Il nuovo emiciclo sarà davvero rivoluzionato? L’unica certezza è che farà più fatica a gestire un enorme budget e qualche promessa mancata…
Molte cose cambieranno a Bruxelles e a Strasburgo dopo le elezioni di maggio. Sebbene prospettive di trasformazione “rivoluzionaria” siano agitate e in parte ingigantite abilmente da contestatori dell’ordine precostituito come gli esponenti dell’internazionale sovranista, dovrebbe comunque esserci una cesura rispetto al passato. Accelerando un processo di transizione, già in atto, verso un Parlamento Europeo più politicizzato.
Con 40 anni di storia elettorale, meno di 30 dall’attribuzione del ruolo di co-legislatore e a soli 15 dal grande allargamento a est dell’Unione, l’Europarlamento è un’istituzione ancora relativamente giovane, ma soprattutto poco matura da un punto di vista politico e con un grado di conflittualità interna ancora latente.
L’intero sistema partitico si è retto negli ultimi anni su un accordo tra i principali gruppi nell’emiciclo che, se pure ne ha garantito la funzionalità nel complesso sistema decisionale europeo, ha anche diluito il confronto politico tra posizioni ideologiche opposte.
Il vero scontro non è infatti né interno né su base partitica, ma interistituzionale con l’altro braccio del processo legislativo europeo, quel Consiglio Ue che rappresenta il volere, ad oggi dominante, degli Stati membri. La disfunzione politica dell’assemblea nasce da questo rapporto di forza impari con la propria nemesi e porta alla necessità di dover sedare la propria conflittualità interna promuovendo una collaborazione forzata tra gruppi per portare l’istituzione elettiva a essere realmente rilevante nel sistema Ue.
Si tratta di una condanna a essere efficienti per non essere messi da parte, che limita anche uno dei poteri più incisivi di ogni assemblea, cioè quello di blocco. Si pensi a quale potere persuasivo possa avere il Congresso Usa decidendo lo shutdown o all’impasse causato da Westminster sull’accordo di recesso della Brexit, e lo si paragoni al fatto che a Strasburgo non sia mai riuscito di andare oltre la minaccia di bloccare il bilancio annuale dell’Ue.
Nella scorsa legislatura, l’accordo tra centro-destra europeo (PPE), socialdemocratici (S&D) e liberali (ALDE), ha dato vita a un vero e proprio compromesso storico europeo per garantire un ruolo crescente al Parlamento, senza una reale ostilità politica da parte dei Verdi, della famiglia dei conservatori, delle ali estreme sia a sinistra che a destra così come dei movimenti anti-establishment.
Proprio quest’aspetto collaborativo è altamente probabile che venga superato, favorendo la transizione verso un confronto più politico tra i gruppi parlamentari. D’altronde il compromesso storico europeo aveva già mostrato segni di deterioramento nell’ultima legislatura, quando nella sua seconda parte il PPE aveva occupato tutte le cariche apicali attuando una sorta di conventio ad excludendum sui socialdemocratici messi al palo.
Se sarà, come sembra, grande confusione nell’emiciclo, anche la situazione sarà, politicamente eccellente per mutuare una citazione di Zhou Enlai, Ministro degli Esteri di Mao. La composizione e il peso dei vari gruppi determinerà il coefficiente di “rivoluzione” all’interno del nuovo Parlamento, ma i risultati dovranno comunque essere analizzati. In particolare, sono tre i fattori da tenere d’occhio per determinare gli schieramenti post-compromesso storico europeo.
Il primo riguarda le destre, ma non tanto la loro ascesa che parrebbe attestarsi attorno al 20% e comunque senza raggiungere un terzo dell’emiciclo. Diventa invece rivelatore capire il gioco a cui stanno giocando il polacco Jarosław Kaczyński e Matteo Salvini. Se il primo ha strappato il timone dei conservatori europei (ECR) dai britannici uscenti, aprendo le porte anche alla destra nazionalista italiana di Giorgia Meloni, il secondo ha spodestato Marine Le Pen alla guida ideologica dell’internazionale sovranista (ENF).
I due leader si sono incontrati a gennaio in Polonia, lasciando presagire una possibile unione tra conservatori e destra nazionalista in uno schieramento allargato anche all’uomo forte ungherese Viktor Orbán, all’epoca in uscita dal PPE. Ma una fusione potrebbe non essere mai stata il loro fine, anche considerando il peso simile – tra i 20 e i 25 deputati –, che Lega e destra polacca dovrebbero avere nel prossimo Parlamento e che le porterebbe ad annullarsi se collocate in uno stesso gruppo. Più plausibile l’ipotesi che veda ognuno a guidare il proprio fronte in vista di un’alleanza, se i numeri lo consentiranno, con il PPE, che si assumerebbe l’onere di “normalizzare” le destre.
