Fintan ‘O Toole: Brexit e la politica del dolore. Intervista esclusiva per eastwest
Brexit non ha a che fare con l’Europa, è lo sfogo sado-populista dell’irrisolta “identità britannica”
Brexit non ha a che fare con l’Europa, è lo sfogo sado-populista dell’irrisolta “identità britannica”
Fintan O’Toole è uno dei più autorevoli opinionisti irlandesi. Vincitore dell’Orwell Prize for Journalism nel 2017, dalle pagine dell’Irish Times commenta regolarmente gli sviluppi della Brexit.
Il suo ultimo saggio Heroic Failure. Brexit and the politics of pain, è una psicopatologia delle ragioni che hanno portato all’esito del referendum del 2016 e un’analisi non convenzionale della cultura e della politica britanniche.
O’Toole, Lei è un osservatore attentissimo della sfera britannica, dalla prospettiva privilegiata di Dublino, contemporaneamente vicina e distaccata. Il risultato del referendum del giugno 2016 l’ha sorpresa?
Il mio istinto mi diceva che in caso di referendum sull’Europa avrebbe prevalso il Leave perché da tempo vedo agitarsi nel Regno Unito questioni irrisolte di identità e appartenenza. Osservatori, media, politici non le hanno sapute interpretare, ma i segni premonitori c’erano tutti, non solo nella rabbia e nel risentimento di un’intera categoria di persone lasciate indietro dalla società ma anche a livello di identità culturale e nazionale, con un graduale riaffermarsi dell’identità inglese rispetto a quella britannica, pan-insulare. L’Inghilterra è stata il primo Stato-nazione funzionante in senso moderno, caratterizzato da un forte orgoglio nazionale, una propria lingua, propri costumi e proprie leggi ben prima di altri Stati europei. Nel corso del tempo, questa identità è stata assorbita da due costruzioni politiche, economiche e culturali più ampie: da una parte l’impero, dall’altra l’Unione con Scozia, Galles e Irlanda. L’impero come sappiamo si è dissolto, ma anche l’Unione, dagli anni Novanta, ha cominciato un processo di autonomia, nel 1997 con la creazione del Parlamento scozzese e, l’anno dopo, con gli accordi di pace del Good Friday Agreement a Belfast. A questi fattori se ne sono sommati altri molto rilevanti. Quelli economici in primis: la recessione del 2008, con la scelta del Governo britannico di adottare pesanti politiche di austerità che hanno colpito la parte della popolazione già in difficoltà. E la seconda, da non sottovalutare, è l’esito dell’impegno militare in Iraq e Afghanistan, dove le truppe britanniche sono state sconfitte e salvate dall’intervento americano. La britishness in qualche modo è legata all’idea di potere militare, ma quelle sono state campagne molto avversate dall’opinione pubblica, imposte dall’alto. L’arrivo dei corpi dei soldati nelle bodybag, la sconfitta…. Sono elementi che hanno esposto e lacerato uno dei valori fondanti dell’identità dell’unione. Sommovimenti ed emozioni che hanno fatto riemergere l’identità inglese, in opposizione a quella britannica. Brexit è essenzialmente un fenomeno inglese. Pensi solo ai risultati del censimento del 2011: in Inghilterra, di fronte alla scelta se identificarsi come “Britannico”, “Inglese e Britannico” o “solo Inglese” la stragrande maggioranza degli intervistati rispose “solo Inglese”. E alla domanda: è giusto che sia il Parlamento Britannico a fare le leggi per l’Inghilterra? Solo il 24% della popolazione inglese rispose di sì. Sono segnali straordinari, che avrebbero dovuto allarmare. Ma non sono stati colti perché questa istanza di riconoscimento, benché ampia, non aveva una rappresentanza politica…
C’era l’UKIP…
Ma UKIP sta per United Kingdom Independence Party. Include quindi il concetto di una Unione da cui, a me pare, che la coscienza inglese si sia progressivamente distaccata. Il nazionalismo inglese è cresciuto senza rappresentanza, senza essere nemmeno nominato o riconosciuto come tale, e il referendum del giugno 2016 è diventata l’occasione per manifestare questa frustrazione. C’è dell’ironia in questo perché Brexit non ha veramente a che fare con l’Europa, è un canale di sfogo di emozioni e insoddisfazioni domestiche e non risolverà affatto le ragioni che l’hanno provocata.
