L’emergenza coronavirus è l’occasione per fare (geo)politica. Gli Usa rilanciano il loro messaggio isolazionista, la Cina mira a rafforzare la sua immagine nel mondo
L’emergenza coronavirus è l’occasione per fare (geo)politica. Gli Usa rilanciano il loro messaggio isolazionista, la Cina mira a rafforzare la sua immagine nel mondo
Nel 1947, quando la crisi dell’afta epizootica – una malattia infettiva che colpisce il bestiame – minacciava di raggiungere gli Stati Uniti e devastare l’industria della carne, il presidente Harry Truman fece una scelta saggia. Resistendo alle pressioni degli allevatori, che chiedevano la chiusura del confine meridionale, Truman decise al contrario di collaborare con il Governo messicano per contenere e debellare l’epidemia. Lo sforzo bilaterale costò a Washington circa 135 milioni di dollari, molto più di quanto previsto, ma ebbe successo.
La crisi dell’afta epizootica non è certamente paragonabile, per estensione e gravità, alla pandemia di Covid-19, ma il metodo di Truman può ancora insegnare molto. Esempi più recenti sono l’epidemia di Hiv/Aids del 2003 e quella di ebola del 2014: in entrambi i casi, gli Stati Uniti hanno investito grosse somme di denaro e guidato la comunità internazionale nella risposta alle due emergenze. Mentre oggi, con il nuovo coronavirus, non è accaduto niente di tutto questo: gli Stati Uniti non hanno nessuna intenzione di assumere nuovamente quel ruolo di leadership, e anzi hanno approfittato della pandemia per rilanciare il loro messaggio isolazionista. Non è però solo la trazione americana che manca. Manca anche – e soprattutto – un approccio multilaterale al problema. Ogni Paese ha risposto a modo suo, con misure e tempistiche diverse. E anche se nel mondo alcune strategie di contenimento hanno cominciato ad assomigliare al lockdown italiano, tra i Governi non c’è stata coordinazione. Nemmeno gli alleati storici si sono parlati. Quando l’amministrazione Trump ha annunciato la sospensione dei voli dall’Europa, per esempio, lo ha fatto senza prima consultarsi con Bruxelles. Lo stesso unilateralismo è stato riservato anche al Canada, che ha appreso solo da uno scoop giornalistico dell’intenzione di Washington – poi abbandonata – di militarizzare il confine comune.
Una crisi come quella del coronavirus avrebbe invece bisogno di una risposta coordinata e globale, come globale è la diffusione del contagio: le malattie infettive non rispettano le frontiere e non dovrebbe farlo nemmeno la collaborazione politica e medica. Per comprendere il virus ed essere quindi in grado di elaborare terapie e sviluppare farmaci, i ricercatori hanno bisogno che venga garantito loro l’accesso ai dati (meglio se omogenei) e che ci sia uno scambio continuo di informazioni. Non sta accadendo. I protocolli per la raccolta dei dati sono diversi e rendono difficile la comparazione tra Paesi. La Cina non ha sempre comunicato in maniera trasparente e gli Stati Uniti la accusano di aver sottostimato il numero effettivo dei contagi e dei decessi. Più che dalla razionalità scientifica evidence-based, i Governi – specialmente quelli delle due superpotenze – sembrano mossi piuttosto dalla propaganda e da calcoli strategici. Non bisogna stupirsi: ogni emergenza rappresenta una buona opportunità per fare (geo)politica.
Ecco allora che la Casa Bianca chiama il coronavirus Chinese virusoWuhan virus per evidenziarne l’origine. Pechino promuove teorie complottiste secondo cui la responsabilità della pandemia andrebbe ricondotta all’esercito americano. Ognuno tenta di danneggiare la reputazione dell’altro, in un gioco politico che mette in secondo piano la necessità di coordinamento. E infatti l’ultima riunione del Gruppo dei Sette (G7) non ha prodotto un comunicato congiunto: Washington insisteva per utilizzare il termine Wuhan virus, mentre gli altri membri non volevano esasperare le divisioni in un momento così delicato. È esattamente quello che è successo.
L’esito del vertice è significativo, perché rappresenta una conseguenza di quella che l’analista Ian Bremmer chiama “recessione geopolitica”. L’ordine mondiale a guida americana sta finendo, e la dottrina America First di Donald Trump ne è un segnale evidente. La ritirata degli Stati Uniti indebolisce le istituzioni multilaterali – ma di impianto occidentale – nate dopo la Seconda guerra mondiale, come il Fondo monetario internazionale, le Nazioni Unite e, appunto, il G7. Tutti organismi, peraltro, che non sono rimasti al passo con l’evoluzione del mondo e che non rispecchiano i nuovi equilibri di potere. L’ascesa della Cina ha infatti cambiato tutto. Ma Pechino vuole plasmare un ordine globale alternativo, il proprio, piuttosto che aderire a quello esistente: per questo ha creato una sua “versione” della Banca mondiale (la Banca asiatica d’investimento per le infrastrutture) e ha in mente di fare lo stesso con l’Organizzazione mondiale della sanità. Proprio l’Oms è al centro dello scontro tra Washington e Pechino: nell’annunciare – a metà aprile – la sospensione dei finanziamenti, Trump ha accusato l’agenzia di aver gestito male l’epidemia e di essere filo-cinese. Le due critiche non sono infondate, anche se la prima potrebbe facilmente venire tacciata di ipocrisia. L’Oms ha le sue colpe e risente dell’influenza cinese, che è forte ormai in tutto il sistema delle Nazioni Unite. Ma la decisione degli Stati Uniti è comunque una brutta notizia, e avrà l’effetto di peggiorare ancora di più la risposta alla pandemia.
