescita economica in stallo anche a causa delle sanzioni internazionali; mentre ha promesso di aprire di più l’Iran al mondo, soprattutto occidentale e di ascoltare le istanze di tutti, con riferimento alle minoranze (egli stesso appartiene alla minoranza azera), alle proteste in particolare dei giovani contro le azioni della polizia morale, Pezeshkian nella sua campagna elettorale non ha promesso cambiamenti radicali rispetto allo stile di vita imposto dalla teocrazia sciita iraniana e ha riconosciuto l’autorità suprema dell’Ayatollah Ali Khamenei, l’arbitro finale di tutte le questioni di stato nel paese. Difficile quindi che si possa vedere un Iran diverso.
Contro, nel ballottaggio, si è trovato Saeed Jalili, ex segretario del Consiglio supremo di sicurezza nazionale del quale fa parte e negoziatore nucleare sotto l’ex presidente intransigente Mahmoud Ahmadinejad. Jalili aveva promesso di ridurre l’inflazione a una sola cifra e di stimolare la crescita economica almeno all’8%, oltre a combattere la corruzione e la cattiva gestione. Sostiene una posizione più dura contro l’Occidente e i suoi alleati. Jalili, conosciuto come intransigente in ambienti diplomatici dopo i suoi discorsi nei negoziati per il nucleare, e chiamato “il martire vivente”, per aver perso una gamba nella guerra con l’Iraq, avrebbe, secondo molti analisti, probabilmente vinto se il voto dei religiosi e conservatori non si fosse diviso per tre candidati nella prima fase elettorale.
Tra l’altro, la vittoria di Pezeshkian ai danni di Jalili non è stata schiacciante e questo fa si che il regime, l’intransigenza, il clero, non perdano potere o influenza, anche su questioni importanti come i rapporti con gli Usa, la guerra tra Israele (verso il quale Pezeshkian ha detto di non voler fare aperture) e Hamas (gruppo sostenuto dall’Iran, come Hezbollah, gli Houthi e gli altri coinvolti) o sull’arricchimento dell’uranio a livelli prossimi a quelli di un’arma militare.
Se in molti ricordano le critiche che ha espresso il neo presidente in occasione delle diverse repressioni, nessuno dimentica che è stato tra i fautori dell’hijab obbligatorio tanto da guidare, ai tempi dell’università, gruppi di studenti che attaccavano le ragazze che non rispettavano i costumi. Se ha promesso aperture verso l’Occidente, dall’altro lato ha indossato con orgoglio la divisa delle Guardie rivoluzionarie lodandole quando hanno abbattuto un drone americano.
Per molti, la sua candidatura, visto anche il suo spessore politico non di primo piano, sarebbe una mossa di Khamenei per avere un candidato ”riformista” di facciata, in particolare per l’estero. La differenza notevole con Jalili è una cartina di tornasole di questa idea. Non a caso Pezeshkian ha preso come consigliere quel Javad Zarif che, come ministro degli Esteri di Rouhani, fu artefice di un riavvicinamento con gli Usa.
Non solo: il presidente avrà un importante peso nella scelta del successore dell’ottuagenario Ayatollah, che spera che il suo secondogenito Mojtaba possa prendere il suo posto.
La tornata presidenziale è stata convocata dopo che il 19 maggio un elicottero che trasportava il presidente Ebrahim Raisi e altri sette alti esponenti dell’establishment iraniano, tra i quali il ministro degli Esteri Hossein Amir-Abdollahian, è caduto, pare causa maltempo, nei pressi del villaggio di Uzi, vicino al confine con l’Azerbaijan, da dove il velivolo volava in direzione di Tabriz.
Il candidato riformista ha preso tre milioni di voti più del candidato conservatore ottenendo il consenso del 53,3% della metà degli elettori iraniani: al secondo turno ha votato infatti il 49,8% degli aventi diritto. Al primo turno l’astensione era stata del 60%.
L’Iran ha scelto: Masoud Pezeshkian è il nono presidente della repubblica islamica. Ha vinto la tornata di ballottaggio con il 53,3% dei voti con tre milioni di voti in più (16,3 contro 13,5 milioni) rispetto all’altro candidato, il conservatore Saeed Jalil, che ha avuto il 44,3% dei consensi. A votare, il 49,8% degli oltre 61 milioni di elettori.