Il 93% degli aventi diritto si era registrato per votare alle elezioni, prima che fossero rimandate. Aumenta la voglia di cambiamento e rinascita del popolo palestinese
Questo articolo è stato pubblicato sul numero di maggio/giugno di eastwest.
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Sono trentasei i partiti che si sono registrati per le prossime elezioni palestinesi e il 93% degli aventi diritto si è registrato per votare. Dati che dimostrano quanto sia forte, nel popolo palestinese, la voglia di cambiamento, di rinascita, dopo uno stallo amministrativo e politico che dura fin dal 2007. È da allora, infatti, dopo che Hamas aveva vinto le elezioni l’anno prima, quando prese il potere a Gaza e ci furono scontri veri con Fatah, che il Presidente palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) di fatto non ha mai convocato elezioni. Dismettendo il Governo del gruppo di Gaza, ne formò uno di lealisti senza tener conto del risultato elettorale, evitando così che per quindici anni il Paese si potesse esprimere tramite le urne sulla composizione del Parlamento, del conseguente Governo e anche del Presidente.
Da quel 2007, anche se acqua sotto i ponti ne è passata parecchia, la situazione per i palestinesi è cambiata poco. I rapporti con Israele sono sempre tesissimi, anche se negli ultimi anni le violenze parevano cessate. Parevano, perché se è vero che i razzi lanciati da Gaza si sono limitati alle “ricorrenze”, come la festa dell’indipendenza israeliana, e non ci sono stati attentati seri, ci sono però stati attacchi di coloni e alcuni palestinesi sono stati uccisi con l’accusa di aver attentato alla vita di poliziotti a qualche check point. Una “anormale amministrazione” per una zona mai pacificata, nella quale gli estremismi di fatto sono cresciuti sotto traccia.
In Israele, infatti, la destra ebraica ha governato e ha acquistato sempre più potere, portando da un lato alla quasi scomparsa della sinistra e alla paradossale situazione nella quale anche alcuni partiti arabi sono disposti ad allearsi con quegli stessi partiti che vorrebbero un Israele composto da soli ebrei ortodossi. Dall’altro lato, la mancanza di democrazia, di partecipazione popolare in Palestina ha aumentato i sentimenti estremisti e gruppi anche sciolti si sono staccati dai partiti maggiori, sia Fatah che, soprattutto, Hamas a Gaza, ribadendo con la forza delle armi e delle proteste il loro fondamentalismo e l’avversione israeliana. Tutto questo accresciuto sentimento di odio, questa pentola che per diverso tempo ha sobbollito, è esplosa alla fine di aprile con da un lato, gli scontri a Gerusalemme tra gli arabi e la polizia e gli arabi e la comunità ortodossa soprattutto nella zona della porta di Damasco (una delle otto porte della città vecchia di Gerusalemme, quella che usano e attraversano musulmani ed ebrei per raggiungere i loro luoghi sacri); dall’altro lato, a Gaza con un lancio continuo di missili per diversi giorni che ha dimostrato sia forza ma soprattutto una precisione, mai vista prima, nell’arsenale di Hamas e dei suoi sodali. Per diversi osservatori, questi episodi di violenza sarebbero eterodiretti dai politici palestinesi che, volendo conservare lo status quo, fornirebbero al governo israeliano la scusa per impedire le elezioni, venendo a mancare il presupposto fondamentale del voto a Gerusalemme.
Facciamo un passo indietro. Tra i trentasei partiti che si sono registrati alle elezioni palestinesi, alcuni hanno serie carte per sfidare e vincere Fatah, impedendo di fatto a questo di tenere il potere. Secondo i sondaggi più accreditati, il sostegno a Fatah sarebbe del 43%, rispetto al 30% di Hamas. A seconda di chi altro corre, il supporto per Fatah potrebbe scendere fino al 32%. Sul fronte presidenziale, più dei due terzi dei palestinesi vorrebbero le dimissioni di Abbas. Contro di lui, che avrebbe il 29% dei consensi, i leader palestinesi più popolari sono risultati Marwan Barghouti, ex leader di Fatah in carcere in Israele da anni dove sta scontando diversi ergastoli, che sarebbe votato dal 48% degli elettori, mentre il leader di Hamas Ismail Haniyeh avrebbe il sostegno del 19% degli elettori. Sul fronte dei partiti, la situazione è altrettanto difficile per Fatah, che sconta anni di accuse di corruzione dei suoi vertici, con diverse defezioni eccellenti.
A cominciare da Nasser al-Qudwa, nipote del defunto Presidente palestinese Yasser Arafat ed ex ambasciatore, che è a capo del neonato Partito della Libertà. Abbas ha cacciato al-Qudwa, che è stato anche ministro degli esteri, da Fatah in seguito all’annuncio di questi che intendeva candidarsi in una lista separata alle elezioni palestinesi. Il colpo di teatro del nipote di Arafat, cacciato anche dalla fondazione intitolata allo zio e comunque molto popolare e rispettato nei Territori, è stato mettere in lista Fadwa Barghouti, la moglie del leader palestinese imprigionato Marwan. Barghouti non è stato ancora espulso da Fatah, come invece al-Qudwa, cosa che secondo molti avverrà tra poco, ma comunque la sua candidatura alla presidenza all’interno del partito è stata resa impossibile da una regola interna di Fatah, voluta da Mahmoud Abbas, in quanto nel 2009 è stato eletto a Betlemme a capo del comitato centrale del sodalizio.