Ma di cosa è fatta l’identità Britannica?
Domanda cruciale: è un’identità creata a tavolino, artificiale. Gli Inglesi non la volevano, gli Scozzesi anche meno. È un matrimonio di convenienza nato da una considerazione: per realizzare l’Impero era necessaria la stabilità, quindi il controllo delle isole britanniche. L’espansione non è possibile se ad ogni occasione gli Scozzesi si alleano con i Francesi contro gli Inglesi e gli Irlandesi, con i nemici Spagnoli. Queste spinte centrifughe naturalmente vengono contenute dall’Impero, e la britannicità diventa una costruzione potentissima e fondata su tre principi: l’”eccezionalismo” britannico, quindi lo stabilirsi di un senso di superiorità; la rivoluzione industriale, con la predominanza economica e culturale che ne è derivata, e naturalmente la religione protestante. Questi tre pilastri vengono abbattuti nel dopoguerra, con l‘unica eccezione della guerra delle Falklands, che è l’ultima avventura imperialista, di riappropriazione simbolica di un ruolo perduto. Ma per il resto, dagli anni Cinquanta il Paese attraversa tre processi fondamentali: il dissolversi dell’Impero; un traumatico processo di de-industralizzazione, portato a termine da Margaret Thatcher, che condanna e desertifica intere regioni; la crisi del protestantesimo, che da tempo ha perso la sua funzione di collante nazionale, con l’Inghilterra in particolare, ormai una delle aree meno religiose del mondo sviluppato. Sono tre fattori fondanti: una volta dissolti, non deve sorprendere che ci sia una crisi di identità. Naturalmente non c’è niente di male, in sé, nell’esistenza di una coscienza nazionale Inglese, nel desiderio di immaginare nuovamente l’Inghilterra come una comunità politica. Il problema è che questa esigenza si esprime o con manifestazioni razziste e xenofobiche o nel tifo sportivo, con i tifosi che già dagli anni Novanta portano in campo la bandiera con la croce di San Giorgio invece dell’Union Jack. Centinaia di migliaia di persone in cerca di un’identità nazionale. Ma il nazionalismo, se non può piú essere imperialista, diventa anti-imperialista, e quindi ha bisogno di individuare un oppressore. Qui entra in ballo il meccanismo della propaganda usata da certi politici e certi media: puntare il dito contro l’Europa, attribuirle ogni colpa. È un gioco che, come abbiamo visto, è sfuggito di mano ed è diventato tossico per tutto il Paese.
Nel suo libro lei approfondisce le ragioni dell’ostilità inglese all’idea di Europa unita. Il primo capitolo è intitolato “I piaceri dell’autocommiserazione”.
L’Inghilterra non solo si commisera, ma si definisce attraverso l’autocommiserazione. È facile associare l’autocommiserazione a una bassa autostima, ma in realtà si tratta di una particolare forma di alta considerazione di sé. Più è alta la nostra considerazione di noi stessi, più ci commiseriamo se non otteniamo quello che riteniamo ci spetti di diritto. Nel nuovo nazionalismo inglese vedo sia un senso di superiorità che una rivendicazione. Brexit è alimentata da una parte da fantasie neo-imperialiste, dall’altra da un senso di rivolta verso quell’immaginario oppressore tanto necessario alla costruzione del nazionalismo.
L’Europa?
