A Vienna si incontrano i Paesi membri del JCPoA. Parteciperanno anche gli Usa, che non negozieranno direttamente con l’Iran
Il meeting della commissione mista JCPoA a Vienna, Austria, 6 aprile 2021. Delegazione dell’Ue a Vienna/via REUTERS
Le speranze per un pieno ripristino e funzionamento dell’accordo sul nucleare iraniano passano da Vienna, dove gli Stati sottoscriventi dell’accordo JCPoA si sono incontrati per discutere la strada da intraprendere nelle prossime settimane. Il dialogo è evidentemente in salita, con gli Stati Uniti che hanno lasciato il trattato nel 2018 nell’ottica della politica di massima pressione contro il Governo della Repubblica Islamica, e l’Iran che si è ritrovato in una crisi economica causata dall’impossibilità di commerciare liberamente col resto del mondo a causa delle sanzioni imposte da Washington.
Dopo il primo nuovo round negoziale, le sensazioni appaiono positive. Infatti, come affermato dal vice Direttore Generale dell’European External Action Service, il meeting è stato “costruttivo”, e ha segnalato “unità e volontà per un processo diplomatico congiunto con due gruppi di esperti sull’implementazione nucleare e sulla rimozione delle sanzioni. Come coordinatore intensificherò contatti separati con tutte le parti, compresi gli Stati Uniti”. Decisivo il passaggio sulla rimozione delle sanzioni, principale richiesta dell’Iran.
Le complicazioni alla soluzione
Ma la diffidenza iraniana verso i partner del 2015 si fa sentire. L’Unione europea è accusata di non aver rispettato gli accordi presi con Teheran all’indomani dell’addio statunitense, con Bruxelles e i Paesi membri dell’Ue partecipanti al contesto del JCPoA nel mezzo della diatriba. Da un lato gli Stati Uniti di Donald Trump, le minacce al taglio dei fondi alla Nato, l’allontanamento Usa da numerosi contesti multilaterali; dall’altro la Repubblica Islamica, che ha fatto affidamento sugli europei per una ripresa economica che, per un breve biennio, ha permesso al mondo degli affari persiano di respirare.
Ma è il dialogo con Washington che risulta ancora difficile: l’inflazione galoppante che si è generata dall’uscita Usa dal trattato, la difficoltà nel vendere il petrolio all’estero, l’omicidio del Generale Soleimani hanno indebolito l’Iran, causando un vasto disagio sociale accresciuto nel periodo di pandemia. Questi sono solo alcuni dei motivi che impediscono un confronto diretto tra gli esponenti statunitensi e iraniani, che ieri hanno esposto le rispettive posizioni a Vienna, in quello che sarà un lungo percorso che auspicabilmente porterà ad un riavvicinamento tra le parti.
Usa vs Iran: cosa vogliono i due Paesi
Le aperture in campagna elettorale di Joe Biden verso l’Iran sembrano oggi puramente dichiarazioni d’intenti ancora non concretizzatesi fattualmente, nonostante il nuovo Inviato Speciale per l’Iran dell’amministrazione democratica, Robert Malley, sia un negoziatore profondamente attento alle questioni del Paese mediorientale. Gli Stati Uniti chiedono, prima di rientrare nell’accordo, un allungamento temporale delle clausole che permettono all’Iran l’arricchimento di uranio (in percentuali già ridotte, certamente non adeguate alla costruzione di armi atomiche).
Inoltre, Washington punta allo stop dei programmi missilistici della Repubblica Islamica, così come altre attività di carattere prettamente bellico. Di fatto, Washington e Teheran si confrontano militarmente in scenari quali l’Iraq e la Siria, motivo per il quale il Paese non potrà rispondere del tutto positivamente alle proposte Usa.
D’altro canto, il Governo iraniano è deciso a stare sulle sue posizioni: l’unica possibilità per un ritorno diretto al dialogo è l’eliminazione delle sanzioni e il ritorno degli Usa nel patto del 2015. Teheran sostiene che un accordo è già esistente, che i vari limiti ai singoli temi sono già stati decisi nelle trattative che hanno portato alla firma del JCPoA e che le misure statunitensi sono illegali e unilaterali, andando contro il diritto internazionale.
Da un’elezione all’altra
Le elezioni di novembre negli Stati Uniti hanno portato alla vittoria democratica, ma hanno anche lasciato la gestione di un fardello pesante in politica estera. Se verso la Cina la posizione di Washington non è cambiata, non sembra aver visto particolari miglioramenti neanche verso l’Iran. Ma i limiti che Biden si impone sono per lo più di carattere interno: essendo un Presidente al primo mandato, con evidenti velleità per un secondo, il Commander in Chief prende tempo prima di decidere il definitivo ritorno al JCPoA, che inesorabilmente rischia di scontentare parte dell’elettorato statunitense.
Al contrario, in Iran le elezioni si terranno il prossimo giugno: mostrare ora il fianco debole agli Stati Uniti, scendendo a compromessi, rischia di indebolire l’immagine dell’attuale Governo e del fronte riformista, avvantaggiando le figure conservatrici che non hanno intenzioni propositive nei confronti di Washington.
Nei giorni scorsi il Ministro degli Esteri Javad Zarifha ricordato una dichiarazione di Biden del 2019, nel quale criticava il Dipartimento di Stato a guida Mike Pompeo per aver chiesto all’Iran di rispettare un accordo dal quale gli stessi Usa erano usciti. “Allontanandosi dalla diplomazia, Trump ha permesso che un conflitto possa avvenire. Un’altra guerra in Medio Oriente è l’ultima cosa di cui abbiamo bisogno”, scriveva il nuovo Presidente. “Le cattive abitudini sono dure a morire”, ha commentato Zarif.
A Vienna si incontrano i Paesi membri del JCPoA. Parteciperanno anche gli Usa, che non negozieranno direttamente con l’Iran
Le speranze per un pieno ripristino e funzionamento dell’accordo sul nucleare iraniano passano da Vienna, dove gli Stati sottoscriventi dell’accordo JCPoA si sono incontrati per discutere la strada da intraprendere nelle prossime settimane. Il dialogo è evidentemente in salita, con gli Stati Uniti che hanno lasciato il trattato nel 2018 nell’ottica della politica di massima pressione contro il Governo della Repubblica Islamica, e l’Iran che si è ritrovato in una crisi economica causata dall’impossibilità di commerciare liberamente col resto del mondo a causa delle sanzioni imposte da Washington.
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