Un secondo fattore da tenere d’occhio riguarda il posizionamento dei partiti senza famiglia politica. Si tratta di quei movimenti post-ideologici diffusisi in Europa nell’ultimo decennio, in particolare La République En Marche (LREM) di Macron e il Movimento 5 Stelle (M5S). Entrambi hanno espresso l’intenzione di non associarsi a un partito tradizionale, ma di provare a costituire un proprio gruppo parlamentare.
Un progetto inizialmente criticato per via delle difficoltà a coagulare interesse su gruppi parlamentari ancora da costituire, ma in ultima analisi estremamente proficuo in caso di successo. Funzionasse solo parzialmente, sarebbero indebolite le altre compagini ma i nuovi gruppi sarebbero ai margini della vita parlamentare, probabilmente senza incarichi di peso come le presidenze di commissioni. Funzionasse davvero, potrebbe portare questi gruppi a costituire la stampella decisiva per qualsiasi coalizione, diventando ago della bilancia e massimizzando il numero comunque esiguo di deputati (meno di 20 sia per LREM che M5S) rispetto a quanto farebbero se diluiti in un partito tradizionale più ampio.
Terza lente d’analisi, ampiamente sottovalutata, la partecipazione del Regno Unito alle elezioni europee e gli eventuali risultati. Secondi gli ultimi sondaggi, i labour di Jeremy Corbyn dovrebbero avere 30 eurodeputati, cambiando il peso negoziale del centro-sinistra europeo, negli ultimi mesi considerato fuori dai giochi. Potrebbe addirittura esserci la possibilità per l’olandese Frans Timmermans, braccio destro di Juncker e attuale vicepresidente della Commissione, di trasferire i suoi scatoloni direttamente al leggendario 13esimo piano del Berlaymont, quello più importante dell’esecutivo europeo.
Un buon risultato dei socialisti potrebbe far riproporre un’alleanza tradizionale, arginando le estremità sovraniste e populiste, ma fondando questa nuova maggioranza su deputati destinati, in teoria, ad andare via e aprendo scenari interessanti su un primo e un secondo tempo della prossima legislatura.
Per capire che tipo di Parlamento avremo non basta solo prevederne la composizione, ma anche anticipare come potrebbe lavorare. L’ultimo Europarlamento ha legiferato molto, ma l’aggiunta di gruppi parlamentari post-ideologici e l’aumento del peso delle destre euroscettiche potrebbe portare a una maggiore frammentazione, mettendo a rischio la capacità di portare a conclusione dossier legislativi delicati nella prossima legislatura.
Molta attenzione, per il suo carattere di eccezionalità, ha attirato la maggioranza trasversale che ha approvato lo scorso marzo le nuove regole sul copyright. Sebbene non in quelle proporzioni, potrebbe trattarsi di un voto paradigmatico per il prossimo mandato. Oltre a legiferare di meno, infatti, un Parlamento frammentato porta a maggioranze “mobili” che si formano sul momento e in base al tema, rendendo più complesso anche il lavoro dei relatori addetti a negoziare la posizione del Parlamento con il Consiglio Ue.
Alla frammentazione si potrebbe aggiungere anche il tasso di rinnovo dei parlamentari stimato tra il 40 e il 60% dei deputati. Un Parlamento fortemente inesperto, o ancora peggio impigrito da euroscettici, potrebbe rallentare ulteriormente il processo decisionale.
E infine c’è la questione delle tematiche che il prossimo Parlamento dovrà toccare. Buona parte del dibattito almeno fino al 2020 sarà occupata dalla discussione sul Quadro finanziario pluriennale (Qfp, meglio noto con l’acronimo inglese MFF), il piano di programmazione settennale che deciderà le spese per il periodo 2021-2027.
Dagli stanziamenti dell’MFF dipenderanno anche dossier pesanti come quello sulla nuova Politica agricola comune (Pac), un tempo regina tra le politiche comunitarie ma che oggi si vorrebbe fortemente ridimensionare. Tra gli altri file “appesi” che dovranno essere negoziati con il Consiglio, pur essendo votati in plenaria, c’è anche la direttiva sull’acqua potabile, che sarebbe la prima legge europea originata da un’iniziativa di cittadini europei con 1,8 milioni di firme raccolte, ma anche l’abolizione dell’ora legale.
Al di là delle questioni pendenti, il vero compito del nuovo Parlamento sarà quello di realizzare operativamente quelle scelte programmatiche al 2030 fatte nella precedente legislatura, dalla strategia per il clima alla creazione di un’industria europea della difesa, passando per le sfide future dell’intelligenza artificiale o delle batterie, centrali per mobilità elettrica e decentralizzazione energetica. Ma soprattutto, si troverà a gestire le promesse mancate del precedente quinquennio. Su tutte, la riforma di Dublino e il grande fallimento della gestione migratoria, ma anche l’uscita ordinata dall’Ue del Regno Unito. Ammesso che la Brexit avvenga nella prossima legislatura, e che avvenga davvero.
@gerardofortuna
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
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