Elezioni politiche in Giordania, le prime dopo la riforma elettorale
Vittoria del Fronte d’azione islamico, l’ala politica della Fratellanza musulmana, il più grande partito di opposizione, in un paese dove quasi il 70% della popolazione ritiene che il massacro del 7 ottobre da parte di Hamas sia stato un atto giusto e dovuto.
Ha un peso specifico più politico che amministrativo la vittoria elettorale che in Giordania ha ottenuto il Fronte d’Azione Islamico (Jabhat al-‘Amal al-Islam), che si rifà alla Fratellanza Musulmana.
Il partito ha ottenuto un quinto di tutti i voti alle ultime elezioni parlamentari del regno hashemita, conquistando la supremazia con 31 seggi (potrebbero diventare 32 con il conteggio finale e l’assegnazione dei resti): 18 nella parte relativa ai partiti nazionali e 14 seggi nelle liste locali, comprese le regioni tribali. Il risultato è una vittoria storica per gli islamisti, che avevano 10 seggi nel precedente parlamento eletto nel 2020 e 16 seggi nella legislatura del 2016.
Come ha detto Murad Adailah, il capo della Fratellanza Musulmana in Giordania, il voto ha rappresentato un “referendum popolare”. A spingere in alto il partito islamista, che comunque non avrà la maggioranza e non potrà governare (il potere in Giordania resta saldamente nelle mani del Re), la questione di Gaza.
In Giordania la metà della popolazione è di origine palestinese. Tanti hanno ancora i parenti tra Territori e Gaza e molti palestinesi, anche gli arabi che vivono a Gerusalemme, hanno il passaporto giordano. Dopo il massacro del 7 ottobre, il sentimento anti israeliano, per la risposta del suo esercito a Gaza, è aumentato. Da più parti sono arrivate le richieste al Re di cancellare l’accordo di pace sottoscritto nel 1994, il secondo di un paese islamico con il paese ebraico, dopo quello con l’Egitto.
Israele e Giordania condividono un confine lungo il fiume Giordano che ora, anche a seguito dell’attentato della settimana scorsa al valico di Allenby (nel quale un autista giordano ha ucciso tre guardie israeliane), Netanyahu vuole rafforzare. Attraverso esso, infatti, secondo dossier di organizzazioni e polizie locali e internazionali, in Cisgiordania vengono contrabbandate armi e altro.
Alle armi “Carlo”, le pistole mitragliatrici artigianali autocostruite in molti luoghi della Cisgiordania, ampiamente diffuse, si sono aggiunti i fucili d’assalto M-4, M-16, CAR-15. Non sono pochi quelli che possiedono pistole, come M18 e P-320. Armi che arrivano dall’Iran attraverso Siria, Libano e, soprattutto Giordania, portate smontate per poi essere assemblate nei piccoli negozi delle cittadine palestinesi e stipate soprattutto nei sottoscala e depositi sotterranei del centro delle città di Nablus e Jenin. Insieme a queste, la Giordania è diventato un centro di smercio del captagon, la cosiddetta droga del Jihad, che viene prodotta in Siria. Contro il commercio di questa, più volte il regno Hashemita è intervenuto direttamente con le sue milizie in Siria.
Dallo scoppio della guerra, i rapporti tra Amman e Gerusalemme si sono raffreddati. I due hanno interrotto un rapporto economico energetico, con Israele che vendeva acqua alla Giordania in cambio di elettricità che arrivava dalle centrali solari giordane. L’ambasciatore israeliano ad Amman è stato richiamato, anche perché oggetto continuo di manifestazioni all’esterno della struttura diplomatica.
Ma questo non ha fermato le piazze in Giordania dove spessissimo si sono viste manifestazioni anti israeliane e di sostegno non solo a Gaza e ai palestinesi, ma ad Hamas, sostegno che nel regno hashemita non solo non è mai mancato, ma che è pure aumentato. Più del 70% della popolazione giordana ritiene che il massacro del 7 ottobre sia stato un atto giusto e dovuto.
I fratelli musulmani in Giordania direttamente non possono candidarsi. Pur se hanno possibilità di esprimere liberamente il loro pensiero, sono stati sciolti a luglio di quattro anni fa e siedono nel parlamento attraverso il Fronte di Azione popolare. La Fratellanza Musulmana nel 1989 ottenne 22 degli 80 seggi allora esistenti.
Lo scioglimento avvenne perché la Giordania ha sempre sentito la minaccia dei gruppi islamisti nei confronti della sua stabilità. Diverse volte, infatti, sono stati tentati attacchi all’istituzione monarchica o governativa. Centrale nel loro piano è il disimpegno con Israele e con gli Usa, principale finanziatore di Amman.
Le elezioni si sono svolte in seguito a una riforma del meccanismo di voto, voluta due anni fa dal Re Abdallah II per democratizzare di più il paese, che per la prima volta ha consentito agli elettori di scegliere i propri rappresentanti eletti tramite due schede: una per i rappresentanti locali, che hanno gareggiato per 97 dei 138 seggi, e l’altra per il distretto nazionale comprendente i restanti 41 seggi. Secondo i resoconti giordani, 36 partiti registrati si sono presentati a livello nazionale. L’affluenza dei votanti è stata del 32%, in aumento di tre punti rispetto alla precedente tornata. Sono state elette 27 donne al parlamento, sulla quota minima prevista di 18. Queste elezioni hanno anche cambiato l’età minima per i candidati, che è stata abbassata da 30 a 25.
La Camera dei rappresentanti per la quale si è votato, è la camera bassa del ramo legislativo del paese. La camera alta, il Senato, è composta da 65 delegati, tutti nominati con decreto reale, come nel ramo esecutivo. Ciò garantisce al Re il controllo assoluto del processo legislativo, poiché qualsiasi atto legislativo approvato in parlamento deve essere ratificato anche da coloro da lui nominati, oltre che da lui stesso.
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