Sulle cime dell’Himalaya, lungo l’immensa frontiera contesa, si consuma da oltre un secolo la sfida militare tra Cina e India, che coinvolge anche Nepal e Bhutan. Per molti, è qui che si decide il futuro dell’Asia
Quando si parla di possibili flashpoint in Asia, si citano sempre Taiwan e Mar Cinese meridionale. Eppure, l’unico confine conteso dove ci sono stati dei veri scontri negli ultimi anni è quello tra Cina e India. Nella tarda primavera del 2020 ci sono state anche diverse vittime dall’una e dall’altra parte dopo un lungo periodo di calma apparente. Lo scorso dicembre si sono verificate nuove schermaglie. Da allora, ci sono stati diversi incontri tra gli esponenti delle forze armate e dei Ministeri della Difesa dei due giganti asiatici, ma la situazione non è mai stata del tutto risolta. Al massimo congelata. Il governo di Nuova Delhi ha recentemente descritto la situazione come “fragile e pericolosa”, quello di Pechino tende più a minimizzare. Ma secondo diversi osservatori è lungo questa immensa frontiera che si decide molto del futuro del continente.
Qui, d’altronde, si deciderà molto del bilanciamento regionale. Dopo che la guerra in Ucraina ha spinto Giappone, Corea del Sud e Filippine sempre più tra le braccia degli Stati Uniti, il posizionamento indiano è cruciale. Non a caso Joe Biden ha invitato Narendra Modi alla Casa Bianca a giugno, rafforzando la cooperazione in materia tecnologica e militare. Già lo scorso dicembre, per la prima volta, l’esercito indiano ha utilizzato le informazioni satellitari condivise dagli Stati Uniti per acquisire vantaggi strategici nella contesa con l’esercito cinese. E ha anche acquistato dei droni militari americani, che Pechino teme possano essere dispiegati proprio su questo quadrante.
Una contesa secolare
Qui, sui territori impervi e montuosi a cavallo dell’Himalaya, c’è in gioco moltissimo. Con diversi aspetti che contribuiscono a ritenere che nel prossimo futuro, se i colloqui tra le due parti non garantiranno stabilità, la tensione possa persino aumentare. Dalle risorse idriche alla questione strategica, dall’aspetto storico a quello religioso. Quella tra Cina e India è una contesa territoriale che ha più di un secolo, sin dalla linea McMahon tracciata nel 1914 e non riconosciuta da Pechino perché frutto di un accordo tra il Tibet autonomo e l’India britannica, con cessioni di una parte importante di territorio da quella che sarebbe poi diventata una regione autonoma della Repubblica Popolare. Una contesa che riguarda diverse aree. In primis l’Aksai Chin, regione montuosa del Kashmir in mano alla Repubblica Popolare dalla guerra sino-indiana del 1962, nella quale sono morti circa duemila soldati. Si tratta di un’area montuosa che funge da strategico collegamento tra Tibet e Xinjiang e che Nuova Delhi continua a rivendicare come parte del Ladakh, una delle divisioni dello stato di Jammu e Kashmir. Non solo. L’Aksai Chin ha un’altra porzione di territorio ceduta nel 1963 alla Cina dal Pakistan e che funge da cuscinetto tra Xinjiang e l’entità autonoma del Gilgit-Baltistan, controllata da Islamabad.
La coda allungata dell’Aksai Chin tocca anche la zona strategica del lago himalayano Pangong Tso, che dal territorio indiano arriva a toccare il principale snodo stradale del Tibet. Il tutto dopo essere passata anche a toccare altri due stati indiani, l’Himachal Pradesh (dove col benestare di Nuova Delhi risiede, nella città di Dharamsala, il Dalai Lama, fuggito dal Tibet dopo l’arrivo di Mao nel 1950) e l’Uttaranchal. Scendendo a sud est, invece, si trovano altre due aree dove la tensione è alta. La prima è quella del Sikkim, incastonato tra Nepal e Bhutan ed entrato a far parte dell’India nel 1975 con un referendum. La seconda, andando ancora più verso oriente dopo il Bhutan, è quella dell’Arunachal Pradesh, stato controllato dall’India ma rivendicato da Pechino. Le due parti si accusano reciprocamente di aumentare le tensioni costruendo nuove strutture o strade nei pressi del confine. Pechino ha anche dato nuove denominazioni ad alcune località che si trovano in territorio conteso, in una mossa utile a operare una simbolica reiterazione di sovranità.
