Insulti contro Gustavo Petro e Lopez Obrador, provocazioni e sbeffeggi contro Pechino, Brasilia e persino contro la Casa Bianca. Il pericoloso ‘stile Milei’ nelle relazioni internazionali mette in difficoltà l’Argentina
Negli ultimi giorni Javier Milei è stato nuovamente protagonista di una grave crisi diplomatica in America Latina. Durante un’intervista al canale statunitense CNN, il presidente argentino ha sostenuto che il suo omologo colombiano, Gustavo Petro, è “un assassino terrorista e comunista”, che starebbe portando il proprio paese sul sentiero di Cuba e Venezuela. Lo spezzone è stato mandato in onda mercoledì scorso, ed ha provocato l’immediata reazione del Ministero degli Esteri della Colombia, che dopo aver richiamato in patria il proprio ambasciatore, ha espulso diversi diplomatici argentini da Bogotà.
In un comunicato pubblicato mercoledì stesso, il governo colombiano sostiene che “non è la prima volta che il signor Milei offende il presidente colombiano, intaccando le storiche relazioni di fratellanza tra Colombia e Argentina. Le espressioni del presidente argentino hanno deteriorato la fiducia della nostra nazione, oltre a offendere la dignità del presidente Petro, che è stato eletto in modo democratico”. Effettivamente già a gennaio Milei aveva pronunciato parole molto simili, portando alla prima crisi diplomatica tra i due paesi. Durante il fine settimana i due paesi hanno moderato i toni e riattivato i canali diplomatici tradizionali, ma la sfiducia reciproca è ormai palese. Durante l’intervista il presidente argentino ha anche definito il presidente messicano, Manuel Lopez Obrador, “un ignorante”, aggravando anche la crisi con la seconda economia più importante dell’America Latina.
Le aggressioni dirette si sommano a decisioni e gesti che sembrerebbero isolare sempre più il paese nella regione. Proprio in questi giorni si attende una definizione molto importante da parte di Buenos Aires intorno alla continuità dell’Unasur, organizzazione internazionale fortemente voluta dal governo brasiliano di Lula Da Silva, che già nel 2016 fu svuotata dai governi conservatori della regione e recentemente ricostituita.
Secondo fonti della diplomazia argentina, Milei sarebbe in procinto di annunciare nuovamente l’uscita del paese dall’Unasur, uno schiaffo alla diplomazia brasiliana, che nelle ultime settimane si è addirittura prodigata per facilitare l’accesso dell’Argentina ai crediti della Banca interamericana di sviluppo e la Banca di Sviluppo dell’America Latina.
Già la decisione di rifiutare l’invito a entrare nei Brics a gennaio, e gli insulti personali di Milei nei confronti di Lula, avevano incrinato le relazioni tra i due paesi. Ma non è solo contro gli avversari politici del proprio vicinato che si lancia il nuovo presidente argentino. Un gesto di scherno era stato riservato anche al presidente degli Usa, Joe Biden a febbraio: poche ore dopo aver ricevuto il Segretario di Stato Antony Blinken a Buenos Aires, Milei ha preso un aereo per andare a dare il proprio appoggio alla campagna presidenziale di Donald Trump alla Conservative Political Action Conference di Washington.
L’aggressività verbale non riguarda solo le dichiarazioni del Presidente, ma sembra essere una costante anche in altri funzionari quando si tratta di politica estera. Pochi giorni fa il portavoce del governo, Manuel Adorni, ha sostenuto durante la sua conferenza stampa giornaliera, senza celare certa arrogante ironia, che erano appena arrivati dalla Cina una serie di aiuti destinati alla lotta contro il covid-19, sbeffeggiando il presunto ritardo della consegna.