La Cina sta cercando di sfruttare a proprio vantaggio l’assenza di una leadership statunitense nel contrasto al coronavirus per promuovere una narrazione diversa di sé stessa: non più il Paese da cui è partito il contagio, ma il Paese – l’unico – che quel contagio lo ha sconfitto e che adesso si impegna ad aiutare gli altri. E quindi mascherine, ventilatori, kit per i test, medici in presenza o in videoconferenza, prestiti di denaro. E soprattutto tanta propaganda. Questo soft power sanitario serve alla Cina per estendere e consolidare la propria – e sempre maggiore – influenza nel mondo: risponde, in altre parole, ad un disegno geopolitico. Senza dimenticare l’obiettivo di breve termine, ovvero la ricerca di nuovi mercati per l’industria farmaceutica.
Lo sforzo diplomatico cinese si concentra in Asia ma è internazionale, e ha raggiunto anche l’Italia. L’adesione di Roma alla Nuova via della seta, nel marzo 2019, non sembra tuttavia essere così determinante, visto che la generosità di Pechino è arrivata anche in altre parti d’Europa. In Italia però la solidarietà cinese, alimentata dalla disinformazione, ha prodotto la falsa credenza che il Dragone sia stato l’unico o quasi ad aver soccorso lo Stivale in un momento di crisi. Quando invece non è così, e anzi il sostegno è giunto soprattutto da Germania e Francia, senza contare le misure economiche prese dall’Unione europea.
Gli aiuti medici cinesi hanno certamente catturato l’attenzione dell’opinione pubblica, ma è ancora presto per dire se il cambio di narrativa promosso da Pechino avrà successo, o se il Partito Comunista vincerà la guerra di propaganda contro la Casa Bianca. Mentre però la Cina portava avanti la sua mask diplomacy, l’amministrazione Trump ha cercato di bloccare le esportazioni delle mascherine per trattenerle in territorio americano.
È forse troppo presto anche per immaginare che forma avrà il mondo dopo il coronavirus. L’opinione più diffusa tra gli analisti è che non faremo ritorno – non del tutto o non subito, almeno – al sistema globale, ma che assisteremo piuttosto a una riemersione dei nazionalismi. La pandemia sta rinforzando delle tendenze che erano già prepotenti prima dello scoppio della crisi: la richiesta di più controlli alle frontiere, di più protezionismo e di meno delocalizzazione. Il Covid-19 ha mostrato quanto le filiereproduttive siano interdipendenti, ma anche quanto siano vulnerabili a uno shock: se un anello della catena si blocca, tutti accuseranno il danno. Non è detto che ci si spingerà fino a “riportare tutto a casa”, ma il virus potrebbe certamente incoraggiare quel processo di frantumazione della globalizzazione in regioni geo-economiche più ristrette, in modo da “accorciare” le supply chains e rimanere più vicini ai consumatori. Fare a meno della Cina, però, non è semplice.
Nel 1947, quando la crisi dell’afta epizootica – una malattia infettiva che colpisce il bestiame – minacciava di raggiungere gli Stati Uniti e devastare l’industria della carne, il presidente Harry Truman fece una scelta saggia. Resistendo alle pressioni degli allevatori, che chiedevano la chiusura del confine meridionale, Truman decise al contrario di collaborare con il Governo messicano per contenere e debellare l’epidemia. Lo sforzo bilaterale costò a Washington circa 135 milioni di dollari, molto più di quanto previsto, ma ebbe successo.
La crisi dell’afta epizootica non è certamente paragonabile, per estensione e gravità, alla pandemia di Covid-19, ma il metodo di Truman può ancora insegnare molto. Esempi più recenti sono l’epidemia di Hiv/Aids del 2003 e quella di ebola del 2014: in entrambi i casi, gli Stati Uniti hanno investito grosse somme di denaro e guidato la comunità internazionale nella risposta alle due emergenze. Mentre oggi, con il nuovo coronavirus, non è accaduto niente di tutto questo: gli Stati Uniti non hanno nessuna intenzione di assumere nuovamente quel ruolo di leadership, e anzi hanno approfittato della pandemia per rilanciare il loro messaggio isolazionista. Non è però solo la trazione americana che manca. Manca anche – e soprattutto – un approccio multilaterale al problema. Ogni Paese ha risposto a modo suo, con misure e tempistiche diverse. E anche se nel mondo alcune strategie di contenimento hanno cominciato ad assomigliare al lockdown italiano, tra i Governi non c’è stata coordinazione. Nemmeno gli alleati storici si sono parlati. Quando l’amministrazione Trump ha annunciato la sospensione dei voli dall’Europa, per esempio, lo ha fatto senza prima consultarsi con Bruxelles. Lo stesso unilateralismo è stato riservato anche al Canada, che ha appreso solo da uno scoop giornalistico dell’intenzione di Washington – poi abbandonata – di militarizzare il confine comune.
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