L’italia fatica ad adattarsi all’euro, diversamente dagli altri Paesi dell’eurozona. Si arriverà a un definitivo processo di integrazione per l’Europa?
Il voto europeo di fine maggio ha messo in luce l’emarginazione dell’Italia rispetto ai suoi partner tradizionali. In nessun altro grande Paese europeo l’euroscetticismo ha avuto la meglio come nella penisola. Il 40% dell’elettorato italiano ha optato per un partito nazionalista, la Lega di Matteo Salvini o Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. A nord delle Alpi, l’ondata euroscettica è fallita. È vero che in Germania la democrazia cristiana della cancelliera Angela Merkel ha messo a segno il risultato più deludente dal 1949, ma a beneficio principalmente dei Verdi non della destra radicale. Alternative für Deutschland ha ottenuto appena il 10% dei voti. In Spagna, il movimento neofranchista Vox si è fermato al 6%, senza riuscire a replicare il successo in Andalusia del dicembre scorso. L’unico Paese ambivalente tra i grandi d’Europa è la Francia. Il Rassemblement National ha ricevuto il 23,5% dei voti, superando la République en Marche del Presidente francese Emmanuel Macron. Il dato è significativo, ma è più una conferma che una novità. Da anni ormai il Paese deve fare i conti con un partito dal nazionalismo antico ed endemico che pesca voti tra le vittime della globalizzazione e tra i delusi della decolonizzazione. Nel mirino non vi è tanto l’euro, quanto il ricordo orgoglioso e nostalgico di una Francia ormai trascorsa.
L’isolamento italiano rispetto ai suoi vicini non è tanto politico quanto probabilmente culturale. Mi spiego meglio. A differenza degli altri Paesi della zona euro, l’Italia stenta a venti anni dall’introduzione della moneta unica ad adattarsi alle regole di una unione monetaria. Ha fallito in gran parte la modernizzazione imposta dalla partecipazione alla zona euro. Il Paese è certamente tra i più importanti esportatori del mondo, ma si è rifiutato cocciutamente di ridurre il debito pubblico, di liberalizzare la propria economia, di abbandonare l’impianto corporativo della società nazionale. Più che altrove l’euroscetticismo in Italia è reazionario. Gli italiani vedono nelle regole della moneta unica e nelle esigenze del patto di stabilità una minaccia a un assetto sociale che nei decenni ha consentito una redistribuzione della ricchezza soprattutto attraverso il volano del debito pubblico. Poco importa se oggi proprio il debito pubblico freni l’economia e aumenti il peso fiscale, se il clientelismo mini la libera iniziativa, se il familismo si riveli costoso e inefficiente: una fetta importante della società italiana continua a rifiutare una modernizzazione del Paese. Mentiremmo a noi stessi se attribuissimo l’emigrazione di migliaia di giovani a crescenti preoccupazioni per la situazione politica. È possibile che alcuni di loro decidano di lasciare il Paese per paura di una deriva autoritaria o di una crisi debitoria; ma molti lasciano il Paese perché il sistema tribale e ipersindacalizzato, messo alle strette dalla crisi economica, dalle regole comunitarie, dalla concorrenza globale, è incapace di soddisfare come e quanto prima le tante clientele nazionali, escludendo i più giovani e i più intraprendenti dal mercato del lavoro. La responsabilità è di tutti i partiti politici, non solo della Lega o del Movimento 5 Stelle, oggi al potere.
Viceversa, i grandi vicini dell’Italia si sono adattati all’euro. La Germania lo ha fatto all’inizio degli anni 2000 con l’Agenda 2010 del cancellierato di Gerhard Schröder; la Francia è stata costretta a seguire, bene o male; la Spagna sta vivendo un nuovo rinascimento dopo una crisi bancaria che ha affrontato accettando un prestito dall’Europa che le ha permesso di ripulire i bilanci creditizi e di rilanciarsi economicamente. L’euroscetticismo italiano non è solo più forte che altrove, è anche più genuino, nel senso che non dà sfogo ad antiche forme di nazionalismo, ma è giust’appunto il riflesso vittimistico e frustrato di un rigetto della moneta unica e delle sue regole. In questo contesto politico, il cammino dell’Europa verso una maggiore integrazione non sarà facile. Alcune istituzioni saranno influenzate dal risultato elettorale più di altre.
Per quanto riguarda la Commissione Europea, la scelta del portafoglio dei singoli commissari non dipende dai Ventotto e dal Consiglio europeo che nomina solo il Presidente dell’esecutivo comunitario. È quest’ultimo che distribuisce le deleghe alle personalità proposte dagli stati membri. In passato i candidati più controversi ed euroscettici sono stati isolati, ottenendo portafogli minori. Un esempio è l’ungherese Tibor Navracsic nell’attuale Commissione Juncker, che si occupa di sport e cultura. Lo stesso Parlamento Europeo ha un ruolo decisivo nel selezionare i commissari. In passato, l’assemblea parlamentare ha bocciato candidati fuori linea, come Rocco Buttiglione nel 2004 perché aveva definito l’omossessualità “un peccato”. Il collegio dei commissari prende le decisioni per consenso. L’esperienza degli ultimi decenni mostra che con il passare del tempo le differenze politiche scompaiono, gli angoli si smussano, l’esprit de corps prende il sopravvento sulle partigianerie politiche.
