Metalli critici e strategici per le nostre vite e ancor di più per le nuove industrie che si svilupperanno con la duplice transizione energetica e digitale
Lo smartphone che hai appena poggiato o dal quale stai leggendo questo articolo contiene terre rare. Contiene terre rare la televisione in salotto, l’automobile parcheggiata sotto casa e quella elettrica che un giorno potresti voler comprare. Contiene terre rare la turbina eolica che genera l’elettricità nella tua stanza, le cuffie che usi per ascoltare i podcast al mattino mentre fai colazione, il tuo computer. Le terre rare servono per alcuni farmaci per il trattamento dell’artrite reumatoide e alle raffinerie di petrolio che producono la benzina. Si trovano negli aerei da guerra, nei sistemi missilistici e nei visori notturni. La lista potrebbe proseguire, ma il concetto ormai è chiaro: le terre rare sono praticamente ovunque intorno a noi. E sono anche al centro di una grande questione geopolitica dovuta al fatto che circa l’80% della loro offerta mondiale è controllata da un solo stato: la Cina. Nessun altro Paese, dagli Stati Uniti a quelli dell’Unione europea, vuole esporsi a una dipendenza così grande per un “qualcosa” di fondamentale in tanti settori diversi e più o meno strategici.
Per dare loro una definizione meno vaga di “qualcosa”, possiamo dire che le terre rare sono un gruppo di diciassette elementi metallici accomunati da certe proprietà chimiche. Quindici di questi, detti lantanoidi, hanno numeri atomici compresi tra 57 e 71; gli altri due, lo scandio e l’ittrio, occupano invece posti lontani nella tavola periodica ma sono affini per caratteristiche. Senza entrare troppo nel tecnico, le terre rare hanno generalmente proprietà magnetiche e ottiche tali da consentire la realizzazione di dispositivi elettronici molto efficienti e di sistemi d’arma molto accurati.
Il mercato delle terre rare
A dispetto del nome, le terre rare non sono rare davvero. Al contrario, sono piuttosto diffuse in natura. Il problema è trovarne in concentrazioni sufficientemente abbondanti. Come spiega Foreign Policy, mentre infatti il rame o l’oro si sviluppano in depositi ricchi e sono quindi convenienti da estrarre per le società minerarie, gli elementi delle terre rare tendono a non raggrupparsi in singoli minerali ma a “disperdersi” in tipi di solidi diversi. Ci sono alcune eccezioni – la monazite, per esempio, che ne contiene in quantità accettabili –, ma in generale è difficile trovare minerali con concentrazioni significative di terre rare che rendano economicamente fattibili le operazioni di prelievo e di lavorazione su larga scala. L’estrazione delle terre rare può peraltro presentare seri problemi di impatto ambientale, perché è facile che questi elementi si trovino in minerali contenenti uranio radioattivo. Le vere difficoltà, comunque, arrivano con la fase di raffinazione. I minerali grezzi devono innanzitutto venire trattati per poter ottenere dei concentrati di terre rare. Dopodiché ci si sposta in un altro impianto chimico per l’isolamento degli elementi tramite un metodo chiamato “estrazione con solvente”: tradotto nella pratica, i materiali devono passare – ripetutamente: anche centinaia o migliaia di volte – attraverso una serie di camere contenenti dei liquidi in modo da separare i singoli elementi. Infine, una volta purificati, gli elementi vengono trasformati in ossidi, fosfori, leghe o magneti. L’intero processo è tanto complicato quanto costoso e potenzialmente inquinante.
Il Paese che ospita le maggiori riserve di terre rare del pianeta è la Cina, con il 37% del totale, che ne è anche il maggiore produttore, con una quota del 63% circa. Nessuna di queste cifre permette però di capire davvero quanto sia esteso il dominio di Pechino sul mercato: considerata anche la processazione, la Repubblica popolare arriva a mettere insieme l’80% dell’offerta globale di terre rare. La Cina detiene infatti una sorta di monopolio sulla loro raffinazione. Una condizione che ha portato al caso quasi paradossale di MP Materials, l’azienda che gestisce l’unica miniera di terre rare negli Stati Uniti – quella di Mountain Pass, in California –, costretta a spedire i minerali grezzi in Cina per farli processare e a re-importarli una volta raffinati. La dipendenza è profonda, visto che l’80% delle terre rare importate da Washington arrivano da Pechino.
Il controllo che la Cina esercita sul mercato delle terre rare non agevola, ovviamente, l’emersione di concorrenti e la loro affermazione. Il Paese ha raggiunto un livello di scala tale da permetterle di operare con profitto in contesti sconvenienti per tutti gli altri. L’industria mineraria resiste allora a investire, e il semi-monopolio cinese si perpetua. Un tempo le cose erano diverse. Fino agli anni Ottanta gli Stati Uniti erano dei grossi produttori di terre rare; poi hanno rinunciato al ruolo per via dei costi economici e ambientali delle operazioni. Più o meno nello stesso periodo, in Cina il leader Deng Xiaoping seppe cogliere l’importanza strategica dei depositi nazionali di questi metalli. Qualche anno dopo pronunciò una frase quasi profetica: “Il Medio Oriente ha il petrolio, la Cina ha le terre rare”.
