Federico Nastasi intervista Tom Shannon, uomo chiave della diplomazia statunitense in America Latina
Tom Shannon è uno degli statunitensi che meglio conoscono l’America Latina. Ha trascorso 35 anni della sua vita nel Dipartimento di Stato del suo Paese, coprendo tutte le tappe del cursus honorum della diplomazia, fino a diventare sottosegretario di Stato agli Esteri e uno dei pochi funzionari a ricevere il prestigioso titolo di “ambasciatore di carriera”. Il suo percorso è cominciato a metà anni ’80 in Guatemala, poi Brasile e Venezuela; ha servito dieci segretari di stato e sei presidenti, da Reagan a Trump. È con quest’ultimo Presidente, nel 2018, che ha deciso di congedarsi dal servizio diplomatico, per ‘ragioni personali’, ha dichiarato alla stampa.
Oggi si dedica alle consulenze per una società privata, offre consigli sulla politica internazionale. In questa intervista, presenta una panoramica sui principali temi di politica estera degli Stati Uniti nella regione, da Cuba al Venezuela. E racconta del suo sogno: un triangolo transatlantico tra Stati Uniti, America Latina ed Europa, fatto di scambi economici e valori condivisi.
Cosa possiamo aspettarci dalla politica estera del Presidente Biden verso l’America latina?
Biden ha un’esperienza e una conoscenza dell’America Latina inedita per un Presidente degli Stati Uniti. Non solo per il suo lavoro nella commissione esteri del Senato, ma anche come vicepresidente, quando aveva nel suo portafoglio la politica estera nella regione. Ha svolto almeno 16 viaggi istituzionali e visitato quasi tutti i paesi. Nessuno deve spiegargli perché il Messico o il Centroamerica sono importanti nella vita quotidiana degli Stati Uniti. L’America Latina è già dentro l’agenda della politica estera di Biden. Oggi, con la gestione della crisi migratoria alla frontiera con il Messico per le provenienze dai paesi del Triángulo norte, cioè Honduras, Guatemala, El Salvador. Ma presto, nell’agenda entreranno anche Cuba, Venezuela e Nicaragua, tre nazioni guidate da governi socialisti. E poi si dovranno rinnovare le relazioni, soprattutto sul piano economico, con i grandi paesi del Cono Sud, Argentina e Brasile. Sullo sfondo si staglia la presenza cinese. Vedrete: la relazione Usa-America Latina non avrà le prime pagine nei giornali, ma per quanto riguarda i nostri interessi e i nostri valori, sarà fondamentale.
L’ombra cinese si allunga su tutta l’America Latina. Pechino è il primo partner commerciale di tutti i Paesi a Sud del Rio Grande. Ha erogato prestiti a molti paesi della regione e costruito ferrovie, autostrade, centrali nucleari, miniere e dighe in tutte le latitudini latinoamericane. Huawei fornisce i mercati degli smartphone e della tecnologia; vi sono basi militari cinesi in Patagonia. Anche il giardino di casa degli Usa è diventato terreno di contesa nella battaglia geopolitica con il dragone?
La presenza cinese nella regione è un riflesso della globalizzazione in questi paesi. E ciò è irreversibile: la Cina non si può escludere. Il punto è come si comporta Pechino nell’emisfero e come rispondono gli Stati Uniti. Noi abbiamo un vantaggio strategico: oltre un secolo di relazioni commerciali ed investimenti. Oggi la presenza delle imprese statunitensi in America Latina è legata ad attività economiche ad alto valore aggiunto, nella manifattura, nel settore scientifico, nei servizi. Non solo, come per la Cina, all’acquisto delle materie prime. E per i paesi latinoamericani che vogliono affermarsi nell’economia del XXI secolo, sono necessari la tecnologia e il finanziamento offerti dalle nostre imprese. Nella concorrenza con la Cina, dobbiamo approfittare di questo peculiare intreccio commercio-investimenti per guadagnare influenza politica nella regione.
Come giudica il ruolo e la politica dell’Unione Europea in America Latina, in particolare rispetto alla crisi venezuelana?
