La pace in Sudan non è in vista e il Paese sembra essere uscito dai radar internazionali. L’ONU conta 14.600 morti, a cui si aggiungono 8,5 milioni di persone sfollate. L’emergenza alimentare è alle porte e almeno mezzo milione di nuove vittime sono annunciate.
Era la mattina del 15 aprile 2023, quando in Sudan si è iniziato a sparare. Si sperava che gli scontri potessero concludersi in fretta e lasciare spazio ad un nuovo accordo per la spartizione di potere tra le parti, così come era già successo altre volte nel Paese. Ed invece, a distanza di un anno, la guerra civile non ha accennato a terminare ed anzi diventa sempre più grave.
A dodici mesi dall’inizio del conflitto, in Sudan la situazione è drammatica, in primis perché sullo sfondo non si intravede nessuna possibilità di cessate il fuoco: la guerra continua, nonostante sia in una situazione di stallo e l’attenzione internazionale su quanto sta accadendo nello stato africano sia scemata da tempo.
Nel frattempo, gli effetti degli scontri diventano sempre più drammatici. La guerra ha toccato gran parte del Paese, portando distruzione e massacri. E i suoi effetti sono ben evidenziati dai numeri: le Nazioni Unite contano 14.600 morti, a cui si aggiungono 8,5 milioni di persone sfollate. Due milioni di queste hanno dovuto abbandonare il Sudan, rifugiandosi nei Paesi vicini e soprattutto in Sud Sudan, uno stato già caratterizzato da conflitti e instabilità.
La guerra civile
La guerra civile era iniziata lo scorso aprile nella capitale Khartoum, quando le Forze di Supporto Rapido – conosciuto come RSF – avevano cercato di prendere il controllo dell’aeroporto, del palazzo presidenziale e del quartier generale dell’esercito. All’offensiva del gruppo paramilitare aveva risposto immediatamente l’esercito regolare, con uno scontro che si era presto propagato in tutta la città e poi nel resto del Paese.
Da subito, era risultato chiaro che gli scontri tra la milizia e l’esercito andassero letti come una lotta di potere tra i due uomini forti del Sudan. Le forze armate rispondono infatti al generale Abdel-Fattah Burhan, mentre le RSF sono una creazione di Mohammed Hamdan Dagalo, un signore della guerra meglio conosciuto come Hemedti.
Nell’ottobre del 2021, Burhan e Dagalo avevano rovesciato con un colpo di stato il governo di transizione guidato da Abdalla Hamdok, che di lì a breve avrebbe dovuto lasciare spazio ad un governo civile. In seguito, Burhan aveva preso il controllo effettivo del Paese, alleandosi con Hemedti e trovando con lui un accordo di condivisione di potere, che è durato fino all’aprile del 2023. In seguito, le divergenze tra le due parti sono esplose, portando allo scoppio della guerra civile.
Un anno dopo
In questi mesi è diventato chiaro però come né l’esercito ufficiale né la milizia paramilitare dispongano di una forza militare sufficiente per prevalere l’una sull’altra. E questo rischia di rendere la guerra civile ancora più sanguinosa, ha denunciato l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk, “poiché le parti in conflitto armano i civili e sempre più gruppi armati si uniscono ai combattimenti”.
Nel tentativo di sconfiggere le forze rivali, sia l’esercito che le RSF stanno distribuendo armi ai civili e ad altri gruppi. Allo stesso tempo, la loro debolezza militare fa sì che né Burhan né Dagalo siano in grado di controllare efficacemente i propri alleati. La conseguenza è che in Sudan si assiste alla proliferazione di gruppi ribelli, che seguono unicamente i propri interessi ed aumentano la complessità del conflitto, così come la difficoltà nell’arrivare a delle soluzioni.
Carestia e migrazione
Se gli sviluppi bellici in Sudan restano complicati da prevedere, più semplice è invece purtroppo capire quale sarà l’evoluzione della situazione umanitaria di qui a breve. Già negli ultimi mesi era stato denunciato il rischio di una grave crisi alimentare, dovuta alla distruzione dei raccolti nel corso del conflitto e alla quasi totale assenza di aiuti, a causa della scarsa attenzione catturata dal conflitto e dell’impossibilità di avere accesso a gran parte delle aree interessate da scontri.
Ora, però, il Paese sembra essere ad un passo dalla carestia. “Non è un termine che noi operatori umanitari usiamo con disinvoltura. È qualcosa di riservato, in realtà, alle situazioni più terribili. E temo che il popolo sudanese si trovi proprio in questa situazione” ha spiegato Justin Brady, responsabile di UN OCHA per il Sudan.
Secondo l’ultimo rapporto dell’Integrated Food Security Phase Classification (IPC), il Paese verrà colpito da malnutrizione acuta entro l’estate: questa porterà mezzo milione di vittime, che potrebbero arrivare fino al doppio secondo gli scenari più negativi. “Maggiori aiuti sono fondamentali per un conflitto che, avendo già generato la più grave crisi di rifugiati e sfollati al mondo, rischia di trasformarsi anche nella maggiore emergenza alimentare” ha sottolineato Lucia Ragazzi, analista di ISPI, nel commentare l’emergenza vissuta dal Sudan.
A dodici mesi dall’inizio del conflitto, in Sudan la situazione è drammatica, in primis perché sullo sfondo non si intravede nessuna possibilità di cessate il fuoco: la guerra continua, nonostante sia in una situazione di stallo e l’attenzione internazionale su quanto sta accadendo nello stato africano sia scemata da tempo.