Senza la Ue, il Regno Unito deve trovarsi un nuovo ruolo e nuovi partner per il commercio e le sfide globali. E rimangono le ambizioni imperialistiche
Il ritorno dell’Anglosfera. Quante volte abbiamo sentito pronunciare questa frase dopo la vittoria del Leave nel referendum per la Brexit del giugno 2016, seguita, a pochi mesi di distanza, da quella di Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca. Ma quello che viene propinato dai brexiteer come un grande progetto per il futuro neoimperialista del Regno Unito, che libero dai vincoli europei potrà tornare una grande potenza (queste, almeno, sono le loro promesse) rischia di scontrarsi con la dura realtà. Una realtà che ci restituisce un Regno Unito diventato dopo la Seconda guerra mondiale una media potenza, anche per volontà degli Stati Uniti. Che probabilmente oggi preferirebbero, a un nuovo impero britannico, un Regno Unito cinquantunesimo Stato della federazione. È un’evidente provocazione ma con le difficoltà di un accordo per le future relazioni con l’Unione Europea, a Londra potrebbe non rimanere alternativa diversa da presentarsi a Washington con il cappello in mano.
Partiamo dalla definizione di Anglosfera. Si tratta di una dimensione geopolitica basata sulla lingua inglese e che ha nella comunità Five Eyes per la condivisione dell’intelligence il suo esempio più importante. Ne fanno parte gli Stati Uniti, il Regno Unito e le ex British nations del Commonwealth bianco − Australia, Nuova Zelanda e Canada −, i Paesi che condividono una cultura anglosassone e protestante. Londra si vede di nuovo nell’Anglosfera, ma con la Brexit rischia di perdere il prezioso ruolo strategico che Washington le aveva affidato dopo la Seconda guerra mondiale, quella di avamposto statunitense nel Vecchio continente.
L’Anglosfera è stata in primo luogo una necessità di comunicazione per i brexiteer, una base di partenza per il ritrovato imperialismo britannico. Perché in fin dei conti, come anche è emerso con evidenza in due anni e mezzo di negoziati, la Brexit più che europea è una questione britannica. Anzi, inglese. È una rivolta dalle e delle campagne contro il centro, contro Londra, una città che, con più abitanti di Scozia e Irlanda del Nord messi assieme e con un terzo del Prodotto interno nazionale, ha perso contatto con l’Inghilterra. Londra pensa alla finanza, il resto del Paese ha sogni di potenza.
La riscoperta dell’impero attraverso le colonie e nuovi ambiziosi programmi per la Marina (soprattutto nel Pacifico, teatro degli scontri tra Stati Uniti e Cina) nasce però da bisogni che rientrano tutti in un grande progetto che la classe dirigente del Partito conservatore britannico si è intestato: salvare il Regno Unito attraverso la Brexit. Sono trent’anni che le discussioni sul rapporto con l’Unione Europea lacerano la destra britannica. Nessuno nel Regno Unito è europeista nel senso che noi dall’altra parte della Manica diamo a questo termine. Ma c’è chi è più euroscettico e chi lo è meno. Così, la faida iniziata con Margaret Thatcher e John Major è proseguita fino allo scontro tra David Cameron e Boris Johnson con l’inconcludente interregno di Theresa May. E probabilmente non si arresterà qui. Perché la Brexit doveva essere per Cameron il modo per sbarazzarsi dell’ala più dura del suo partito. Ma l’ex premier ha perso la sua scommessa.
Promettere l’impero, inoltre, è funzionale a un’altra missione del Partito conservatore: ridare unità al Regno davanti a quei sentimenti regionalisti, spesso alimentati perfino dall’Unione europea, che hanno avuto nel referendum scozzese del 2014 il loro punto più alto. Come ha spiegato pochi mesi fa a Eastwest Fintan O’Toole, uno dei più autorevoli opinionisti irlandesi, queste spinte centrifughe sono sempre state contenute dall’Impero che ha reso la britannicità “una costruzione potentissima” fondata su tre pilastri − l’eccezionalismo britannico, la rivoluzione industriale e la religione protestante − che però sono stati “abbattuti nel dopoguerra, con l‘unica eccezione della guerra delle Falklands, che è l’ultima avventura imperialista, di riappropriazione simbolica di un ruolo perduto”.
Per compattare il Paese − ma anche regolare questioni interne e coprire fallimenti politici − e riscattarsi quindi da media potenza, una dimensione accettata perfino da Londra dopo il fallimento a Suez nel 1956, serviva un nemico esterno: l’Unione Europea fa al caso. E dare una grande visione internazionale dovrebbe servire anche a ricompattare un Paese che, dopo il crollo dei tre pilastri sopracitati, vive una crisi d’identità incompatibile con l’esistenza di una coscienza nazionale. Non c’è niente di male in questo, come ha spiegato O’Toole, fino a quando non si cade negli estremismi. “Il nazionalismo, se non può più essere imperialista, diventa anti-imperialista, e quindi ha bisogno di individuare un oppressore”, spiega l’editorialista dell’Irish Times. “Qui entra in ballo il meccanismo della propaganda usata da certi politici e certi media: puntare il dito contro l’Europa, attribuirle ogni colpa. È un gioco che, come abbiamo visto, è sfuggito di mano ed è diventato tossico per tutto il Paese”.