Gli Usa e l’Ue condividono una visione strategica e valoriale per l’America Latina. Dico di più: in un mondo perfetto, sogno un triangolo Usa, Europa e Sudamerica fatto di flussi commerciali, finanziari e fondato sui comuni valori della democrazia e dell’economia di mercato. Il commercio può essere uno strumento per costruire questo triangolo transatlantico, un modello vantaggioso per tutti i suoi membri e che può limitare la presenza cinese nella regione. Per quanto riguarda il Venezuela, l’Ue deve costruire la propria politica mediando tra paesi membri che hanno interessi diretti e altri che ne hanno molto meno. Finora ha svolto un ruolo importante, soprattutto per quanto riguarda i diritti umani e la democrazia. Ci sono state frizioni con gli Stati Uniti a guida Trump sull’utilizzo delle sanzioni, ma con la presidenza Biden si ridurranno le differenze e si potrà costruire una politica comune per risolvere la crisi di Caracas.
Lei conosce bene il Venezuela, dove è stato ambasciatore negli anni ’90, durante il primo governo Chavez e più di recente, nel 2016, come inviato del governo del suo paese. Sul piano politico, sembra si sia arenata l’iniziativa del governo ad-interim di Juan Guaidò, riconosciuto da molti Paesi europei e Stati Uniti ma criticato da parte dell’opposizione interna. Quale può essere la soluzione allo stallo venezuelano, per un Paese che continua a pagare costi alti in termini economici e umanitari e la cui crisi appare senza fine?
L’approccio degli Usa alla crisi di Caracas deve partire dal benessere del popolo venezuelano, benessere fisico, psicologico e politico. Per quanto riguarda la politica, mi riferisco alla possibilità di svolgere libere elezioni. E ciò, attualmente, è semplicemente impossibile. Il governo ad-interim di Juan Guaidó, ciò che rappresenta per l’opposizione, rimane la soluzione più percorribile e l’amministrazione Biden lo appoggerà. Ma, allo stesso tempo, gli Usa cominceranno a ricostruire una rete di relazioni multilaterali per supportare la transizione democratica e affrontare l’emergenza umanitaria. Quest’ultima è la vera priorità: si tratta di aprire canali per fare entrare medicinali e cibo. La comunità internazionale deve mostrare al popolo venezuelano che il piano umanitario è prioritario, spesso purtroppo scomparso dal dibattito politico quotidiano.
La sua carriera diplomatica è iniziata in Centroamerica. Dal “Mediterraneo Americano”, come è stato ribattezzato dagli studiosi di geopolitica statunitensi, si origina la crisi migratoria più grande degli ultimi decenni. Sono riprese le carovane di migranti che bussano alla frontiera sud degli Stati Uniti. Biden è accusato dai Repubblicani di aver alimentato le carovane con un “effetto chiamata”, mentre da sinistra lo criticano per le brutalità dei rimpatri forzati. Di recente, il dipartimento di stato statunitense ha nominato un inviato speciale per il Triángulo norte, per gestire i quattro miliardi di dollari di aiuti all’America Centrale come strategia di lungo termine per risolvere le crisi migratorie all’origine. Quale sarà l’atteggiamento di Biden rispetto a questo dossier?
Ho avuto l’onore di lavorare con Biden, quando tra il 2014 e il 2015, abbiamo assistito a una crisi simile a quella attuale, con l’arrivo di migliaia di minori non accompagnati e madri con bambini alla nostra frontiera sud. Ci trovammo impreparati e Biden ci lavorò molto tempo, sia con le agenzie Usa responsabili della frontiera, sia con il Messico e i paesi centroamericani, sia con le istituzioni multilaterali, come il Banco Interamericano di Sviluppo (IDB) e l’Organizzazione degli Stati Americani (OEA). Biden conosce bene il problema, sapeva che avrebbe affrontato qualcosa di simile una volta arrivato alla Casa Bianca. Si tratta di una crisi annunciata: le tendenze migratorie degli ultimi anni ci dicevano che sarebbe avvenuta presto, soprattutto considerando lo stato delle economie dei paesi del triangolo e il loro sistema sanitario. Ma sfortunatamente l’amministrazione Trump aveva cancellato tutto il sistema di assistenza e intervento per aiutare i paesi centroamericani a limitare l’esodo dei loro cittadini. Biden sta procedendo in modo umano ed intelligente. I minori non vengono più maltrattati e si sta tentando di proteggerli, ma allo stesso tempo di rafforzare la frontiera, cooperare con gli altri paesi, incluso il Messico, perché i migranti non partano. Questa crisi non è cominciata oggi e non finirà domattina, è un lavoro di lungo periodo.