L’Ambasciata cinese ha immediatamente risposto che si trattava di ospedali di campagna, parte della cooperazione sanitaria di Pechino, e che nulla avevano a che fare col contrasto alla pandemia. Anche la Ministra degli Esteri, Diana Mondino, è spesso incorsa in gaffe che trasudano una certa aggressività diplomatica, come quando incolpò “il socialismo” della crisi di sicurezza dovuta alla guerra narcos in Ecuador. Venerdì scorso, nel mezzo della polemica sulle dichiarazioni di Milei sugli altri presidenti latinoamericani, Mondino ha partecipato su X (ex Twitter) ad una campagna per rendere virale una risposta ad un tweet contro Lopez Obrador, che si chiedeva come un popolo intelligente come quello argentino avesse votato un “fascista conservatore” come Milei.
La scelta intrapresa da Milei e il suo entourage è certamente rischiosa. Nessuno degli insulti riferiti, né dei gesti apertamente ostili di cui è stato protagonista dall’inizio del proprio mandato, ha portato vantaggio alcuno alla politica estera del proprio paese ed anzi, ha generato grandi costi per la credibilità del governo. A Buenos Aires ci si chiede se si tratti semplicemente di un tratto legato alla personalità del Presidente, o si possa parlare di una strategia segnata dall’aggressività diplomatica che va oltre la semplice messa in scena del personaggio Milei. E forse qualche costante che permette di ipotizzare una sorta di modello ci può essere.
La storia della politica estera argentina si riassume generalmente a partire dall’avvicendamento di due grandi scuole alla guida della diplomazia del paese: quella autonomista, il cui principale obiettivo è quello di stabilire vincoli alternativi a quelli dettati dalle potenze egemoni a livello globale e regionale -fondamentalmente Washington -, rafforzare il regionalismo latinoamericano e i legami con i paesi del sud globale (Brics, G77+Cina ecc…); l’altra grande scuola della politica internazionale argentina è quella del realismo periferico, contraddistinto da una visione globalista che colloca il paese subordinato alle linee generali della politica internazionale stabilite delle potenze globali, ma cercando di trarre vantaggi per il proprio interesse nazionale evitando di contraddire l’ordine mondiale.
Milei è chiaramente un globalista, nemico di qualsiasi tipo di regolazione del sistema internazionale e strenuo difensore dello status quo – più volte ha asserito che i suoi modelli nel mondo sono gli Usa e Israele -, che si è però trovato a guidare un Paese con un bisogno disperato di maggior autonomia.
Soffocata dal debito col Fondo Monetario Internazionale ed esclusa dal mercato globale del credito e investimento, l’Argentina galleggia dal 2019 grazie agli accordi stabiliti con le potenze che hanno fatto della sfida all’ordine internazionale una parte consistente della propria politica estera.
Più per pragmatismo che per convinzione, il governo peronista di Alberto Fernandez in carica fino al 10 dicembre scorso è riuscito a sostenere i rapporti commerciali coi suoi principali partner, Brasile e Cina, nonostante le avversità rappresentate dal governo Bolsonaro (apertamente anti-globalista e ostile al peronismo di Fernandez) e la pandemia.
Milei sembra ora convinto della possibilità di trascurare quei rapporti in virtù di due assiomi che guidano il suo governo: da una parte la liberazione totale dell’azione privata, per cui se le aziende vogliono fare affari con la Cina o col Brasile, che agiscano da sole, il governo non deve né intralciare né favorire quel tipo di scelte.
Dall’altra, la convinzione di essere sulla strada giusta col proprio piano motosega; in soli tre mesi ha raggiunto l’obiettivo di azzerare il deficit fiscale e ordinare i conti dello stato, nonostante abbia provocato una catastrofe sociale: l’inflazione accumulata in tre mesi è superiore al 70%, mentre salari e pensioni hanno ricevuto aumenti di appena il 22%; lo Stato ha licenziato 70.000 dipendenti pubblici, congelato gli investimenti in infrastruttura e paralizzato di fatto anche il settore privato della costruzione, con tagli di oltre 100.000 lavoratori.