Ecco allora che in una questione tutta britannica − se non addirittura, come già detto, inglese − spunta il nemico, l’invasione, quello che vuole sbarcare sulle coste del Sud dell’Inghilterra, conquistare il Regno e imporre la sua burocrazia: l’Unione Europea, percepita come un regime al pari del Nazismo da un’importante fetta dell’opinione pubblica e degli intellettuali britannici. Così gli europeisti sono per i brexiteer dei remoaner, cioè dei remainer che si lamentano (il verbo to moan significa lamentarsi). Se l’idea dell’impero è tramontata geopoliticamente da più di mezzo secolo ormai, rimane ancora viva la convinzione di un eccezionalismo britannico oggi realizzabile con la Brexit e su un nuovo asse, diverso da quello europeo, con gli Stati Uniti e le ex British nations.
Ma l’idea di impero si scontra con la realtà e gli obiettivi dello storico alleato, gli Stati Uniti, intenzionati sì a cambiare l’Unione Europea a tradizione franco-tedesca ma non così convinti di voler perdere la loro testa di ponte. C’è poi la questione dell’accordo di libero scambio con il Regno Unito post Brexit. Il mondo repubblicano e trumpiano si dice pronto già da tempo. Invece, prima di promettere patti, il mondo democratico statunitense attende di vedere come verrà risolta la questione del confine tra la Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord, con gli irlandesi che rappresentano un’influente fetta dell’elettorato della sinistra statunitense.
La fanta-geopolitica ci suggerisce che la sola Inghilterra sarebbe lo Stato più popoloso degli Stati Uniti nel caso di ingresso del Regno Unito nella federazione: con i suoi quasi 56 milioni di abitanti staccherebbe di 16 milioni di unità la California. Ma il Regno Unito sarebbe il cinquantesimo Stato su 51 per prodotto interno lordo pro capite lasciandosi alle spalle il solo Mississippi.
Come premesso è fanta-geopolitica. Ma senza l’Unione Europea il Regno Unito ha bisogno di un nuovo partner, sia per quanto riguarda il commercio sia per quanto riguarda le grandi sfide globali. A Londra si guarda a Washington, ma forse nella City la convinzione di essere eccezionali a volta acceca: sembra mancare alla politica britannica la consapevolezza che l’era imperiale è finita, che il Regno Unito non avrà più sul palcoscenico internazionale il peso avuto prima della Guerra fredda e che i nazionalismi sono diffusi ormai un po’ ovunque, tanto da rendere difficile la costruzione di un’Anglosfera partendo da un solo elemento, cioè la condivisione dell’idioma.
Visto che il Regno Unito non diventerà il cinquantunesimo Stato della federazione a stelle e strisce, la politica britannica dovrebbe impiegare questi anni di transizione della Brexit per evitare di rendere il Paese una colonia dell’ex colonia. Si è parlato spesso di un modello svizzero per i rapporti futuri tra Regno Unito e Unione Europea. Ma quell’esempio potrebbe ispirare ai politici britannici anche altro: “fare la Svizzera”, diplomaticamente e finanziariamente parlando, nella guerra commerciale e tecnologica tra Stati Uniti e Cina, grazie ai buoni rapporti con i primi e all’apertura alla seconda iniziata nell’era Cameron, potrebbe garantire a Londra una nuova centralità sul palcoscenico internazionale. A patto però di rinunciare alle ambizioni imperialistiche ormai fuori tempo.
@GabrieleCarrer
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di novembre/dicembre di eastwest.
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Senza la Ue, il Regno Unito deve trovarsi un nuovo ruolo e nuovi partner per il commercio e le sfide globali. E rimangono le ambizioni imperialistiche
Il ritorno dell’Anglosfera. Quante volte abbiamo sentito pronunciare questa frase dopo la vittoria del Leave nel referendum per la Brexit del giugno 2016, seguita, a pochi mesi di distanza, da quella di Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca. Ma quello che viene propinato dai brexiteer come un grande progetto per il futuro neoimperialista del Regno Unito, che libero dai vincoli europei potrà tornare una grande potenza (queste, almeno, sono le loro promesse) rischia di scontrarsi con la dura realtà. Una realtà che ci restituisce un Regno Unito diventato dopo la Seconda guerra mondiale una media potenza, anche per volontà degli Stati Uniti. Che probabilmente oggi preferirebbero, a un nuovo impero britannico, un Regno Unito cinquantunesimo Stato della federazione. È un’evidente provocazione ma con le difficoltà di un accordo per le future relazioni con l’Unione Europea, a Londra potrebbe non rimanere alternativa diversa da presentarsi a Washington con il cappello in mano.