Si, ma non l’Unione Europea come conquista democratica dopo il trauma della guerra. In una certa Inghilterra la Ue è piuttosto la reincarnazione del Nazismo. Il sogno nazista di dominio europeo realizzato in forma burocratica, non a caso dominato dalla Germania. Negli Anni Cinquanta e Sessanta la Gran Bretagna è un paese uscito vittorioso dalla guerra ma impoverito, ridimensionato, depresso, che vede i paesi sconfitti, Italia, Francia e soprattutto Germania riprendersi, diventare più forti, dare vita ad una creatura politica, l’Unione, che gli Inglesi, compresi gli intellettuali, non capiscono e non sono interessati a capire. Questa retorica è ancora viva per una parte della popolazione e dei media di destra, che usano tuttora una terminologia bellica, di resistenza all’oppressore, nel parlare di Unione Europea. In questa logica gli Eurofili, oggi i Remainers, sono traditori, collaborazionisti con il nemico. A questa percezione ostile si somma una seconda fantasia: l’idea che la naturale superiorità britannica possa riaffermarsi in una nuova unione, non con l’Europa, ma con gli altri paesi anglofoni, in una ricostituzione dell’Impero perduto. È una fantasia che Brexit ha riportato in auge: il Regno Unito finalmente libero di tornare grande, di ritrovare il suo posto nell’Anglo-sfera, purché esca dalla Euro-sfera. L’eredità dell’impero, che tutti pensavamo sepolta già 30 o 40 anni fa, invece era rimasta viva in rivoli sotterranei. Ci sono alcune caratteristiche dell’Impero che ancora agiscono nella psiche nazionale: per esempio la convinzione che il Regno Unito sia un paese eccezionale, che abbia un diritto naturale ad essere al centro del mondo, che non possa accontentarsi di essere una qualsiasi nazione prospera fra nazioni prospere. Non è abbastanza. Questo senso di superiorità, questa visione irrealistica di sé si sta rivelando pericolosa, perché impedisce al paese di vedersi come è davvero e di agire nel suo vero interesse, che è senza dubbio quello di restare nell’Unione Europea.
Ma come è stato possibile che l’Europa sia diventata il capro espiatorio di tutte queste frustrazioni?
Perché una parte del Paese è ancora dominata da una classe dirigente cinica e irresponsabile che ha usato l’Europa come foglia di fico per la propria incapacità, o inesistente volontà, di risolvere le contraddizioni, il classismo e le spaventose disuguaglianze economiche e sociali. L’esempio è Boris Johnson, un uomo completamente, straordinariamente distaccato da qualsiasi senso della realtà. Johnson è corresponsabile della creazione di questa propaganda negativa, perché quando era corrispondente del Times a Bruxelles negli anni Novanta ha fondato questo sottogenere giornalistico dell’articolo euroscettico o euro-critico, che si è poi tanto diffuso. Johnson ha parlato del senso di potere che gli dava constatare l’effetto delle sue corrispondenze sul partito conservatore. “Ogni cosa scrivessi da Bruxelles aveva l’effetto di pietre lanciate in un giardino, e sentivo il rumore dei vetri infranti della serra che si era rotta in Inghilterra, perché qualsiasi cosa scrivessi aveva un effetto esplosivo sul partito, e questi mi dava uno strano senso di potere”. È un uomo che ha avuto un’enorme influenza nel successo della campagna per il Leave, il che dice molto su un altro aspetto del carattere inglese: la venerazione per lo humour. A Johnson viene perdonato moltissimo perché percepito come un clown, il cui senso dell’umorismo, l’abitudine di prendere tutto poco seriamente lo mette al riparo dalle conseguenze. È un paradosso tutto inglese, essere presi sul serio perché non ci si prende sul serio. Ed è proprio questa la ragione per cui il progetto Brexit è fallito nel momento in cui ha vinto: perché non era un progetto reale, nessuno dei suoi promotori pensava davvero che vincesse e infatti quando ha vinto se ne sono lavati le mani. Era un gioco, una performance, uno sberleffo. Quando ha smesso di essere un gioco e l’uscita si è fatta seria è diventato impossibile affrontarla, perché era un’invenzione. Non ci sono torti da raddrizzare, non c’è alcun oppressore e di conseguenza non ci può essere una vera rivolta.
Com’è possibile allora che Boris Johnson continui a godere di tanto credito?
Naturalmente a proteggerlo da tutto c’è l’elemento di classe, Eton e Oxford, l’elite, il network a cui appartiene, che si fonda sull’arroganza e l’irresponsabilità, l’essere sempre al di sopra delle conseguenze delle proprie azioni…
Ma come si salda l’alleanza per Brexit che vediamo all’opera fra la upper class dei Johnson e la working class delle Midlands?