Marwan Barghouti è un politico e leader molto noto e seguito, nonostante sia in carcere da tempo. Sta scontando, infatti, in Israele cinque ergastoli e altri quaranta anni di prigione, perché è stato ritenuto responsabile di una serie di attentati perpetrati dal gruppo militare che comandava, Tanzim, durante, soprattutto, la seconda Intifada. Marwan Barghouti si è sempre dichiarato innocente e ha sempre condannato gli episodi contro i civili sul suolo israeliano, ma è stato condannato da un tribunale israeliano nel 2004, accusato di essere stato anche a capo delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa.
Ogni volta che si parla di elezioni nei territori palestinesi si fa il nome di Marwan Barghouti come di candidato alla presidenza. La sua candidatura spesso viene annunciata soprattutto in chiave anti Mahmoud Abbas, che Barghouti ha sempre avversato. Il leader di Tanzim, che per molto tempo è stato anche un sostenitore degli accordi di Oslo, ha anche attaccato duramente Arafat e il suo circolo ristretto per corruzione. Non è chiaro cosa possa succedere in caso di vittoria di Marwan Barghouti, dal momento che è in carcere. Proprio per scongiurare la sua candidatura, lo scorso febbraio un importante emissario di Abu Mazen gli fece visita in carcere, una visita straordinaria, cercando ci assicurarsi la sua non partecipazione.
Oltre a questa lista, un’altra turba i sogni di Fatah e di Abu Mazen. Il partito Future di Mohammad Dahlan è guidato dall’ex leader di Gaza a Fatah e dal lealista di Dahlan Samir Masharawi, seguito dall’accademico di Gerusalemme ed ex capo dell’Università Al-Quds Sari Nusseibeh. Nusseibeh è stato coinvolto nei colloqui di Madrid del 1991 che hanno portato agli accordi di Oslo. Dahlan era il capo della sicurezza di Fatah a Gaza prima che Hamas sconfiggesse le sue forze nel 2007. Dahlan è stato condannato per accuse di corruzione, costruite forse ad arte da Mahmoud Abbas, un decennio fa. Da allora, Dahlan si è avvicinato alla leadership degli Emirati Arabi Uniti e ha influenzato la politica palestinese proprio attraverso la sua autorità nel Golfo.
È considerato l’uomo dietro gli Accordi di Abramo, la normalizzazione dei rapporti tra Israele e alcuni Paesi del Golfo. Ma poiché in Palestina coloro che sono condannati per crimini non possono servire nel Governo, al momento è impossibile per Dahlan essere candidato. La sua influenza è forte, è grazie a lui che Gaza ha ricevuto migliaia di dosi di vaccino nelle scorse settimane. Sia questi due, Barghouti e Dahlan, sia Hamas pongono una seria minaccia alla leadership di Fatah, sempre più in pericolo. Mahmoud Abbas, negli ultimi tempi, ha sempre dichiarato che senza la possibilità che i palestinesi di Gerusalemme votino, le elezioni sarebbero state cancellate. Hamas ha fatto sapere di ritenere Fatah responsabile di un eventuale fallimento o cancellazione della tornata elettorale, nonostante una sorta di riappacificazione nei mesi scorsi. Fatah ha anche accusato Israele di non permettere il voto a Gerusalemme est, ma il Governo israeliano, che nella tornata nel 2006 permise le elezioni, tramite alcune interviste sulla stampa ha fatto sapere che non ha deciso ancora se permetterle o negarle. Senza voler sprofondare nel complottismo, l’ondata di violenza su più fronti nei giorni scorsi fa pensare ad un tentativo di spingere Israele verso il divieto, così da non cambiare le cose per la Palestina.
Anche perché la tempistica è strana: le elezioni palestinesi, quelle parlamentari, dovrebbero tenersi il 22 maggio, a luglio quelle presidenziali, e un mese dopo quelle del comitato dell’Olp (Organizzazione per la Liberazione della Palestina). In Israele, da anni c’è lo stesso Primo ministro e lo stesso partito alla guida, con le stesse politiche nei confronti dei palestinesi. Che tutto scoppi ora, durante il Ramadan, qualche pensiero sul fatto che da Ramallah in verità le elezioni non vogliono tenerle (anche per le pressioni della comunità internazionale occidentale preoccupata di una eventuale ascesa al potere di Hamas, che molti considerano gruppo terrorista), si è fatto avanti. Non a caso, si è parlato pure della possibilità che si tengano solo elezioni politiche e non presidenziali, per permettere all’ottuagenario e malato Mahmoud Abbas di mantenere il potere, dal momento che da molti Paesi stranieri, ma non dai palestinesi, è considerato il minore dei mali possibili.
Il 93% degli aventi diritto si era registrato per votare alle elezioni, prima che fossero rimandate. Aumenta la voglia di cambiamento e rinascita del popolo palestinese