Gli Usa hanno criticato l’alleato israeliano quando ha detto che “Israele manterrà la responsabilità della sicurezza a Gaza per un tempo indefinito”. L’idea internazionale sarebbe portare Gaza sotto l’ombrello dell’Autorità Nazionale palestinese che però ha perso il controllo della Striscia, dove di fatto c’è un altro “stato palestinese” oltre a quello cisgiordano.
La guerra ad Hamas sul suolo della Striscia di Gaza, che si sta combattendo da quando il gruppo e gli altri simili dell’enclave hanno perpetrato il massacro lo scorso 7 ottobre, si combatte nei cieli, nelle acque, sul terreno della lingua di terra tra Israele ed Egitto e nelle sedi diplomatiche internazionali.
Già perché il conflitto, complici vecchie alleanze e disaccordi, propaganda e atavici risentimenti, ha polarizzato due schieramenti nei quali non è difficile riconoscere diverse posizioni nell’ambito della stessa parte. Soprattutto, non tanto sulla discussione della gestione della guerra, ma riguardo al futuro assetto dell’area.
Da un lato, i paesi arabi. Al loro interno c’è chi è alleato di Israele, come Egitto e Giordania, che però non hanno alcune interesse a sobbarcarsi la gestione dei profughi palestinesi.
In particolare, Amman “ha già dato”, dal momento che ospita una delle maggiori diaspore palestinesi a seguito delle varie guerre e dello stesso controllo del regno Hashemita sulle aree al di là del fiume Giordano rispetto alla proprio territorio. Tra l’altro, la convivenza non è mai stata delle migliori: non dimentichiamoci che proprio in uno di questi campi profughi nacque il dissidio che portò allo scontro armato di Settembre Nero, con la volontà palestinese di sovvertire il potere in Giordania e creare un proprio Stato lì. Dalle sue ceneri nacque anche l’omonimo gruppo, protagonista indiscusso della fase terroristica della seconda metà del secolo scorso. E fu proprio un palestinese ad uccidere nella moschea di Al Aqsa Abdallah I, il fondatore del moderno stato giordano sorto sulle ceneri della Transgiordania.
L’Egitto non ha una storia di relazioni così turbolente con i palestinesi, ma non vuole che i campi profughi, come quelli in Cisgiordania, in Giordania, in Siria diventino veri e propri conglomerati urbani sul suo territorio. Un’area, tra l’altro, già difficile, quella del Sinai, per la presenza di bande di beduini che ne controllano gran parte. Da qui il rifiuto egiziano a prendersi i profughi gazawi nonostante anche Israele gli abbia promesso in cambio la cancellazione del debito. Il suo impegno è talmente forte, nel lasciare lo status quo, che al Sisi, strenue avversario dei Fratelli Musulmani, contro i quali ha fondato il suo potere, ha ospitato nei giorni scorsi al Cairo Ismail Haniyeh, capo politico di Hamas, organizzazione nata come filiazione proprio dei Fratelli Musulmani.
Oltre a loro, gli alleati sono i recenti sottoscrittori degli accordi di Oslo, Bahrein Emiratie Arabi in testa, che hanno ovviamente criticato i bombardamenti israeliani ma non sono andati oltre, auspicando il cessate il fuoco.
L’Arabia, che era data per prossima firmataria della pace con Israele, anch’essa si sta impegnando per pace e ostaggi, ma non ha usato, come avrebbe potuto, più di tanto parole contro lo stato ebraico.
Il Qatar, che pure non ha rapporti con Israele, è l’attore principale insieme all’Egitto per la liberazione degli ostaggi, forte dei suoi rapporti con Hamas, visto che ne ospita il lider maximo e altri e finanzia sia il partito che i cittadini gazawi. L’impegno qatarino, è chiaro, è favorito dalle pressioni americane.
Gli Usa hanno criticato l’alleato israeliano quando da Gerusalemme è stato detto che “Israele manterrà la responsabilità della sicurezza a Gaza per un tempo indefinito”. Che voleva dire Netanyahu? Che il suo paese occuperà Gaza? Che caccerà i locali e diventerà un luogo di insediamenti come prima del 2005? In una intervista giovedì sera (americana) a Fox News il premier israeliano ha detto chiaramente che Israele non cerca di spostare i palestinesi nella guerra contro Hamas, aggiungendo che “Ciò che dobbiamo vedere è Gaza smilitarizzata, deradicalizzata e ricostruita. Tutto ciò può essere raggiunto. Non cerchiamo di conquistare Gaza. Non cerchiamo di occupare Gaza. E non cerchiamo di governare Gaza”. Il giorno dopo, parlando ai sindaci della fascia intorno a Gaza, ha detto che “Le forze dell’Idf (l’esercito israeliano, ndr) manterranno il controllo della Striscia, non lo daremo alle forze internazionali”, secondo una lettura del suo portavoce.
Le dichiarazioni sono in contraddizione? Che abbia cambiato idea su pressione americana? Più probabile che Netanyahu non abbia mai avuto la voglia di accollarsi il problema anche solo della ricostruzione di Gaza, che in termini economici sarà onerosa, oltre che socialmente difficile. E non solo per i gazawi, ma soprattutto per gli israeliani, nei quali oramai sono insiti sentimenti di forte di condanna, risentimento e paura oltre che di orrore per quanto successo il 7 ottobre nelle città e kibbutzim a ridosso della striscia.
Netanyahu sicuramente pensa ad una zona cuscinetto ampia tra la Striscia e il suo territorio. Niente di contraddittorio nelle sue affermazioni. Una cosa è la sicurezza, una cosa la gestione della Striscia.
L’idea internazionale sarebbe quella di portare Gaza sotto l’ombrello dell’Autorità Nazionale palestinese. Abu Mazen, che ha perso il controllo della striscia dove di fatto c’è un altro “stato palestinese” oltre a quello cisgiordano, ha detto che non sarebbe mai entrato a Gaza su un carro armato israeliano. Ma comunque, ci sarebbe entrato. E dal momento che gli accordi di Oslo prevedono un coordinamento di sicurezza tra Israele e l’Anp, per il quale l’esercito, previa informativa, può entrare nei territori palestinesi in operazioni ritenute utili per la sua sicurezza, ecco che la stessa cosa potrebbe avvenire su Gaza.
Senza contare poi altre due questioni.
Uno dei criteri per il riconoscimento di uno stato, è il controllo territoriale, cosa che l’Anp non ha, sia per i coloni ma anche per Hamas, a Gaza. E Abu Mazen ha scaltramente detto di volersi interessare a Gaza in un discorso che porti alla creazione dello stato palestinese.
Il secondo punto è il successore dell’ottuagenario presidente palestinese, che potrebbe essere Mohammed Dahlan, l’uomo avversato da Abu Mazen con il quale condivide l’appartenenza al partito Fatah, che vive negli Emirati e che gode di molto credito dentro e fuori la Palestina. Ma che, soprattutto, è di Gaza.
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La guerra ad Hamas sul suolo della Striscia di Gaza, che si sta combattendo da quando il gruppo e gli altri simili dell’enclave hanno perpetrato il massacro lo scorso 7 ottobre, si combatte nei cieli, nelle acque, sul terreno della lingua di terra tra Israele ed Egitto e nelle sedi diplomatiche internazionali.
Già perché il conflitto, complici vecchie alleanze e disaccordi, propaganda e atavici risentimenti, ha polarizzato due schieramenti nei quali non è difficile riconoscere diverse posizioni nell’ambito della stessa parte. Soprattutto, non tanto sulla discussione della gestione della guerra, ma riguardo al futuro assetto dell’area.