Sul fronte parlamentare, è vero che la grande coalizione popolare-socialista avrà bisogno dell’aiuto di Liberali e Verdi per governare, ma la maggioranza dei deputati rimane europeista. I partiti più euroscettici hanno ottenuto il 25% dei voti, in altre parole 171 deputati (154 nel 2014, pari al 20% dei suffragi). La sfida per loro sarà di creare un solo gruppo parlamentare (oggi questi movimenti sono distribuiti in tre gruppi diversi) in modo da pesare nei dibattiti legislativi e nelle trattative politiche. Le prime trattative hanno dimostrato quanto i partiti nazionalisti abbiano sensibilità diverse, obiettivi dissimili, culture divergenti. C’è di più: vorranno questi movimenti, soprattutto se al potere, mostrare una eccessiva vicinanza con una maggioranza di Governo che in Italia flirta con l’uscita del Paese dalla moneta unica? Il contagio, inevitabile, potrebbe colpire i Paesi ritenuti più vicini a Roma, anche se fuori dall’euro. L’Ungheria non ha dimenticato che nel pieno della crisi finanziaria, nel 2008, fu costretta a chiedere l’aiuto del Fondo monetario internazionale, ossia un prestito di 11,6 miliardi di dollari. Da allora prevale il rigore di bilancio. Se l’Italia decidesse di tradire le regole dell’euro rischierebbe di scoprire di essere ancor più sola di quanto non lo sia già ora.
L’istituzione più debole è probabilmente il Consiglio. L’organismo co-legislatore insieme al Parlamento che raggruppa i 28 Governi dell’Unione prende le decisioni solitamente a maggioranza qualificata. I campi in cui vige l’unanimità sono principalmente la politica fiscale e la politica estera. I tre Paesi espressamente euroscettici o nazionalisti – ossia Polonia, Ungheria e Italia – non hanno insieme una minoranza di blocco (pari al 35% dei voti ponderati). Possono però ottenerla associando la Repubblica Ceca e il Regno Unito, per esempio. A Bruxelles o a Strasburgo, le alleanze si fanno e si disfano a seconda dei dossier. Non vi sono regole prestabilite e prevedibili. Le scommesse sono calcolate, e di breve periodo. Gli interessi nazionali hanno innumerevoli gradazioni di grigio. I rischi di ostruzionismo si toccano con mano in un Consiglio che già negli ultimi anni ha fatto del surplace nel gestire le derive dello stato di diritto in Ungheria o in Polonia.
Non vi è Governo tra i grandi Paesi dell’Unione che non sia sotto pressione. Dei tre leader di Germania, Francia e Spagna, il più solido appare oggi, sulla scia delle elezioni del maggio scorso, il premier spagnolo Pedro Sanchez. Tuttavia, più in generale, i vicini dell’Italia si sono tutti adattati all’euro, malgrado frange euroscettiche qua e là. Non hanno alcuna intenzione in questo momento di rimettere in discussione la moneta unica. Anzi, l’euro fa parte del loro futuro. Sono pronti probabilmente ad accettare un’Italia che rumoreggia, che difende con più energia che in passato presunti interessi nazionali; non un’Italia che metta in pericolo la stabilità dell’unione monetaria o che imbocchi una deriva autoritaria. In questo caso, il Paese con ogni probabilità verrebbe abbandonato al suo destino. Berlino, Parigi e Madrid seguirebbero l’istinto dell’investitore, che alle prese con troppi rischi pensa inanzitutto a ridurre le perdite.
@BedaRomano
Questo articolo è pubblicato anche sul numero di luglio/agosto di eastwest.
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L’italia fatica ad adattarsi all’euro, diversamente dagli altri Paesi dell’eurozona. Si arriverà a un definitivo processo di integrazione per l’Europa?
Il voto europeo di fine maggio ha messo in luce l’emarginazione dell’Italia rispetto ai suoi partner tradizionali. In nessun altro grande Paese europeo l’euroscetticismo ha avuto la meglio come nella penisola. Il 40% dell’elettorato italiano ha optato per un partito nazionalista, la Lega di Matteo Salvini o Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. A nord delle Alpi, l’ondata euroscettica è fallita. È vero che in Germania la democrazia cristiana della cancelliera Angela Merkel ha messo a segno il risultato più deludente dal 1949, ma a beneficio principalmente dei Verdi non della destra radicale. Alternative für Deutschland ha ottenuto appena il 10% dei voti. In Spagna, il movimento neofranchista Vox si è fermato al 6%, senza riuscire a replicare il successo in Andalusia del dicembre scorso. L’unico Paese ambivalente tra i grandi d’Europa è la Francia. Il Rassemblement National ha ricevuto il 23,5% dei voti, superando la République en Marche del Presidente francese Emmanuel Macron. Il dato è significativo, ma è più una conferma che una novità. Da anni ormai il Paese deve fare i conti con un partito dal nazionalismo antico ed endemico che pesca voti tra le vittime della globalizzazione e tra i delusi della decolonizzazione. Nel mirino non vi è tanto l’euro, quanto il ricordo orgoglioso e nostalgico di una Francia ormai trascorsa.