La propaganda al cinema è una questione di punto di vista.
Nel mondo anglosassone il termine “propaganda” ha una connotazione fortemente negativa, soprattutto in tempi moderni: è la comunicazione faziosa e falsa del nemico, come la “propaganda russa” della Guerra Fredda. Ma è chiaro che è una questione di punti di vista.
Se si parla di cinema e propaganda, i cinefili citeranno il nome di Leni Riefenstahl, leggendaria regista tedesca. Il suo Trionfo della Volontà, del 1935, su un raduno del Partito Nazista tenutosi a Norimberga l’anno prima, mirava a celebrare e consolidare il regime, ma è anche un trionfo di tecnica cinematografica che gli è valso un posto unico nella storia del cinema come opera “grande ma empia”. Così la definisce lo scomparso critico americano Roger Ebert in una sua recensione, salvo poi rettificare che si tratti di un esempio di grandissima cinematografia.
Volendo fare l’avvocato del diavolo, si potrebbe argomentare che ogni buon film è propaganda, dato che essa può definirsi “attività finalizzata a promuovere un particolare punto di vista, spesso di natura faziosa o soggettiva”.
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La propaganda al cinema è una questione di punto di vista.