Parliamo di Cuba: con Trump si è bruscamente interrotto il disgelo avviato da Obama. Sull’isola governa una generazione, nata dopo la rivoluzione del 1959, sta sorgendo un prototipo di classe media che avanza richieste di libertà economiche e di espressione, e si è avviato il superamento del sistema della doppia moneta. Come vede il futuro di Cuba e la relazione tra il suo paese e l’isola?
È un tema importante sia per la politica interna che estera degli Stati Uniti. In Florida, la comunità cubano-americana ha una voce importante, si è tradizionalmente dedicata alla libertà e ai diritti umani e spera che un giorno arrivi la transizione. Il nostro ruolo è definire come avverrà l’apertura politica. Biden, credo, procederà con cautela. Vorrebbe riaprire le comunicazioni, soprattutto per le famiglie residenti negli Stati Uniti con parenti a Cuba, facilitare le rimesse e gli invii di prodotti. Ma prima c’è un problema da risolvere nella relazione tra i nostri due governi. Mi riferisco agli attacchi sonici contro i nostri diplomatici (si riferisce a misteriosi attacchi di cui sono stati vittime i diplomatici statunitensi in Cina e a Cuba, che hanno sofferto problemi permanenti all’udito e alla memoria, causati da attacchi di microonde di energia, secondo un rapporto pubblicato dalla National Academy of Sciences, nda). Cuba nega le proprie responsabilità ma io conosco i nostri diplomatici, non è un’invenzione. Se Cuba vuole una nostra ambasciata che funzioni a pieno regime, deve assicurare sicurezza e integrità ai nostri diplomatici. C’è molto lavoro da fare per normalizzare i rapporti.
Biden ha chiarito la sua intenzione di subordinare la relazione con i Paesi sudamericani, specialmente quelli amazzonici, all’applicazione di politiche ambientali di preservazione del principale polmone del globo. Intanto, la foresta amazzonica brucia e si riduce. Lei è stato Ambasciatore in Brasile: come vede il futuro di quel grande Paese?
Il Brasile storicamente è un attore globale sui temi ambientali, fin dal 1992, quando Rio de Janeiro ospitò il primo Summit della Terra, promosso dalle Nazioni Unite. Con l’elezione di Jair Bolsonaro, il paese ha dato le spalle alle questioni ambientali, e grazie al supporto di Trump ha potuto ignorare quei paesi che chiedevano conto della deforestazione in Amazzonia. Oggi questo supporto è caduto e il ruolo di Biden, ed in particolare del suo inviato speciale per il clima, John Kerry, sarà convincere il Brasile a riacquisire il suo ruolo mondiale positivo nei dialoghi mondiali.
Federico Nastasi intervista Tom Shannon, uomo chiave della diplomazia statunitense in America Latina
Tom Shannon è uno degli statunitensi che meglio conoscono l’America Latina. Ha trascorso 35 anni della sua vita nel Dipartimento di Stato del suo Paese, coprendo tutte le tappe del cursus honorum della diplomazia, fino a diventare sottosegretario di Stato agli Esteri e uno dei pochi funzionari a ricevere il prestigioso titolo di “ambasciatore di carriera”. Il suo percorso è cominciato a metà anni ’80 in Guatemala, poi Brasile e Venezuela; ha servito dieci segretari di stato e sei presidenti, da Reagan a Trump. È con quest’ultimo Presidente, nel 2018, che ha deciso di congedarsi dal servizio diplomatico, per ‘ragioni personali’, ha dichiarato alla stampa.
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