La povertà è la più alta degli ultimi 20 anni, e anche il Fondo Monetario Internazionale ha avvertito il governo di Buenos Aires che lo shock economico imposto sta portando ad un costo sociale troppo alto, e che eliminare sussidi e ammortizzatori sociali potrebbe destabilizzare l’intero sistema.
Milei è convinto però che a medio termine la riorganizzazione forzata che ha imposto delle principali variabili macroeconomiche riaprirà le porte degli investimenti internazionali, specialmente europei e statunitensi, per i quali sta lavorando ad una serie di riforme che assicurino garanzie giuridiche all’arricchimento privato straniero. È la spavalderia che sorge da queste certezze quella che si esprime negli insulti e azioni intraprese nelle ultime settimane, che mettono però ancor più in difficoltà un Paese che si trova in una situazione delicatissima.
C’è poi un’altra certezza che guida l’agire internazionale del governo: che le “idee della libertà” sono destinate a trionfare nel mondo. Durante il suo polemico discorso al World Economic Forum di Davos ha spronato i leader mondiali a camminare nella sua stessa direzione, suscitando l’interesse di alcuni grandi ed eccentrici magnati – Elon Musk in primis – e certo stupore – se non direttamente ilarità – nella maggior parte dei “policy makers” presenti al summit.
Milei però sa che esiste settori della politica internazionale con cui, nonostante le evidenti divergenze ideologiche, può contare in futuro per costituire alleanze strategiche. Tra questi spicca Donald Trump, che in piena corsa verso la Casa Bianca ha più volte elogiato il governo Milei. Nella lista si trovano anche gli spagnoli di Vox, l’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro e la sua famiglia, il primo ministro ungherese Viktor Orban, e secondo la stampa argentina, anche la primo ministro italiana, Giorgia Meloni, che dopo aver ricevuto il presidente argentino a Palazzo Chigi gli ha esteso l’invito a partecipare al G7 di Borgo Egnazia a maggio.
Un’internazionale conservatrice con cui però Milei ha serie divergenze: l’argentino è un “anarco-capitalista” contrario a qualunque forma di protezionismo, è anti-nazionalista, un’identità politica legata alla tradizione peronista e di sinistra in Argentina, e non conta certo sul sostegno delle principali istituzioni tradizionali della società argentina – forze armate, chiesa, grandi proprietari terrieri.
Milei, come Trump negli Usa ed altri esponenti reazionari a livello globale, rappresenta la voce delle classi medio-basse impoverite, a detta loro, dalle politiche sociali ed economiche del progressismo che hanno caratterizzato i primi anni 2000 un po’ in tutto il mondo. Si mostra dunque fiducioso nel futuro del fronte diversissimo che si oppone ad esse in diversi paesi, e si scaglia contro quelli che ne rappresentano invece una certa continuità, come Petro, López Obrador e Lula a livello latinoamericano.
Il rischio però di Milei, così come in politica domestica, è quello di mettere il carro davanti ai buoi, di prefigurare un nuovo ordine globale ancor prima che esso cominci a materializzarsi ed agire in modo assolutamente incoerente e pericoloso per la stabilità del proprio paese. È questa l’interpretazione su cui gli addetti ai lavori sembrano convenire, e la grande preoccupazione si concentra ora sugli effetti a lungo termine di un comportamento simile da parte del Presidente e dei suoi funzionari.
Negli ultimi giorni Javier Milei è stato nuovamente protagonista di una grave crisi diplomatica in America Latina. Durante un’intervista al canale statunitense CNN, il presidente argentino ha sostenuto che il suo omologo colombiano, Gustavo Petro, è “un assassino terrorista e comunista”, che starebbe portando il proprio paese sul sentiero di Cuba e Venezuela. Lo spezzone è stato mandato in onda mercoledì scorso, ed ha provocato l’immediata reazione del Ministero degli Esteri della Colombia, che dopo aver richiamato in patria il proprio ambasciatore, ha espulso diversi diplomatici argentini da Bogotà.