Deng aveva ragione a paragonare le terre rare al greggio. Si tratta, in entrambi i casi, di materie prime fondamentali per l’economia; garantirsene gli approvvigionamenti è una questione strategica per i governi; il controllo delle forniture assegna ai produttori una leva importante di influenza geopolitica. Nel 1973 gli esportatori di greggio dell’Opec imposero un embargo nei confronti dell’Occidente in risposta all’appoggio americano a Israele nella guerra dello Yom Kippur. Conseguenze: shock energetico e aggravamento della crisi economica. Nel 2010 la Cina bloccò le esportazioni di terre rare – al tempo valeva il 93 dell’output mondiale – verso il Giappone per via di un caso politico relativo alle isole Senkaku, che Pechino rivendica a sé con il nome di Diaoyu: Tokyo aveva arrestato il comandante di un peschereccio cinese che si era scontrato contro le navi della Guardia costiera giapponese in un tratto di mare conteso. Il blocco, negato dalla Cina, durò circa un mese, da metà settembre a fine ottobre. Oltre a mandare le industrie nel panico – l’elettronica è uno dei settori di punta del Giappone –, sia l’embargo delle terre rare che quello petrolifero ebbero però delle conseguenze positive: misero cioè gli stati davanti al problema della dipendenza, e li costrinsero a reagire. La crisi del 1973 incoraggiò nuove esplorazioni di idrocarburi e incentivò il passaggio dal petrolio al gas naturale per la generazione dell’elettricità. Quella del 2010 portò il Giappone a lavorare a una filiera mineraria più slegata dalla Cina.
Verso la transizione energetica
Circa un decennio dopo, la presa di coscienza giapponese si è allargata a tutte le economie avanzate. I motivi principali sono due: le tensioni tra Washington e Pechino e la transizione energetica dalle fonti fossili alle rinnovabili.
Con la caduta dell’Unione sovietica e la dissoluzione del loro grande rivale, gli Stati Uniti dimenticarono l’importanza di mantenere delle scorte di metalli strategici. Nel 2001, per esempio, autorizzarono la vendita di trentamila tonnellate di titanio per finanziare la costruzione di un monumento commemorativo della Seconda guerra mondiale: scopo certamente nobile, ma scelta forse poco avveduta da un punto di vista tattico. L’ascesa della Cina, oltre ad averne riacceso l’istinto competitivo, ha messo l’America in uno stato di preoccupazione per la sua esposizione alle ritorsioni cinesi. Effettivamente, lo scorso febbraio il Financial Times scrisse che Pechino stava valutando di restringere le esportazioni di terre rare verso Washington in risposta alla trade war aperta da Donald Trump nel 2018, con l’obiettivo di danneggiare gli appaltatori della difesa come Lockheed Martin: per ogni caccia modello F-35 servono 417 chili di terre rare. Già negli anni di Trump il dipartimento della Difesa, il Pentagono, aveva stanziato fondi per potenziare l’estrazione mineraria e la lavorazione delle terre rare sul suolo americano. Sono diversi i progetti in via di sviluppo: c’è per esempio MP Materials che vuole dotarsi di capacità di raffinazione per emanciparsi dalla Cina; c’è l’australiana Lynas che ha intenzione di costruire un impianto di trattamento in Texas; ci sono NioCorp in Nebraska e poi le canadesi Rare Element Resources in Wyoming e Ucore Rare Metals in Alaska.
Joe Biden ha proseguito sulla strada del predecessore. L’8 giugno sempre il Financial Times ha fatto sapere che la sua amministrazione sta valutando l’imposizione di dazi sui magneti in terre rare provenienti dalla Cina, motivandola con i rischi per la sicurezza nazionale. Biden ha però anche dato alla corsa di Washington per l’accaparramento delle terre rare una dimensione più globale, orientandola maggiormente verso la collaborazione con gli alleati fidati, like-minded. I più utili alla costruzione di una filiera sicura sono il Canada, l’Australia, l’India, il Giappone, il Sudafrica.
Le terre rare sono in realtà solo una parte di quei metalli strategici per le nuove industrie che si svilupperanno con la transizione energetica. Per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni al 2030 bisognerà costruire molte più turbine eoliche e molti più veicoli elettrici. Ma serviranno anche molte più batterie per stoccare l’energia, e di conseguenza scorte di litio, nichel e cobalto. Ci sarà bisogno di realizzare nuove reti di trasmissione dell’elettricità e grandi quantità di pannelli solari, e sarà impossibile farlo in assenza di rame. Anche in questo caso emerge una questione di dipendenza dalla Cina, che oltre ad essere la prima produttrice di tecnologie per le rinnovabili è anche la maggiore raffinatrice di cobalto e di litio: vale il 72 e il 61% del totale globale, rispettivamente (dati CSIS e BloombergNEF).
E l’Unione europea? Ad oggi si affida a Pechino per il 98% delle importazioni di terre rare, ed è una relazione insostenibile: una turbina eolica contiene in media 600 chili di magneti in terre rare per ogni megawatt di capacità. A maggio, in un discorso al Consiglio del Nord Atlantico, la commissaria per l’Energia Kadri Simson ha dichiarato che l’Europa non potrà essere padrona del suo destino se non si garantirà un accesso sicuro e diversificato alle materie prime necessarie ai nuovi sistemi energetici. Di recente Bruxelles ha annunciato una partnership su questo punto con il Canada, ma insiste soprattutto sul riciclo dei materiali già utilizzati, per diminuire la dipendenza dall’esterno.
L’Agenzia internazionale dell’energia sostiene che riciclare i metalli delle batterie permetterà di tagliarne la domanda del 12% entro il 2040. Con le terre rare, però, è diverso. Riciclarle è difficile per lo stesso motivo che ne complica la loro estrazione: la concentrazione. Le quantità di terre rare presenti nei magneti sono cioè piccole, e il residuo ottenuto dal processo di riciclo è davvero minimo e non permette ricavi adeguati.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.
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Metalli critici e strategici per le nostre vite e ancor di più per le nuove industrie che si svilupperanno con la duplice transizione energetica e digitale
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