Denuncia a Israele e alle società del settore energetico, tra cui ENI, per l’esplorazione dei giacimenti di gas nello spazio di mare davanti alla Striscia di Gaza. Per i legali, l’emissione della gara da parte del Ministero dell’Energia israeliano e la concessione di licenze violano il diritto internazionale.
L’ENI e altre società del settore energetico, hanno ricevuto una diffida da uno studio legale che difende alcune Ngo palestinesi, d’intraprendere attività di esplorazione nelle zone marittime dinanzi alla striscia di Gaza.
I giacimenti sono stati scoperti per la prima volta nel 1999 nelle acque territoriali palestinesi e sono stati a lungo visti come un importante trampolino di lancio verso l’indipendenza energetica palestinese, ma sono rimasti inutilizzati principalmente a causa delle obiezioni e degli ostacoli posti da Israele.
Nel novembre 1999 era stato firmato un contratto di 25 anni per l’esplorazione di gas e lo sviluppo di giacimenti di gas tra il British Gas Group (Bg) e il Pif palestinese, il fondo di investimento di Ramallah. Bg Group si ritirò poi dal progetto nel 2016 cedendolo a Shell, che a sua volta si è ritirata dall’accordo nel 2018. Nel 2021, l’Autorità Palestinese ha firmato un memorandum d’intesa con l’Egitto per sviluppare il giacimento di gas di Gaza e le infrastrutture necessarie.
L’azienda petrolifera italiana, insieme alla inglese Dana Petroleum (controllata dalla South Korea National Petroleum Company) e Ratio Petroleum (una società israeliana) hanno ottenuto lo scorso 29 ottobre dal Ministero dell’Energia israeliano una licenza per esplorare la ricerca di gas naturale nello spazio di mare antistante la Striscia di Gaza. Il progetto rientra nel quarto round di offerte offshore, denominato Obr4, lanciato dal ministero israeliano nel 2022 e riguarda l’esplorazione della zona G.
Questa è un’area il cui 62% rientra nei confini marittimi dichiarati dallo Stato di Palestina nel 2019, “in conformità con le disposizioni della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) del 1982, di cui la Palestina è firmataria”, come si legge nel comunicato delle Ngo che si sono rivolte allo studio legale americano Foley Hoag LLP. Israele non fa parte dell’Unclos ma ha risposto alle obiezioni sostenendo che, poiché non riconosce la Palestina come stato sovrano, la stessa non può dichiarare i propri confini marittimi.
La questione era già stata avanzata dalle organizzazioni nel settembre del 2019, ma il governo israeliano ha ribadito la sua posizione, secondo la quale, per principio consolidato, solo gli Stati sovrani hanno il diritto alle zone marittime, compresi i mari territoriali e le zone economiche esclusive, nonché di dichiarare i confini marittimi. La cosa, secondo i legali, è in contrasto con il diritto internazionale.
In un comunicato del giugno scorso dell’ufficio del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, si legge che il progetto, che si localizzerebbe a 36 chilometri dalla costa di Gaza, rientra nel quadro dei negoziati in corso all’epoca tra Israele, Egitto e Autorità nazionale palestinese. Nel comunicato però veniva precisato che i progressi sarebbero dipesi dalle azioni necessarie per “preservare la sicurezza dello Stato di Israele e le esigenze diplomatiche”.
A maggio la tv israeliana Channel 13 aveva riferito che il governo era in trattative segrete con l’Autorità palestinese per estrarre gas dal giacimento al largo della costa della Striscia di Gaza, con l’approvazione di Netanyahu e del ministro della Difesa Yoav Gallant, aggiungendo che i colloqui erano ripresi come parte del processo politico e di sicurezza iniziato di recente tra Israele e l’Autorità palestinese sotto la mediazione degli Stati Uniti.
L’Autorità nazionale palestinese, attraverso il suo Fondo di Investimento (Pif) avrebbe guadagnato il 27,5% dei profitti dal giacimento, mentre la palestinese Consolidated Contractors Company, partner del Pif, avrebbe ottenuto un altro 27,5%. Il restante 45% sarebbe andato alla Egyptian Natural Gas Holding Company, che dovrebbe gestire il progetto. Secondo alcuni analisti il progetto potrebbe dare respiro all’economica palestinese, allentando nel tempo le tensioni tra Israele e Palestina. Ma con la guerra a Gaza, tutto è in stand by.
Le Ngo battono sulla questione della proprietà dell’area, visto che per il diritto internazionale, Israele è potenza occupante della Palestina, e controlla le sue aree marittime. La striscia di Gaza rientra in questa occupazione. Per i legali, l’emissione della gara (Israele ha pubblicato anche bandi per zone H ed E che pure inglobano aree marittime palestinesi) e la concessione delle licenze, violano anche il diritto internazionale umanitario, perché realizzate secondo la legge interna israeliana, annettendo così “de facto e de jure” delle aree marittime palestinesi.
Le Ngo Adalah, Al Haq, Al Mezan e Pchr, hanno scritto pochi giorni fa al Ministro dell’Energia israeliano, chiedendo di revocare gare e licenze e di bloccare lo sfruttamento delle aree palestinesi, ricordando che “l’esplorazione e lo sfruttamento del gas nelle aree marittime della Palestina violano palesemente il diritto fondamentale del popolo palestinese all’autodeterminazione, che comprende la gestione delle sue risorse naturali”. Hanno anche notificato alle compagnie petrolifere, tra le quali l’ENI, che il procedere nell’esplorazione li rende complici di saccheggio e quindi di crimini di guerra che, considerando la causa in corso dinanzi alla Corte internazionale di Giustizia dell’Aja, potrebbe tirarli dentro.
L’ENI e altre società del settore energetico, hanno ricevuto una diffida da uno studio legale che difende alcune Ngo palestinesi, d’intraprendere attività di esplorazione nelle zone marittime dinanzi alla striscia di Gaza.
I giacimenti sono stati scoperti per la prima volta nel 1999 nelle acque territoriali palestinesi e sono stati a lungo visti come un importante trampolino di lancio verso l’indipendenza energetica palestinese, ma sono rimasti inutilizzati principalmente a causa delle obiezioni e degli ostacoli posti da Israele.