Quella alleanza è il grande mistero di Brexit: come possono avere lo stesso obiettivo un Etoniano e un’infermiera di Nottingham? La mia teoria è che ad avvicinarli siano due cose: la prima è il nazionalismo. Siamo Inglesi al di là delle differenze di classe. E la seconda è il punk, che è stato il più potente e originale movimento culturale inglese dei tempi moderni. Il 60% dei Britannici, uomini e donne, fra i 50 e i 64 anni hanno votato Leave. Sono quelli cresciuti con l’idea punk del masochismo come estrema rivolta, della costrizione come libertà. Perfino l’etoniano Boris Johnson ha usato London Calling dei Clash come inno della sua campagna per l’elezione a sindaco di Londra, e la sua immagine di gettare pietre contro una serra è l’equivalente upper class del working class Johnny Rotten che sputa ai passanti “perché sono stupidi”. È la gioia pura di mandare tutto a puttane per il gusto di farlo. È dall’iconografia punk che discende anche l’immagine dei Bad Boys, che ostentano Nigel Farage e il suo grande finanziatore Arron Banks: la costola politica dei Sex Pistols, perché c’è un’affinità fra l’anarchia dei Tory, che possono permettersi di essere indulgenti con se stessi, e il nichilismo senza speranza del punk popolare. La working class è divertita dall’anarchismo di certi Tory, che li allontana dall’immagine tradizionale della ruling class: è lo stesso meccanismo che ha funzionato per Trump negli Stati Uniti, dove ha vinto la seduzione del dilettantismo contrapposto al detestato professionismo della politica. Brexit viene spiegata ricorrendo alle categorie del populismo, ma a me pare che abbia più a che fare con il sado-populismo, che Timothy Snyder in The Road to Unfreedom descrive come la disponibilità della gente a farsi del male pur di infliggere una sofferenza maggiore ai propri nemici.
Dal punto di vista del carattere nazionale, che cosa rappresenta Theresa May e cosa la spinge a resistere a tutto. La fede? Il senso del dovere? L’ambizione? L’attaccamento al potere?
C’è certamente l’attrazione per il potere; è una politica di professione che desiderava essere Primo Ministro fin da bambina e a questa spinta si somma il senso del dovere della figlia del vicario. Ma penso che l’ambizione, da sola, non sarebbe stata sufficiente a tenerla in piedi malgrado tutti i colpi che ha preso. Mi sembra un caso esemplare di un’altro elemento molto Inglese: l’idea che il carattere si mostri davvero solo in circostanze estreme, disastrose.
L’heroic failure che da il titolo al suo saggio?
Sì, e che è un tema ricorrente nella letteratura e nella cultura inglese: il vero carattere non si vede in circostanze normali ma solo quando stai per morire, circondato dai nemici, e i tuoi compagni sono allo stremo o ti hanno abbandonato… Mi pare che sia questa suggestione a spingere Theresa May a perseverare e che sia anche alla radice di molta dell’ammirazione che suscita malgrado tutto.
Come se ne esce?
La situazione ora è così evidentemente assurda, l’impasse così insolubile, che l’unica soluzione mi pare un secondo referendum. Una revoca dell’art. 50 sarebbe una umiliazione troppo grande, una soft Brexit spaccherebbe il partito conservatore, come un no deal che, in più, avrebbe conseguenze disastrose non solo sull’economia ma anche sull’unità del Paese, perché mi pare inevitabile che prima la Scozia e poi l’Irlanda del Nord finiscano per rivendicare l’indipendenza… Da un secondo referendum non mi aspetto un risultato chiarissimo, ma penso che porterebbe a invertire, anche di poco, il risultato del primo, non solo per ragioni demografiche, con i giovani più filoeuropei degli anziani, ma anche perché il sogno di Brexit ha perso in parte il suo slancio e il suo incanto di fronte alla realtà. Ma è cruciale che una seconda consultazione sia formulata nel rispetto di chi ha votato Leave, che sia chiaro che il loro grido è stato ascoltato. Bisogna che la loro legittima richiesta di attenzione si traduca in politiche di ridistribuzione della ricchezza e di riduzione della disuguaglianza, che è la vera ragione della Brexit.
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di maggio/giugno di eastwest.
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