La questione del doppio Dalai Lama
La vicenda della successione del Dalai Lama gioca un ruolo non trascurabile sugli scenari futuri. Il leader religioso è stato peraltro “schierato” la scorsa estate sul Ladakh, nei pressi dei territori contesi. La spinosa questione della successione porterà ad avere probabilmente due figure nominate a capo del buddhismo tibetano. La prima sostenuta dal governo tibetano in esilio (e con ogni probabilità dall’India e dagli Stati Uniti), la seconda nominata dalla Cina. Un doppio Dalai Lama, con Pechino pronta a mettere nel mirino chiunque ospiti quello che nella sua prospettiva sarà un “impostore”. Una questione che rischia di alimentare le tensioni tra Cina e India. Un antipasto si è avuto negli scorsi mesi, quando Tenzin Gyatso ha nominato il decimo Khalkha Jetsun Dhampa, terza carica del buddhismo tibetano. Si tratta di un bambino di otto anni, nato negli Stati Uniti ma originario della Mongolia. Vero che il Tibet è ormai completamente integrato nella vita della Repubblica Popolare, ma non si può escludere che il delicato passaggio della più che probabile doppia nomina (scenario peraltro ammesso anche dal Presidente del governo tibetano in esilio, Penpa Tsering) porti a nuove tensioni anche nella regione autonoma. O che quantomeno Pechino intensifichi la presenza del suo apparato statale per presidiare quella fase. È prevedibile che i paesi buddhisti subiranno una forte pressione per scegliere quale leader seguire. Soprattutto quelli che finora hanno provato a mantenere una posizione equilibrata in politica estera, come la Mongolia.
Il ruolo del Nepal e del Bhutan
La partita sul quadrante himalayano comprende anche altri due attori: Nepal e Bhutan. Il primo con questioni territoriali aperte con l’India, il secondo con la Cina. A Kathmandu, dalla fine del 2022 c’è un governo guidato da Pushpa Kamal Dahal, meglio noto col nome da combattente Prachanda. Ex guerrigliere maoista, tempo fa ha definito l’India una forza “espansionistica”, accusandola di aver orchestrato la sua estromissione dal ruolo di premier nel 2008 e insinuando persino l’esistenza di un piano per ucciderlo. Il tutto dopo che l’anno scorso il governo precedente aveva rifiutato lo State Partnership Program, un accordo proposto da Washington che a Kathmandu si temeva potesse portare difficoltà nei rapporti con la Cina. Col suo ritorno da premier, però, Prachanda sta provando ad adottare una linea più equidistante. A dimostrarlo, una recente visita a Nuova Delhi, durante la quale ha incontrato Modi. Prachanda ha affermato che la sua visita ha ripristinato la fiducia smarrita con la leadership indiana. Ma il principale partito di opposizione nepalese, il CPN-UML, si è fortemente opposto alla proposta del Primo Ministro per risolvere la disputa sui confini nella regione di Kalapani, definendola contraria all’interesse nazionale. Insomma, tutt’altro che scontato che i tentativi di distensione funzionino o portino a risultati concreti.
Anche il sovrano del Bhutan, Jigme Khesar Namgyel Wangchuck, è stato di recente in India. Si è parlato, lontano dai microfoni, anche della disputa territoriale con Pechino. Una necessità per il Bhutan, che non ha relazioni diplomatiche ufficiali con la Repubblica Popolare e ha invece rapporti profondi con Nuova Delhi e il buddhismo tibetano, per ragioni storiche e religiose. Nell’ottobre 2021, il Bhutan e la Cina hanno firmato un memorandum d’intesa per una “tabella di marcia in tre fasi” per accelerare i colloqui sulla risoluzione dei confini. I colloqui si concentrano su due valli a nord del Bhutan e sull’area di Doklam, a ovest del Bhutan, vicino alla tripartizione con l’India, che è stata teatro di uno stallo tra le forze indiane e cinesi nel 2017. L’India è stata particolarmente attenta a qualsiasi possibilità di un “accordo di scambio” tra i due Paesi che potrebbe influire sulla sua sicurezza. Il confine conteso si snoda su una lunghezza di circa 470 chilometri. È da quasi 40 anni che i due governi conducono colloqui per arrivare a una soluzione, senza successo. Negli ultimi anni, il Bhutan sostiene che la Cina abbia adottato una postura più assertiva alla frontiera. Secondo Thimphu, la Cina avrebbe costruito circa 200 strutture, tra cui edifici a due piani, in sei diverse località a cavallo della labile frontiera. Recenti colloqui a Kunming sembravano aver sbloccato la situazione, ma qualsiasi accordo tra il Regno e Pechino pare debba passare anche per Nuova Delhi, che secondo la parte cinese starebbe cercando di rallentare il dialogo.
La sfida incrociata si intreccia anche con l’ambizione di Cina e India di ergersi a guida del cosiddetto Sud globale. Una partita che comincia dalle cime dell’Himalaya.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di Luglio/Settembre di eastwest
Puoi acquistare la rivista sul sito o abbonarti
Qui, d’altronde, si deciderà molto del bilanciamento regionale. Dopo che la guerra in Ucraina ha spinto Giappone, Corea del Sud e Filippine sempre più tra le braccia degli Stati Uniti, il posizionamento indiano è cruciale. Non a caso Joe Biden ha invitato Narendra Modi alla Casa Bianca a giugno, rafforzando la cooperazione in materia tecnologica e militare. Già lo scorso dicembre, per la prima volta, l’esercito indiano ha utilizzato le informazioni satellitari condivise dagli Stati Uniti per acquisire vantaggi strategici nella contesa con l’esercito cinese. E ha anche acquistato dei droni militari americani, che Pechino teme possano essere dispiegati proprio su questo quadrante.